Anno XXXII
SAN PAOLO
Gennaio 1957
Roma Casa Generalizia,
AVE MARIA, LIBER INCOMPREHENSUS, QUAE VERBUM ET FILIUM PATRIS MUNDO LEGENDUM EXHIBUISTI (S. EPIPHANIUS EP.)
ANNO A S. PAOLO APOSTOLO
DAL 25-1-1957 AL 25-1-1958
Dopo aver consacrato un anno al Divino Maestro Gesù: dopo aver consacrato altro anno alla Regina Apostolorum; sentiamo il bisogno ed insieme il dovere e l'utilità di un anno a San Paolo Apostolo, nostra guida e nostro protettore.
Molti l'avevano chiesto subito dopo l'anno dedicato al Divin Maestro, giacché S. Paolo ne fu il più profondo interprete.
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I fini che ci proponiamo sono:
1) Mostrare la nostra riconoscenza al Padre nostro che ci ha custoditi, guidati, illuminati nel duro cammino di tanti anni, particolarmente nei primi.
2) Conoscere meglio S. Paolo: sulla sua alta personalità umana e spirituale molto si è scritto; ma rimane ancora tanto da dire. «Conosci tuo Padre»: la sua santa vita, il suo apostolato, la sua dottrina, il suo potere presso Dio. Conoscere l'Apostolus Christi, il Magister gentium, il Minister Ecclesiae, il Vas electionis, il Predicator evangelii, il Martir Christi. Conoscere in quanta parte Egli è entrato nella Dogmatica, morale, liturgia, organizzazione della Chiesa.
3) Imitare meglio le sue virtù. Egli fu il vero Homo Dei: un uomo in modo eccezionale colmato di grazie, un uomo cui particolarmente sono affidate le cose di Dio, un uomo in modo speciale obbligato a Dio, un uomo che poté dire «gratia eius in me vacua non fuit». Egli un cantore di Dio, banditore della gloria di Dio, promotore del culto di Dio, propugnatore delle leggi di Dio, il segregato di Dio, il prigioniero di Cristo, che vive in Cristo.
4) Pregare San Paolo. Tre ragioni: il potere dei Santi presso Dio è in proporzione del lavoro fatto per Dio sopra la terra. Inoltre egli è padre della famiglia; e un padre pensa ai figli. Possiamo ottenere la sua bontà con le nostre preghiere.
5) Amare l'Apostolo. Quando si dice semplicemente l'«Apostolo» si intende di riferirsi a San Paolo; talmente la sua figura si eleva su la comune: «abundantius laboravi».
6) Ottenere che quanti sono sparsi nelle varie nazioni, nostri e nostre, sappiano, su l'esempio di S. Paolo, sapientemente e santamente distinguere quello in cui devono uniformarsi; quello che devono portare e comunicare; quello che devono evitare. Invocare il Magister gentium, nostro padre e modello.
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Pratica.
1) Aprire con solenne funzione l'anno paolino il 25 gennaio 1957.
2) Nella lettura del refettorio, nelle letture spirituali, anche privatamente preferire la biografia e Lettere dell'Apostolo.
3) Invocarlo nel lavoro di santificazione religiosa facendo più volte la sua novena e recitando spesso, particolarmente al lunedì, la sua coroncina e le altre orazioni che abbiamo nel libro delle Preghiere.
4) Prendere ad imitarlo in una virtù speciale.
5) Celebrarne con particolare fervore e solennità il suo mese e le sue feste. Predicarne più spesso. Affidargli le vocazioni, l'apostolato, le macchine, le iniziative. Ornare le sue immagini e scegliere fioretti.
Ciascuno poi avrà pie e proprie iniziative.
Riceveremo molte e preziose grazie.
***Alcune incoraggianti espressioni di S. Paolo:
«Itaque, fratres mei dilecti, stabiles estote et immobiles; abundantes in opere Domini semper, scientes quod labor vester non est inanis» (I Cor XV,58).
«Scimus enim quoniam si terrestris domus nostra huius habitationis dissolvatur, quod aedificationem ex Deo habemus, domum non manufactam aeternam in coelis» (II Cor, V,1).
«Cum Christus apparuerit, vita vestra: tunc et vos apparebitis cum ipso in gloria» (Col. III, 4).
OREMUS - Deus qui conspicis quia ex nulla nostra actione confidimus: concede propitius; ut contra adversa omnia Doctoris gentium protectione muniamur. (Dom. Sessagesima).
Sac. Alberione.
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SAULUS QUI ET PAULUS
Il 1957 sarà, per grazia di Dio, dedicato al nostro Padre S. Paolo: per conoscerlo, per acquistare maggior confidenza con lui, per imitarlo meglio. Avremo certo come ricambio da parte sua un intervento più sensibile nella nostra vita di figli suoi, nella nostra opera di collaboratori con lui.
Gli articoli che verranno pubblicati sul San Paolo nel corso dell'anno mirano a facilitare questo triplice proposito.
CONOSCERE S. PAOLO
Dobbiamo confessare che S. Paolo è un Santo poco conosciuto, ma non dobbiamo aver vergogna di confessare che anche noi lo conosciamo poco.
Il grande innamorato di S. Paolo, anch'egli santo, Giovanni Crisostomo, mentre si rallegrava grandemente ed esultava ogni qualvolta la Liturgia gli poneva in mano tre o quattro volte per settimana le epistole paoline, e godeva nell'udire il suono inimitabile di quella tromba spirituale e lo assaporava ed approfondiva così da sembrargli di vedere dinanzi a sé l'Apostolo presente e parlante, era anche costretto a dire: «Ma soffro e mi struggo dal dispiacere, notando che non tutti conoscono quest'uomo come si merita, fino al punto che qualcuno ignora persino il numero delle lettere da lui scritte».
La seconda parte del rimprovero forse tra noi non è meritata, poiché fino a sapere che l'Apostolo scrisse 14 epistole, arriviamo; ma certo la prima parte ci tocca da vicino; sono pochi coloro che conoscono come si deve sì grande Uomo! Così grande che S. Giovanni Crisostomo potè dire : L'avvenire non vedrà più un altro Paolo (Om. sulla compunz.).
Perché? Lo si considera troppo grande, quindi lontano da noi; le sue lettere si sanno difficili, perciò si pensano incomprensibili per noi, o quasi. Ma queste sono più scuse che ragioni. «Se si toglie Paolo da un falso piedestallo su cui lo pongono certe biografie, amanti di fatti luminosi e di un susseguirsi di entusiastiche considerazioni ammiratone per le virtù del protagonista, Egli apparirà vivo e vero nella sua continua ascesa verso un
bene superiore» (A. Penna). S. Giovanni Crisostomo ci dice: Non è vero che non si possa capire S. Paolo : piuttosto non ci si preoccupa d'intrattenersi con lui. Quante volte ci si trattiene dalla lettura delle Lettere dell'Apostolo pensando che sono difficili, e che quindi non le comprenderemmo! e ci si accontenta di girar loro attorno, di leggere la vita di lui, di assaporare qualche passo trito e ritrito dei suoi scritti, riferito da scrittori e predicatori, e non si osa accostare le labbra alla fonte genuina non solo del pensiero, ma della vita del grande Apostolo !
