Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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III
LA CARITÀ ESTERNA1


Ieri abbiamo considerato il bisogno che vi è della carità nella vita interna della Congregazione. Tutto l’apostolato è manifestazione dell’amore che si porta agli uomini, che si porta al mondo intero. Ma questa manifestazione esterna occorre che sia preceduta dall’interno, cioè dalla pratica della carità all’interno dell’Istituto. Tuttavia anche la manifestazione esterna dell’Istituto è necessario che proceda dal cuore. Amare! E se veramente si ama: Questo basta2, diceva S. Giovanni. Questo basta, perché S. Agostino si esprime così: Ama et fac quod vis3. Quando si ama tutto quello che si fa procede dall’amore e se procede dall’amore allora la vita sarà certamente conforme al Signore.
Gesù ci mostra il suo cuore, ma questa manifestazione del suo cuore è una lezione, un insegnamento, mentre d’altra parte è un invito a confidare in lui. Manifestazione del suo amore, un insegnamento: «Come ho fatto io, fate anche voi»4, poiché egli ci ha dato l’esempio. E fino a che punto ci ha amato il Signore? Non ci ha amato solamente fino a un certo punto, ma ci ha amato fino a dare se stesso e sacrificarsi per noi.
Molte volte non si ha un vero concetto della carità: si ama chi ci ama, ma Gesù si è offerto anche per i nemici. Dopo che
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lo avevano inchiodato, la prima supplica al Padre è stata questa: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno»5. E li scusò! Se c’era un punto dove sembrava che fossero inescusabili era proprio quello che riguardava ciò che era stato fatto: la condanna a morte, la crocifissione e tutto il complesso di insulti che, appena fu elevato sulla croce, vennero lanciati verso di lui.
La carità non è simpatia, la carità non è un atto esteriore di gentilezza per accaparrarsi la fiducia, la benevolenza, oppure la beneficenza. Non è un amare chi ci ama. La carità è qualcosa di più intimo, di più profondo. È un cercare il bene dell’amato, è darsi all’amato, è sacrificarsi per l’amato. Carità e sacrificio sono così collegati assieme che non possono stare l’uno separato dall’altro. Amare chi ci ama lo fanno anche i pagani e quindi non è cristianesimo, e tanto meno vita religiosa. Che cosa faremmo di più noi cristiani e religiosi se amassimo soltanto chi ci vuole bene, chi ci mostra stima, chi ci fa gentilezze oppure chi abbiamo interesse ad amare? Sarebbe un egoismo, l’opposto della carità.
Eppure, anche nella vita religiosa si arriva a pervertire l’idea della carità, così si finisce con il sentire solo più il sacrificio e non ciò che è la vera carità. Occorre che pensiamo: il segno maggiore di carità che ci ha dato Gesù Cristo è quello di lasciarsi crocifiggere per noi peccatori e di lasciarsi poi in cibo per le nostre anime nella Comunione. La Comunione se ci porta alla carità è sempre una Comunione ben fatta. Se non ci porta all’amore di Dio e insieme all’amore del prossimo, non è Comunione ben fatta.
Le due carità costituiscono in fondo una sola carità, perché si ama Iddio per se stesso e si ama il prossimo per amore di Dio. Quanto vi è da fare, quanto vi è ancora da camminare su questo punto in tante comunità! Causa principale è il concetto falso della carità, poi l’egoismo. Quindi bisogna cambiare le idee. Non acquistiamo carità se non abbiamo nella nostra mente il vero concetto della carità e i veri motivi per cui dobbiamo amare. La prima riforma va fatta nei pensieri, secondo
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nei sentimenti, come abbiamo veduto ieri. Quindi, riformare i pensieri, poi verrà la riforma del cuore, e quando ci sono queste due riforme, allora si arriva alla carità in tutto il complesso della vita, in tutto il complesso delle relazioni quotidiane con le persone con cui si convive.
Vi sono persone che pensano più agli altri che a sé, a quel che è necessario per l’Istituto che non ciò che è necessario e comodo per sé. La carità verso l’Istituto prima della carità verso gli individui. Come potrebbe essere? Bisogna che noi pensiamo prima all’Istituto, perché il bene comune è da anteporsi al bene singolare, privato, di ognuno. Amare veramente la Congregazione e amare le persone. Quando ognuna sa che si immola al Signore, e questa è la professione attraverso la Congregazione, nella Congregazione, compiendo i doveri della Congregazione, allora ecco che il cuore si volta verso Dio, e voltandolo verso Dio incontriamo sulla strada le persone che compongono l’Istituto. Amare il bene comune! Non essere così egoiste da guardare noi stesse, quello che è comodo, l’orario che mi piace, l’occupazione che è secondo i miei desideri, che io sia comoda nel mio ufficio e poi le altre e gli altri! No. Bisogna cercare quello che è il bene comune nella Congregazione.