Eppure, ecco ancora S. Giovanni Crisostomo confessare: «Né ciò che sappiamo, se pur sappiamo qualcosa, deriva da felicità d'ingegno, bensì piuttosto dal fatto che abbiamo sempre tra mano i suoi scritti e ci tratteniamo con lui con grande amore». Conoscenza degli scritti ed amore all'Apostolo, ecco ciò che ci avvicinerà a lui!
Prendere perciò confidenza con le Lettere paoline, leggerle e rileggerle, meditarle e nutrircene sino a farle diventare nostro pensiero, nostra luce, nostro cibo.
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Sono infatti le Lettere, con la seconda parte del libretto Gli Atti degli Apostoli, la fonte esclusiva della conoscenza del pensiero e della vita di S. Paolo.
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Un uomo di spirito ha detto un giorno: Tra tutti i libri agiografici sarebbe utilissimo scriverne uno non già sulle virtù, ma sui difetti dei Santi (G. Holzner, 116). Essi infatti, non sono nati santi, si sono fatti santi. Il vederli percorrere la nostra via, subire le nostre prove, patire per debolezze simili alle nostre, ce li fa sentire più vicini, più alla portata della nostra imitazione.
E' bene considerare qualche volta S. Paolo anche come uomo: lo si sente più vicino a noi.
PAOLO ESPOSTO ALLA LOTTA
Di S. Paolo si può dire che non sappiamo se non quanto egli stesso ci manifesta di sé. Ma quali profondità possiamo intravvedere tra gli scarni cenni autobiografici, quali ricchezze di natura; quale energia di carattere !
Un'intelligenza sublime, anzi un genio autentico con una poderosa cultura sacra e profana, un animo tenero come quello di una mamma e intrepido come quello di un eroe, un cuore arso dalla grande idea di fare arrivare fino ai più estremi confini del mondo il fuoco che Gesù Cristo ha portato sulla terra, cuore sempre consumato e sempre ardente, sempre anelante di morire e sempre timido di non aver lavorato sufficientemente, sempre snervato e sempre entusiasta, instancabile e imbattibile, oceanico nell'amore a Gesù Cristo e alle anime comprate col suo sangue divino (B. Pelaia). E in mezzo a queste sublimità, piccoli nei ogni tanto emergenti, rivelati dall'Apostolo con parola cruda e sincera, contento di far risaltare, con ciò, che egli stesso è conquista e monumento della grazia misericordiosa del Cristo.
L'uomo vecchio in S. Paolo non scomparve mai. Creato in lui, dalla grazia, l'uomo nuovo, tra i due si scatenò una lotta senza quartiere, destinata a prolungarsi sino all'ultimo giorno della vita... Lo stratega impose un lungo tirocinio per piegare l'ispida e dura natura ai dettami della Grazia; l'uomo vecchio andò bensì assottigliandosi... ma totalmente debellato e soppresso non fu mai (G. Ricciotti).
Consideriamo S. Paolo in qualche episodio della sua vita.
Circonciso l'ottavo giorno, di stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, quanto a legge fariseo, quanto a zelo persecutore della Chiesa, quanto a giustizia, quella della legge, irreprensibile (Fil. 3, 5s), fu educato nella setta e nelle prerogative e anche nel tronfio egoismo dei farisei, ai quali apparteneva il padre; e di tale educazione risenti gli effetti un po' in tutta la vita.
Sappiamo, p. es., che ogni dottore della legge imparava anche un mestiere da esercitare secondo l'opportunità, per non essere costretto a dipendere da alcuno. San Paolo neppure da apostolo abdica a questa usanza e ripetutamente se ne vanta. Non vuol mai dipendere.
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«Non sono io libero?, scrive ai Corinti, non sono apostolo? non ho forse veduto Gesù, il Signor nostro? non siete voi forse l'opera mia nel Signore? Se per altri non sono apostolo, per voi sono bensì tale, giacché il sigillo del mio apostolato siete voi nel Signore. La mia difesa, contro coloro che mi inquisiscono, è questa. Non abbiamo forse il diritto di mangiare e di bere? non abbiamo forse il diritto di condurre attorno con noi una donna sorella, come anche fanno i restanti apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? Forse che solo io e Barnaba non abbiamo il diritto di stare senza lavorare? Chi è mai che milita a proprie spese? chi pianta una vigna e non ne mangia il frutto? ovvero chi fa pascolare il gregge e non mangia del latte del gregge?... Se noi seminiamo per voi beni spirituali, è gran cosa se mietiamo i vostri beni temporali? Se altri sono partecipi di questo diritto su di voi, non ne siamo partecipi anche più noi? Eppure non ci serviamo di questo diritto, eppure sopportiamo ogni cosa pur di non porre alcun intoppo al Vangelo di Cristo... Anche il Signore ordinò a quei che annunziano il Vangelo di vivere del Vangelo. Io invece non mi sono servito di nessuna di queste cose!» (1 Cor. 9,1-15). «In ogni cosa mi astenni dal recarvi peso, e me ne asterrò» (2 Cor. 11,9). In questo susseguirsi sempre più serrato di domande si sente far capolino il fariseo che non vuole aver da dir grazie a nessuno, ma mantenendosi al di sopra degli altri, vuole che gli altri siano a lui obbligati.
Altre volte il suo carattere irruente e persino duro, domato ma non ucciso, gli prende la mano e gli strappa atti e parole che sanno di asprezza.
E' noto il così detto episodio di Antiochia. Paolo si trovava di fronte a Pietro di cui pur riconosceva l'autorità, a cui prima di iniziare l'apostolato era andato a sottoporre la propria dottrina per averne l'approvazione, a cui era andato a riferire dopo il primo viaggio apostolico per essere sicuro di operare bene. Eppure, avendo notato in lui incertezza, dimenticò rispetto ed educazione e, dice egli stesso, quando venne ad Antiochia mi opposi in faccia a lui, perché era colto in fallo e in presenza di tutti gli rivolse la parola con tale asprezza e veemenza che ci volle tutta l'umiltà di Pietro per non suscitare uno scandalo (Gal. 2,11-14). Solo la venerazione per i due venerandi Apostoli potè far scrivere a S. Agostino che nell'episodio di Antiochia agì solo la carità : sincera in Paolo nel riprendere, umile in Pietro nell'accettare. In realtà in San Paolo fu anche la focosità d'un carattere indomito, non ancora piegato alle dolcezze del giogo di Cristo.
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Né in modo migliore si comportò Paolo con Barnaba. Quando si trattò di iniziare il secondo viaggio apostolico, e Barnaba volle riprendere come compagno Giovanni Marco che li aveva abbandonati nel primo, Paolo si mostrò inflessibile sulla negativa. E piuttosto di cedere, si distaccò anche da Barnaba... Il testo degli Atti usa una parola forte: Successe un parossismo, tanto che si separarono l'uno dall'altro (19,39): «parossismo era termine impiegato spesso negli scritti dei medici greci per designare un violento accesso febbrile; il medico Luca lo trova adatto per designare lo stato d'animo dei due, che fu certamente d'agitazione profonda, accompagnata da accese dispute... Vivace quadro della realtà umana, in tutto corrispondente all'indole che Paolo mostra nelle lettere ai Corinti e ai Galati» (G. Ricciotti).
Eppure Barnaba era stato quello che lo aveva presentato alla Comunità di Gerusalemme dopo la conversione, quando tutti rifuggivano da lui, diffidando di lui; Barnaba lo era andato a cercare a Tarso per introdurlo nel campo di apostolato; Barnaba, ancora, era stato la sua guida e il suo maestro nel primo viaggio apostolico...
Paolo dimentica tutto e non cede. Provvidenziale durezza? Lo possiamo pensare. Ma sempre durezza. E non solo con Barnaba, ma anche con Giovanni Marco, di cui un giorno godrà ancora l'affezione e il servizio devoto.
L'Holzner commenta delicatamente l'episodio: Lo spirito di Paolo doveva progredire di conoscenza in conoscenza, passo passo e così la sua totale immedesimazione col Cristo avveniva per gradi successivi (170). Ma intanto doveva lottare... Il suo era carattere indipendente, insofferente di freno, assolutista, diremmo quasi dittatoriale.
«A fianco di lui permangono a lungo soltanto discepoli pieni di docilità e di dedizione, e che siano animati, più che da idee proprie e personali, dalla grande idea che Paolo ha saputo trasfondere da sé in loro. Non permane a lungo Apollo, pensatore dalle idee originali, e nemmeno lo stagionato Barnaba: permangono invece e gli si legano per tutta la vita l'adolescente Timoteo, il novizio Tito, l'assimilatore Luca ex pagano, i quali diventano come altrettanti ampliamenti della personalità di Paolo» (G. Ricciotti).
Il carattere di Paolo era anche aspro, duro, tagliente. Quanto lavoro perché il suo cuore diventasse il Cuore di Cristo ! E anche nel corso della lotta, nel lavoro di limatura, ogni tanto qualche sopravvento della natura sulla grazia, qualche scatto, qualche asprezza.
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S. Paolo amava certamente i suoi antichi correligionari, di cui a più riprese riconosce e proclama le prerogative, dei quali desidera la salvezza con brama ardentissima, sino a desiderare di diventare anatema purché essi siano salvi. Eppure certe volte li schiaffeggia così atrocemente da farci domandare se chi scriva è veramente lui, un Apostolo…
Nella lettera ai Romani, p. es., leggiamo: «Se, dunque, tu ti chiami giudeo e ti adagi nella legge, e ti vanti di Dio, e conosci la volontà di lui, e discerni le cose migliori, catechizzato come sei dalla legge, e di più sei persuaso di essere guida di ciechi, luce di quei che sono nelle tenebre, educatore dei dissennati, maestro di pargoli, in quanto possiedi l'informazione della scienza e della verità nella legge, - ammaestrando dunque un altro, non ammaestri te stesso? predicando di non rubare, rubi? dicendo che non bisogna commettere adulterio, commetti adulterio? avendo in abominio gli idoli, manometti cose sacre? Tu che ti vanti di una legge, mediante la trasgressione della legge disonori Iddio? In realtà il nome di Dio per causa vostra è bestemmiato tra le genti» (2,17-24).
Non ci si aspetterebbe tanto da un Apostolo. Eppure si può dire che certe volte S. Paolo supera ancora questi limiti, specie quando parla dei suoi persecutori. Contro i sostenitori della circoncisione scrive ai Galati: «Magari si tagliassero via anche tutto, coloro che vi istigano!» (5,12). Nella dolcissima lettera di Filippesi a proposito dei giudaizzanti adopera termini tutt'altro che melliflui: «Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai» (3,2). E pur raccomandandolo, non sempre riesce a rendere bene per male, a vincere, con il bene, il male. Ingiuriato, paga con la stessa moneta, e dei giudaizzanti scrive una volta: «Costoro sono falsi apostoli, mestieranti fraudolenti, camuffati... E non fa meraviglia: lo stesso Satana, si camuffa da angelo di luce; non è quindi gran cosa se anche i suoi ministri si camuffano da ministri di giustizia» (2 Cor. 11,13-15). E altrove li chiama: «ciarloni che vogliono essere maestri di legge mentre non capiscono né le cose che dicono né quelle che fermamente asseriscono» (1 Tim. 1,7); e ancora: «insubordinati, vaniloqui, seduttori... che sconvolgono casati interi» (Tito, 1,10s).
Non la perdona neppure ai suoi figliuoli. E se ai Corinti scrive, usando un'accusa circolante fra di loro a suo riguardo: «Sono divenuto insensato!» dice che l'unica ingiustizia commessa verso di loro fu di non essere stato loro di aggravio, di averli evangelizzati gratuitamente, di non aver voluto nulla da loro, neppure quando si trovava nella indigenza, e conclude ironicamente: «Condonatemi quest'ingiustizia!» (2 Cor. 11,5-10; 12,11-13). E altrove, ancor più sarcasticamente, pregando a sopportarlo: «Piacevolmente infatti sopportate gli insensati, essendo voi sensati ; sopportate se taluno vi rende schiavi, se taluno vi divora, se taluno moralmente vi domina, se taluno si innalza, se taluno vi percuote sulla faccia...» (2 Cor. 11,18-20).
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E ai Galati, dopo di aver manifestato la sua meraviglia per la loro incostanza e leggerezza, dopo averli chiamati insensati raccomanda: «Se vi mordete e divorate gli uni gli altri, guardate di non restar consumati gli uni dagli altri...» (5,15).
E si potrebbe ancora continuare. Scrisse un buon conoscitore dell'Apostolo: «Nella sua natura, un particolare domina sovrano: la violenza appassionata» (Bauman, 366). Comandati da essa, vi sono frasi, vi sono scatti che gli sfuggono prima che se ne accorga. E lo Spirito Santo li ha voluti lasciare lì a nostro ammaestramento : perché ci sentiamo vicino questo grande Santo, scosso anche lui dalle passioni, vigilante su di se stesso, anch'egli ogni tanto umiliato nel constatare i brutti scherzi che la sua natura, ancor sempre umana, gli andava giocando.