Tante volte una cosa non ci piace: non ci piace l’ufficio, non ci piace la camera, non ci piace la minestra, non ci piace la compagnia della tal persona, non ci piace come quella si comporta verso di noi. Allora confessiamo subito: Io non ho carità verso l’Istituto. La carità è un’immolazione, non uno sfruttamento della Congregazione. È un’immolazione, non uno sfruttamento delle cose della Congregazione a proprio vantaggio. Certo, dobbiamo godere dei beni della Congregazione, quindi, la Comunione, la Messa, poi la vita religiosa, la silenziosità, gli orari e tutti i beni che vengono dalla vita religiosa: gli avvisi, le conferenze, e utilizzare tutto a nostra santificazione, ma non come uno sfruttamento per egoismo. Se noi amiamo la Congregazione ci immoliamo, ci sacrifichiamo. Ma io vorrei questo, vorrei quello. La parola ‘volere’ non è compatibile con la professione religiosa. Si entra in Congregazione appositamente per avere i frutti della vita religiosa, per sacrificarsi
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per la vita religiosa, per sacrificarsi per il bene della Congregazione, altrimenti ciascuno poteva vivere per sé, liberamente, e magari darsi a una vita di pietà nel mondo.
Saperci sacrificare! Questo è il prezzo della carità. La carità porta al sacrificio quando è vera carità, e il sacrificio alimenta la carità. Quante manifestazioni a volte ci sono nella vita quotidiana che non procedono affatto dal desiderio di giovare, di fare del bene, di consolare, di incoraggiare, di rendere contenti, di portare al bene, di dare buon esempio, di pregare per il bene comune. E vediamo che sotto il pretesto dell’amore di Dio non viva l’egoismo e che ci illudiamo! Dunque, vera carità che è in primo luogo verso l’Istituto, in secondo luogo è verso le singole persone che compongono l’Istituto.
Allora considerare due cose: come si parla degli altri e come si opera per gli altri in parole e opere. Si parla in bene? E non solamente quando si fanno degli apprezzamenti, ma voglio dire: si parla in bene, e cioè si rilevano le cose buone e si coprono le piccole miseriole della vita quotidiana? E si cerca di scusare, di incoraggiare, di sostenere? E si dicono sempre parole che contribuiscono all’unità, all’unione nella Congregazione? A volte per l’apprezzamento su una disposizione che è stata data o un apprezzamento contrario, che cosa avviene? Avviene che si rende nella comunità un danno, e cioè, non si porta la comunità ad accettare, eseguire con coraggio, con fede, con entusiasmo quello che è stato disposto. Si trovano sempre obiezioni. Creare obiezioni, come potrebbe qualche volta anche esserci, ma siano obiezioni con fondamento. Oppure [si creano obiezioni],perché non si vede il tutto, perché i superiori, le superiore non possono solamente sapere quello che sanno le altre, le inferiori, se no non sarebbero più le prime! Devono sapere molte cose che le singole persone non sanno. Quando si porta all’obbedienza, ad eseguire, all’unione, o si parla di lettere, o si parla di relazioni, o si parla invece di persone della comunità, tra uguali, sempre portare l’incoraggiamento spirituale, il sostegno, far vedere il lato buono delle cose. Questa è grande carità.
Certo, parlare bene dell’una o dell’altra ha il suo vantaggio ed è obbligatorio. Ma c’è di più: contribuire a formare un am-
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biente buono, un ambiente di letizia, un ambiente di pace, un ambiente anche di entusiasmo della vita religiosa, della Congregazione e dell’apostolato. Il pessimismo è tanto dannoso! Si potesse vedere che cosa ne succede in un’anima! Voglio dire che cosa succede quando nella casa si semina il pessimismo, lo scoraggiamento. Ne patisce la pietà, ne patisce l’osservanza religiosa, tutte insieme ne patiscono e ne patiscono le singole. Sempre santo entusiasmo, sempre, incoraggiamento, dovessimo anche immolarci! Per intendersi bisognerebbe confrontare l’ultima lettera di S. Paolo6 quando stava già in carcere, vicino a morire, vicino al martirio. Anche quando noi ricevessimo dei torti, fossimo umiliati e non si apprezzassero i nostri beni, abbiamo ancora sempre delle ragioni da portare per incoraggiare, per sostenere, per eccitare all’entusiasmo. Ci fa tanto pena leggere le ultime pagine della vita di S. Paolo!