«Anche i suoi difetti hanno servito alla volontà di Dio: la prontezza delle impressioni lo predisponeva all'incostanza; la vivacità del carattere lo spingeva a spezzare gli ostacoli; l'energia virile avrebbe potuto renderlo schiavo degli appetiti carnali; l'ardore delle convinzioni lo preparava al fanatismo; la finezza della dialettica poteva fare di lui un sofista. Ma, indirizzati all'opera giusta, il suo bisogno di movimento e la prontezza all'azione affrettarono il cammino del Vangelo; la sua rudezza decisa spezzò, quando fu necessario, le catene dell'antica legge», come avvenne nell'episodio di Antiochia con Pietro, e come si verificò dopo il dissenso con Barnaba, che servì a moltiplicare i campi di apostolato.
«Il santo, in Paolo, è tanto più straordinario in quanto la potente coscienza della sua personalità pareva dovergli sbarrare la via alla santità. L'uomo santificato non vive più in se, per sé: egli sottopone e conforma tutta la sua vita a quella del suo Dio. Il miracolo in Paolo consiste nel fatto che egli abbia potuto dire senza menzogna: Io vivo: no, è Cristo che vive in me. Eppure egli non ha cessato di essere lui, di essere Paolo, con tutta la miseria e tutta la nobiltà della sua umanità vera». «La grazia non ha creato in lui un temperamento: ha piegato a sé le tendenze di cui Dio, nel predestinarlo, l'aveva ornato» (Bauman), e per sottomettere tutto se stesso alla Grazia, per piegare il proprio essere al giogo nuovo, Paolo lavorò e sudò e soffrì, impegnando tutte le energie della sua ricca personalità.
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ANELITO DI PAOLO ALLA PERFEZIONE
S. Paolo sentiva la lotta, vi si buttava a capo fitto. Sentiva la natura corrotta che pretendeva soddisfazione e ne soffriva. Non v'è pagina più viva in letteratura di quella che noi leggiamo nella lettera ai Romani, riguardante la lotta interna dell'uomo. S. Paolo impersonifica l'uomo decaduto e anelante alla liberazione, ma non avrebbe potuto essere così vivo, così drammatico, se non avesse sentito e provato in sé quanto descrive: «La legge è spirituale, ma io sono carneo, venduto in potestà del peccato. Ciò che opero, infatti, non so; giacché non ciò che voglio, io pratico, bensì ciò che odio io faccio; se poi faccio ciò che non voglio, consento con la legge riconoscendo che è buona. Ma allora non sono più io che opero, bensì il peccato che abita in me; so infatti che il bene non abita in me, cioè nella carne mia, perché il volere mi sta dappresso, ma l'operare il bene no, dal momento che non faccio il bene che voglio, bensì pratico il male che non voglio... Trovo dunque, quando voglio fare il bene, la legge per cui mi sta dappresso il male: mi compiaccio infatti della legge di Dio secondo l'uomo interiore, ma vedo un'altra legge nelle membra mie la quale combatte contro la legge della mia mente e mi rende schiavo nella legge del peccato che sta nelle membra mie. Infelice uomo che sono ! Chi mi libererà da questo corpo della morte? Siano rese grazie a Dio mediante Gesù Cristo Signor nostro» ( Rom. 7,14-25). Magnifica pagina di umanità sentita e vissuta, in cui tutto l'essere umano è teso e vibrante.
L'Apostolo geme e lotta, e lottando prega. E nella preghiera trova la vittoria. Lo dice in altro bellissimo passo della seconda ai Corinti, dopo aver accennato alle particolarissime grazie di cui è stato donato: «Affinché non mi inorgoglisca mi fu dato un pungiglione alla carne, un angelo di Satana, affinché mi schiaffeggi. Riguardo a questa cosa tre volte pregai il Signore affinché si togliesse da me, e invece egli mi disse: Ti basta la mia grazia, perché la potenza di essa si perfeziona nell'infermità» (12,7-9).
E allora l'Apostolo accetta la lotta, si appoggia alla grazia, si serve di tutti i mezzi che natura e grazia gli offrono per raggiungere la vittoria. Così, nel corso della lotta il desiderio di bene si acuisce e l'anelito diventa spasimo. Ancora una bella pagina della lettera ai Filippesi: «Quelle cose che erano per me guadagno, quelle ho reputato, a causa di Cristo, una perdita. Ma certo, e reputo tutte le cose essere una perdita a causa della sovreminenza della conoscenza di Cristo Gesù, il Signore mio: a causa del quale feci perdita di tutte le cose e le reputo lordure affinché io possa guadagnare Cristo ed essere ritrovato in Lui non avente, quale mia giustizia, - quella proveniente dalla legge, - ma quella mediante la fede di Cristo, la giustizia di Dio sulla fede. E ciò allo scopo di conoscere lui, e la potenza della risurrezione di lui, e la comunanza dei patimenti di lui, conformandomi alla morte di lui, se in qualche modo io pervenga alla risurrezione dei morti. Non che io abbia toccato la mèta o abbia già raggiunto la perfezione, ma corro per cercare di ghermire, perché io pure fui ghermito da Cristo Gesù. Fratelli, io riguardo a me stesso non stimo ancora di aver ghermito, ma bado a una sola cosa: dimenticandomi di tutte le cose al di dietro e protendendomi invece verso quelle davanti, corro verso una mèta, per il premio della superna chiamata di Dio in Gesù Cristo» (3,7-14).
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E' una tensione continua che egli richiede a se stesso, e che gli diventa tanto più grave, pesante, dolorosa, in quanto sempre occupato nelle mille preoccupazioni del suo ministero; è lo sforzo di tenersi in continuo contatto con il Cristo mediante la preghiera, per aver da lui continuamente grazie, aiuto, sostegno, «affinché non siamo soverchiati da Satana: non ignoriamo infatti le macchinazioni di lui» (2 Cor. 2,11).
Paragona volentieri la vita cristiana e i sacrifici, le rinunzie, la tenacia che essa importa nella lotta, alle gare del circo ed a quanto è necessario fare per tendere con probabilità alla vittoria. «Non sapete che i corridori nello stadio corrono tutti, sì, ma uno solo riceve il premio? Così correte anche voi per prendere il vostro premio. Ogni lottatore, poi, è temperato in tutto: ora, quei tali lo fanno per ricevere una corona marcescibile, noi invece una immarcescibile». E andando più al particolare, dice quanto fa egli stesso: «Io quindi corro in maniera da non correre all'incerto; pratico il pugilato in maniera tale da non battere l'aria; bensì colpisco il mio corpo e lo riduco schiavo, affinché non avvenga che, avendo predicato agli altri, diventi io stesso squalificato (riprovato)» (1 Cor. 9,24-27).
Quanta vivezza, quale forza in queste parole! E quale lavoro rude, costante ci lasciano intravvedere, per piegare la natura indomita al gioco di Cristo, per far camminare tutto l'essere suo sulla via segnatagli da Cristo!
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Il brano surriferito della lettera ai Filippesi fu scritto da S. Paolo pochi anni prima della sua morte. Segno evidente che anche allora, dopo oltre venticinque anni di ministero apostolico, di lotte, di vittorie; dopo essere riuscito a portare a Cristo innumerevoli anime, non si sentiva ancora di aver raggiunto ciò che lo Spirito Santo internamente gli chiedeva.
Ciò ci dà coraggio, ci fa sentire l'Apostolo più vicino, più simile a noi. Guardiamo più volentieri a lui come al Padre datoci da Dio, perché egli ha percorso la nostra via, ha incontrato le nostre difficoltà, ha sostenuto le nostre lotte, in una parola: ha fatto prima di noi esperienza di quanto quotidianamente riempie la nostra vita. Non nacque santo, né fu repentinamente mutato in un santo: si fece santo !
S. Paolo potè, però, alla fine della vita, testimoniare di aver raggiunto la meta. E' il suo testamento spirituale: «Io, infatti, sono già versato in libazione, e il tempo del mio sciogliere (le vele) è imminente. Ho combattuto il buon combattimento, ho compiuto la corsa, ho serbato la fede. Oramai sta deposta per me la corona della giustizia, che mi darà in quel giorno il Signore, il Giudice giusto» ( 2 Tim. 4,6-8). Ciò acquista un significato tanto più chiaro in quanto che poco prima aveva raccomandato a Timoteo: «Soffri travagli assieme con me, come buon soldato di Gesù Cristo. Nessuno che fa il soldato si implica negli affari della vita, affinché riesca gradito a chi lo coscrisse come soldato» (2,3s).
Aveva raggiunto la meta!
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S. Paolo, che fu detto l'uomo più superbo del mondo, riuscì non solo a scrivere e insegnare: «Che cos'hai che non ricevesti? se poi tutto ricevesti, perché ti vanti quasi che non l'avessi ricevuto?» (1 Cor. 4,7); e «nessuno cerchi ciò che è di se stesso, ma ciò che è dell'altro» (1 Cor. 10,24); ma volle praticare l'umiltà nel modo più perfetto. Aveva una volta fatto assegnamento su di sé, sulla sua eloquenza, sulla sua sapienza umana, e, armato come un retore, si era presentato all'areopago. Lo scacco non poteva essere più completo e lancinante. Quei sapienti, abituati a ben altre dottrine, lo derisero come un venditore di parole e invece di conversioni, raccolse delusioni. Ma ne fece subito tesoro e andando da Atene a Corinto, il proposito era già fatto, fermo, nettissimo, com'Egli medesimo testimonia nella lettera che poi scrisse: «Venendo tra voi, fratelli, venni non con eccellenza di parole o di sapienza annunziandovi la testimonianza di Dio, perché decisi di non sapere alcunché tra voi se non Gesù Cristo, e Costui crocifisso» (1 Cor. 2,1s). Da allora non si basò più se non sul fondamento vero, Gesù Cristo (3,l0s), e non adoperò più, mai più, discorsi insegnabili per sapienza umana, bensì quelli insegnabili dallo Spirito (2,12s).
Non voleva che i suoi fedeli guardassero a lui, lo considerassero, ne ammirassero l'opera : «E' Iddio che fa crescere! Cosicché né chi pianta è alcunché, né colui che innaffia, bensì Dio che fa crescere» (1 Cor. 3,5-7). «In questa maniera ci si consideri, come uomo qualsiasi, cioè come commessi di Cristo ed economi dei misteri di Dio» (1 Cor. 4,1): è il rinnegamento totale della propria personalità.
Ancora un passo, e il vertice dell'umiltà è raggiunto: in mezzo alla lotta, alle tentazioni, alle contraddizioni, alle oscurità, la pace nella buona testimonianza della propria retta coscienza: «Il nostro vanto è questo: la testimonianza della nostra coscienza che in santità e sincerità di Dio, non in sapienza carnale, bensì in grazia di Dio, ci comportammo nel mondo» (2 Cor. 1,12).
Il superbo è egoista. La carità è la morte dell'egoismo. S. Paolo raggiunse, attraverso l'umiltà, il vertice anche nella carità. «A me, invece, non avvenga mai che mi vanti, se non nella croce di N. Signore Gesù Cristo, mediante cui il mondo per me è stato crocifisso, e io al mondo. Ormai, nessuno mi dia fastidio: io infatti porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» (Gal. 6,15-17).
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Espressiva del cuore di Paolo è la chiusura ai ragionamenti sulla rovina e redenzione umana, che è nello stesso tempo una lirica espansione di giubilo e di speranza contenuta nella lettera ai Romani (8, 31-39): «Se Iddio è per noi, chi contro di noi? Colui che non risparmiò il proprio Figlio, bensì lo consegnò alla morte redentrice per tutti noi, come non ci farà dono, insieme con lui, di tutte le cose? Chi addurrà accusa contro gli eletti di Dio? Dio è il giustificante! Chi sarà il condannatore? (Sarà forse) Gesù Cristo, il morto, anzi il risuscitato, colui che sta alla destra di Dio, colui che, anzi, intercede per noi? Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Tribolazione o angustia o persecuzione o fame o nudità o pericolo o spada?... Ma in tutte queste cose stravinciamo per mezzo di colui che ci amò. Sono persuaso, infatti, che né morte, né vita, né Angeli, né Principati, né cose presenti, né cose venture, né possanze, né profondità, né alcuna altra creatura potrà separarci dall'amore di Dio, da quell'amore che è in Gesù Cristo, Signor nostro».
La finale della prima lettera ai Corinti è viva e appassionata espressione di questo vertice: «Se qualcuno non ama il Signore, sia anatema!» (1 Cor. 16,22).
Ma al vertice dell'amor di Dio, si arriva attraverso l'amor del prossimo. Abbiamo già accennato all'amore per, i suoi connazionali. Solo la certezza che un giorno il Signore li avrebbe richiamati a sé ed essi sarebbero entrati in massa nell'ovile di Cristo era sollievo capace a fargli sopportare l'acuto tormento di vederli non solo lontani, ma contro Cristo. Amò i bisognosi, amò i peccatori, amò i deboli per i quali richiede la più attenta delicatezza: «Non mandare in rovina, col tuo cibo, colui per cui Cristo è morto!» (Rom. 14, 15). «Noi che siamo forti, dobbiamo sopportare le debolezze dei fiacchi, e non già piacere a noi stessi. Ciascuno di noi piaccia al prossimo a scopo di bene per edificazione. Anche il Cristo, infatti, non piacque a se stesso...» (Rom. 15, 1-3). E l'Apostolo nella ricerca del bene degli altri si disse disposto a rinunziare alla cosa più desiderata e più santa: la fruizione beata del Cristo: «Per me infatti, il vivere è Cristo e il morire è un guadagno... Sono però preso in mezzo a due cose, avendo il desiderio di partirmene ed essere con Cristo (che è cosa di gran lunga migliore), mentre il rimanere nella carne è più necessario per causa vostra. E, persuaso di ciò, so che rimarrò e permarrò con tutti voi per il vostro avanzamento e gioia nella fede» (Fil. 1, 21-25).