Quando, circa un mese fa, si leggevano in refettorio da noi queste ultime pagine, e S. Paolo mostrava come era stato abbandonato da tutti in carcere, non aveva neppure più il mantello per scaldarsi e domandava che gli portassero delle carte dall’oriente, perché ne aveva bisogno, in refettorio si fece un silenzio profondo, ci fu persino una sospensione dal mangiare, e alcuni avevano le lacrime agli occhi. Tuttavia, in quell’abbandono egli usava ancora tutti i motivi e tutte le espressioni di incoraggiamento, di sostegno. Ecco, di sostegno! Perché ogni apostolato fosse praticato con entusiasmo da tutti e la vita fosse sempre meglio vissuta.
Dunque, formare l’ambiente! Tutto quel che riguarda le singole persone, ma specialmente l’ambiente di entusiasmo. Se si vuol criticare, se si vogliono trovare i difetti ce ne saranno sempre, ma noi criticando aumenteremo i difetti e non li toglieremo.
Inoltre, fare del bene a tutte le persone. Ho detto: prima alla comunità, poi alle singole persone. Per le singole persone: bisogna ricordarsi delle sette opere di misericordia corporale e delle sette opere di misericordia spirituale. E quei bei libricci-
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ni che sono usciti7, sebbene siano stati scritti per i bambini, i principi generali a cui si appoggiano quelle raccomandazioni valgono per tutti. Sì, carità in tutte le maniere sia corporalmente, sia spiritualmente. Ricordiamoci che dobbiamo servire e non comandare. Anche quando si comanda, si comanda per servizio. In generale si comanda per servire. Se si mette ben fisso nella mente: «Io sono stato fra di voi come uno che serve e non come uno che comanda»8, allora ci troviamo nella giusta posizione. Servire nel modo con cui Gesù ha lavato i piedi agli apostoli9.
E quel religioso voleva farsi le ragioni, ma diceva: Io ho i miei diritti, la mia personalità, bisogna che mi rispettino, e il padre spirituale gli ha risposto: Se vai nel mondo potrai far valere i tuoi diritti e la tua personalità; se sei religioso mettiti a lavare i piedi. Ma che diritti abbiamo ancora al di fuori di questo: di farci più santi? Questo, sì. Essendoci consacrati a Gesù, abbiamo il diritto di avere più grazie da Gesù, di farci più santi: questo è il diritto! Di avere più luci da lui, di avere più fortezza, di ricavare maggiore frutto dalla Confessione, dalla Messa, dalle Visite. Questi sono i nostri diritti! Perché, mentre noi ci siamo donati a Gesù, Gesù è diventato nostro Sposo e lo Sposo deve comunicare i suoi beni alla sposa. Questi sono i diritti e questi diritti si fanno valere con la fede e con l’umiltà. Ecco i due nomi: fede e umiltà. Fede nella bontà di Dio. Umiltà, non meritiamo niente e tutto aspettiamo da Dio.
Il Signore vi benedica. Benedica i propositi di ognuna, e voglia il Signore concedervi questa grazia: quando vi raccoglierete di nuovo, un’altra volta per gli Esercizi, possiate dire: Ho fatto poco, ma ho cercato di avere più carità. E basterà.
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1 Meditazione tenuta a Grottaferrata (Roma) il 16 gennaio 1958. Trascrizione da nastro: A6/an 42a - ac 73a. Dal Diario Sp.: “Verso le ore 8 va a Grottaferrata per una meditazione alle Figlie di San Paolo”.
2 S. Girolamo nel Commento della lettera ai Galati 6,10, riferisce che S. Giovanni, vecchio, ripeteva sempre ai discepoli: “Figlioli, amatevi l’un l’altro, se fate questo basta”. San Girolamo (347-420), nato a Stridone in Dalmazia, sacerdote, Padre e Dottore della Chiesa. A lui si deve la traduzione della Bibbia dal greco e dall’ebraico al latino detta Volgata.
3 S. Agostino, Commento alla Prima lettera di Giovanni 7,8: “Ama e fa’ ciò che vuoi”.
4 Cf Gv 13,15.

5 Cf Lc 23,34.

6 Cf Seconda lettera di S. Paolo a Timoteo.

7 Cf Calabresi M. Cecilia FSP, Sette opere di misericordia corporale -Sette opere di misericordia spirituale, Collana “7'', Figlie di San Paolo, Alba 1956.
8 Cf Lc 22,27.
9 Cf Gv 13,2-20.