E come avrebbe potuto cantare così sublimemente la carità, come fa nella prima ai Corinti (13,1-13), se non ne fosse stato innamorato e ripieno?
Guardiamo all'Apostolo: fu come noi, percorse le nostre vie. Anche a noi si propone come modello: «Voi infatti sapete come sia necessario imitarci... per darvi noi stessi a modello (di operosità onde imitarci)» (2 Tess. 3,7-9); «Vi scongiuro, dunque, o fratelli, diventate imitatori miei!» (1 Cor. 4, 16) ; «Siate imitatori di me, come anch'io di Cristo» (ib. 11,1); «Coimitatori di me siate, ed osservate coloro che così camminano come avete noi in esempio» (Fil. 3, 17 e 4, 9). Invitandoci ce ne otterrà la grazia.
Chiediamogli di essere suoi figli.
D. Fedele Pasquero
AVVERTENZAE' in corso di stampa il
Calendario paolino: un libro di circa 180 pagine.
Per ogni giorno sono segnati:
i Santi, le solennità, le indulgenze, le divozioni nostre, gli anniversari principali delle Famiglie paoline, i defunti, le variazioni del calendario liturgico universale, un pensiero di orientamento. In fine, lo stato personale e l'indirizzo di ogni casa.
Si prega di ordinarlo al più presto.
Indirizzare:
a
D. Zanoni Damaso - Casa Generalizia - Roma.ANNIVERSARIO DEI FRATELLI DEFUNTI24-1-1948 D. Giaccardo Giuseppe M. Timoteo.
INDULGENZA PLENARIA6 Gennaio - Epifania
26. Gennaio - Conversione di S. Paolo
29 Gennaio - S. Francesco di Sales.
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Anno XXXII
SAN PAOLO
Febbraio 1957
Roma Casa Generalizia,
AVE MARIA, LIBER INCOMPREHENSUS, QUAE VERBUM ET FILIUM PATRIS MUNDO LEGENDUM EXHIBUISTI (S. EPIPHANIUS EP.)
ANNO A S. PAOLO APOSTOLO
(DAL 25-1-1957 AL 25-1-1958)
Corso di meditazioni per ogni Lunedì della settimana nell'anno a San PaoloLa Vita
1. «Qui me segregavit ex utero matris meae» (Gal. 1,15): la Provvidenza nella vita di Saulo (nascita a Tarso, città dotta; educazione farisaica; imparò un mestiere). Doti naturali ed educazione ordinati al gran santo ed apostolo.
2. «Proficiebam in Iudaismo supra multos coaetaneos meos» (Gal., 1,14); progresso nella conoscenza delle Scritture, primi contatti con i Cristiani, acerrimo persecutore: la rettitudine; agire secondo coscienza.
3. «Et vocavit per gratiam, ut revelaret Filium suum in me» (Gal., 1,16): la conversione. Fu piena: mente, cuore, vita.
4. «Ut evangelizarem Illum in gentibus» (Gal., 1,16): la vocazione all'apostolato. I segni di vocazione.
5. «Continuo non acquievi carni et sanguini» (Gal., 1, 16): corrispondenza pronta e generosa alla grazia. Lasciava una religione amata, una professione lucrosa ed onorifica. Da dottore della legge a... nulla! Pieno di talenti e di capacità... Inoperoso! In attesa.
6. «Ascendi Jerosolymam secundum revelationem, ne forte in vacuum currerem aut cucurrissem» (Gal., 2, 2): sottomissione all'Autorità nel suo apostolato, pur con la massima fermezza nella difesa della verità; e nella nuova libertà in Cristo.
7. «Paulus, servus Iesu Christi, vocatus Apostolus» (Rom., 1, 1): la riconoscenza di Paolo per la vocazione. Riconoscenza sapiente e pratica.
8. «In quo laboro usque ad vincula» (II Tim., 2,9): l'apostolato di Paolo, i viaggi, le prove sopportate dall'Apostolo.
9. «Mihi vivere Christus est, et mori lucrum» (Fil., 1, 21): la vita di Paolo, continuo atto di amore a Cristo. L'equilibrio dell'Apostolo tra la prudenza e lo zelo.
10. «Ego enim iam delibor» (II Tim., 4,6): il martirio, suprema prova di amore di Paolo a Cristo.
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La Dottrina
11. «Evangelium virtus Dei est in salutem omni credenti» (Rom., 1,16): Cristo nostra unica speranza di salvezza.
12. «Obsecro vos, ut exhibeatis corpora vestra hostiam» (Rom., 12,1): rimanere in Cristo, vivere per Cristo e in Cristo, principio e fine della nostra persona, della nostra vocazione, della nostra eternità.
13. «Ministri eius cui credidistis» (il testo greco: «ministri per quos credidistis») et unicuique sicut Dominus dedit» (I Cor., 3,5): negli inviati di Dio, vedere Lui, guardare a Lui, ubbidire a Lui! (Vedere i capitoli dal I al IV della prima lettera ai Corinti).
14. «Scientia inflat, caritas vero aedificat» (I Cor., 8,1): non la scienza presa in sé edifica, ma usata bene; saper rinunziare anche ai propri diritti, per amor di carità (I Cor., 8-10).
15. «Sectamini caritatem!» (I Cor., 14,1): carità come preparazione remota alla Santa Comunione; carità nell'esercizio della vita (I Cor., 11,17 - 14,40).
16. «Os nostrum patet ad vos, cor nostrum dilatatum est» (II Cor., 6,11): per la pace e la grazia della Chiesa di Corinto Paolo dimentica le offese, perdona, prega (II Cor., 1-7).
17. «In laboribus plurimis, in carceribus abundantius» (II Cor., 11,23): il costo dell'apostolato (II Cor., 10,1-13,10).
18. «Benedictus Deus... qui praedestinavit nos in adoptionem filiorum per Iesum Christum» (Ef., 1,3-5). «Qui cum in forma Dei esset... exinanivit semetipsum» (Fil., 2,6): sull'esempio del Divino Maestro comporre la propria vita.
19. «Transtulit in regnum Filii dilectionis meae» (Col., 1,13): il Padre tutto ha fatto e dato per mezzo di Cristo, e tutto rivuole per la medesima Via. «Haec est enim voluntas Dei, sanctificatio vestra» (I Tess., 4,3): non perderci in parole o cose inutili, ma con ogni sforzo compiere quotidianamente il proprio dovere.
20. «Tenete traditiones quas accepistis» (II Tess., 2,15): aspettare il premio nel compimento dei nostri doveri. «Nemo militans Deo se implicat in negotiis saecularibus» (II Tim., 2,4): chi si è dedicato e consacrato a Dio non deve più preoccuparsi di altro che non sia Lui (Cfr. le Epistole pastorali).
21. «Adsimilatus Filio Dei, manet Sacerdos in aeternum» (Ebr., 7,3): Gesù Sacerdote e Vittima, Modello di ogni anima consacrata.
Culto e Devozione
22. Il potere di S. Paolo in cielo è grande, e viene usato da Lui per i suoi figlioli, verso i suoi collaboratori, verso le anime redente dal Sangue di Cristo.
23. «Vivo ego iam non ego, vivit vero in me Christus» (Gal., 2,20): Paolo esempio vivo del religioso Paolino (La Coroncina).
24. Il cuore dei figli verso il Padre: conoscerlo nella sua dottrina, nella sua persona, nei suoi esempi.
25. I caratteri della devozione paolina: universalismo o cattolicità, la fermezza per l'adattamento, la fedeltà al Papa.
26. San Paolo e i suoi devoti: San Tito, San Timoteo, San Luca, Santa Tecla, San Giovanni Crisostomo, Sant'Antonio M. Zaccaria, fondatore dei Barnabiti; le chiese a suo onore; i Paolini.
27. San Paolo e la Dogmatica.
28. San Paolo e la morale-ascetica-mistica.
29. Il cuore dei figli verso il Padre: pregarlo per la nostra santificazione, per il nostro apostolato.
30. Il cuore dei figli verso il Padre: imitarlo nelle sue virtù, nella vastità del suo cuore, nel considerarlo sempre attuale.
31. San Paolo nella
liturgia: 25 gennaio, 29 giugno (con S. Pietro), 30 giugno: sono istruzione, preghiera, pratica.
N.B.
Questo elenco può servire di guida per chi lo preferisce. Può pure servire il libro «San Paolo vivo» di don Gratilli, S.S.P. oppure il piccolo «Mese a San Paolo» di don Giaccardo. Chi vuole può farsi uno schema proprio: la materia è quasi inesauribile.P.S.
Sono elencati solo trentun titoli di meditazioni, essendo parecchi lunedì impediti nel corso dell'anno. Se vi sarà posto, ciascun predicatore sceglierà ancora argomenti.
Sac. Alberione
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L'APOSTOLO«Paolo era nato per essere un apostolo: ossia assertore instancabile di un'idea. La sua era una di quelle nature che, vista la verità, sentono il bisogno di viverla, di condividerla e di comunicarla e soffrono indicibilmente fino a quando la loro fiamma non ne abbia fatto ardere un'altra, fino a quando non abbiano condotto nella propria orbita spirituale quelli che neghittosamente se ne stavano al margine.
Dapprima è in Saulo lo zelo farisaico per la legge e per lo sterminio di una setta, ritenuta empia perché sgretolava quel massiccio mosaico che era stato la gloria del popolo eletto.
Con la visione di Damasco è l'amore per l'esecrato Nazareno che incatena prodigiosamente tutto quel fascio di irrompenti energie, mettendole a servizio della nuova causa» (
B. Pelaia).
Assieme alla natura si unì la grazia: S. Paolo fu scelto per l'apostolato. Già subito dopo la conversione, al timoroso Anania il Signore dice: «Va', perché vaso di elezione è per me costui, affin di portare il mio nome davanti sia a gentili, sia a re, sia a figli d'Israele; io infatti gli mostrerò quante cose deve egli soffrire per il mio nome» (Atti, 9,15s.). E quando Anania riferì le parole del Signore a Saulo, egli intravvide subito la sua missione e fin d'allora vi si consacrò con tutto l'ardore dell'anima. Gli Atti ci dicono infatti che subito dopo il battesimo, a Damasco stessa, «predicava Gesù, affermando che costui è il Figlio di Dio» (9,20). Così a Gerusalemme (9, 27-29).
Zelo di neofita, che deve ancora maturare, ma nel medesimo tempo irruenza d'ardore di mettersi presto sulla nuova via. Presto, infatti, sentì il bisogno di ritirarsi a raccogliere le sue idee, a mettersi bene in contatto con Dio, a prepararsi alla nuova missione e si andò a nascondere in un deserto. Quando ne uscì, era veramente il vaso di elezione che lo Spirito Santo si affrettò a far mettere da parte per l'opera nuova: «Mettete per me da parte Barnaba e Saulo per l'opera a cui li ho chiamati» (Atti, 13,2).
Concetto Paolino dell'Apostolato
Da una scorsa anche superficiale alle Lettere di S. Paolo, si nota che l'Apostolo aveva in proposito un concetto caratteristico e molto semplice. Esso si può riassumere in tre termini: l'apostolato è un campo, un edificio, una milizia. A tutti e tre questi concetti fa da base una idea che può anche essere considerata come una conclusione: l'apostolo, nel campo del suo lavoro, non è l'agente principale, ma opera in nome e sotto potestà di un altro: di Dio.
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E' un campo. E' definizione di Paolo stesso. A Corinto, chissà perché, erano sorte vere e proprie fazioni tra i fedeli. Qualcuno diceva: Io sono di Paolo. Altri: Io, di Apollo! Altri ancora: E io, di Pietro. O addirittura: E io, di Cristo! L'Apostolo li riprende vivacemente: «Che cos'è Apollo? e che cosa è Paolo? Sono ministri per mezzo dei quali credeste. Di Dio, infatti, siamo collaboratori e ministri, ma voi siete il campo di Dio, l'edificio di Dio» (1 Cor. 3,5-9).
Se dunque i cristiani sono il campo di Dio, gli Apostoli, scelti da Dio come suoi operai, suoi collaboratori, sono i coltivatori: «Io piantai, Apollo innaffiò», ma non poterono far altro: «Iddio fece crescere» (ib. 3,6).
Gli apostoli sono mandati a lavorare e scelti per questo con libera elezione dal padrone del campo. Devono lavorare secondo l'ordine ricevuto ed hanno solo diritto ad una mercede per la fatica spesa, non alla partecipazione dei frutti. Questa mercede, indipendente dai frutti raccolti, è proporzionata alla fatica spesa, e «tutti sanno che, nella fatica, fattore principale non è tanto la forza impiegata, quanto, e soprattutto, la solerzia, l'interesse, l'amore, la passione per quello che si fa» (B. Pelaia).
Per questo le anime privilegiate scelte all'apostolato, debbono impegnare tutte le loro capacità, poiché da esse si richiede che siano commessi di Cristo solerti e generosi, ed amministratori dei misteri di Dio fedeli e laboriosi.
E' un edificio. «Siete l'edificio di Dio!» ha detto S. Paolo ai Corinti (1 Cor. 3,9). Ma per S. Paolo edificio ha un concetto molto vasto: Egli usa il termine edificare ogni qualvolta parla di sviluppo, di propagazione della Chiesa: nel suo pensiero, quindi, l'edificio per eccellenza non è se non il Regno di Dio, e quindi l'incorporazione mistica dei fedeli a Cristo. E così l'idea paolina dell'edificio va a sfociare in quell'altra del Corpo Mistico, in cui noi veniamo edificati; corpo destinato ad abbracciare tutti gli uomini, senza distinzione di popoli o di razze, poiché davanti a Cristo «non esiste né Giudeo, né Greco, non esiste schiavo né libero...» (Gal. 3,28), poiché tutti sono una cosa sola in Cristo, e tutti, mediante Lui, hanno «accesso in un solo Spirito al Padre» (Ef. 2,18).
L'apostolo è il costruttore di questo edificio. Egli deve edificare, ma non come vuole, né dove vuole, bensì sopra un fondamento già posto da Dio stesso: Gesù Cristo, pietra angolare e sostegno unico di tutto.
Anche qui, quindi, l'apostolo non ha la parte principale, ma umile esecuzione di una missione ricevuta e nell'ordine e per il fine per cui fu ricevuta. E ciascuno riceverà ricompensa secondo che ha edificato bene: l'opera, infatti, sarà provata col fuoco; se «rimane, riceverà mercede; se l'opera di taluno finirà bruciata, subirà perdita» (1 Cor. 3,14s).
Ciò perché l'apostolato non è dato a beneficio dell'apostolo, ma «per il perfezionamento dei Santi», per «l'edificazione del Corpo di Cristo» (Ef. 3,16-19; Gal. 4,19).
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E' una milizia. S. Paolo si sente soldato di una milizia nella quale deve piacere non a sé o ad altri, ma unicamente a colui che lo ha arruolato a proprio servizio (2 Tim. 2,4).
«Come il legionario romano che ha giurato fedeltà assoluta al suo Imperatore e alla prosperità dell'Impero, così Paolo, nel suo apostolato, sa di essere un soldato votato alla causa del suo Re» (
B. Pelaia).
Il soldato deve aver coraggio, sprezzo del pericolo, fedeltà assoluta, e non deve arrogarsi nulla che non sia contenuto nelle facoltà ricevute.
S. Paolo enumera anche le armi di cui deve essere munito l'apostolo per combattere la buona battaglia cui è chiamato: corazza, elmo, scudo, calzari, spada, «con ogni preghiera e supplica pregando in ogni tempo in spirito» (Ef. 6,18).
L'apostolo, quindi, non è per sé, ma per chi l'ha chiamato, e mentre non ha lui la parte principale, deve vigilare e non andare oltre o fuori le consegne ricevute.
Il premio sarà proporzionato alla volontà e alla fedeltà mostrata, senza considerazione di quale potrà essere l'esito raggiunto. La ragione di questo si è che l'esito non dipende più dall'apostolo, ma da Dio, che nella salvezza delle anime ha la parte principale.
L' Apostolo in azione
S. Paolo è chiamato l'Apostolo per eccellenza. Leggendo le sue Lettere è il titolo che appare più sovente, che Egli stesso si attribuisce, ora con umile riconoscenza, ora con profonda coscienza ed ora con forza e con vanto: è il titolo cui tiene di più. Ed è il titolo che meglio gli si addice. Egli ha un cuore pieno di immenso amore a Cristo, crocifisso e morto per noi, amore che lo travaglierà per tutta la vita con una forza tale che nulla mai potrà spezzare e che si trasforma in una sete ardente, in un bisogno imperioso di conquista.
Per questa conquista non conosce barriere: il suo pensiero a stento si ferma ai confini del mondo romano; non fa distinzione di razze e di nazione: «Sia verso i Greci che verso i Barbari, sia verso i sapienti che gli insipienti, io sono debitore» (Rom. 1,14), pronto perciò a correre ovunque il Signore lo chiami, incurante di pericolo, di privazione, di sofferenze.
Ma non si lascia portare da uno zelo inconsulto.
Dopo i primi tentativi a Damasco e a Gerusalemme, dettati più dal desiderio di far conoscere la ragione della sua conversione che da improvvisazione di apostolo, egli riconosce il bisogno di una lunga preparazione: e va a passare tre anni in luogo deserto in preghiera, meditazione, studio. Là, alla scuola del Maestro, ordina, indirizza, coordina tutto alla nuova missione che Dio gli ha fatto intravvedere.
E poi aspetta il tempo di Dio.
Sul campo dell'apostolato si comporta da sapiente architetto, com'egli stesso si chiama, e si mostra perfetto stratega. Scorrendo la storia dei suoi viaggi apostolici vediamo la sua tattica: non si dirige a piccole borgate, a paesi sperduti, dove scarsa sarebbe stata la mésse: ma fissa le sue brame sulle grandi metropoli del tempo e vi si dirige, non solo perché più numerosi sono gli abitanti, ma perché il commercio, o i contatti culturali, o la posizione geografica potranno cooperare alla irradiazione, di lì, della luce che egli vi sparge.
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Ma pur nell'ampiezza della visuale, non dimentica i particolari, le anime singole. A Cesarea tenta nientemeno che la conversione del Re Agrippa; ad Efeso tiene abitualmente adunanze in casa; a Roma istruisce i suoi stessi custodi e fa così penetrare il Vangelo nel Pretorio imperiale, e non si vergogna né disdegna una azione capillare, personale, tanto che nel commiato dagli anziani di Mileto, può richiamarsi alla loro testimonianza per un'abitudine acquisita: «Voi sapete... come... vi insegnassi pubblicamente e casa per casa, attestando sia a Giudei che a Greci il ravvedimento in Dio e la fede nel Signor Nostro Gesù» (Atti 20, 20).
S. Paolo ebbe una molla che lo spinse imperiosamente avanti ed un motivo che lo sostenne sempre: La molla era il ricordo della sua vita passata: ho perseguitato la Chiesa di Dio, ho fatto bestemmiare il Cristo! Ed ora vuol dilatare questa Chiesa, vuol fare amare, benedire, servire questo Cristo. Di qui la spinta, il lancio, l'impazienza di arrivare dappertutto. Il motivo che lo sostenne sempre fu la ricchezza dei tesori confidati in sua mano perché li spargesse nel mondo: la redenzione dal peccato, la figliolanza adottiva di Dio, l'incorporazione mistica a Cristo, la comunanza dei beni eterni di Lui. Erano tesori troppo preziosi per tenerli nascosti!...
Per comunicare a quanti più è possibile questi tesori, non bada a fatiche, a travagli. Ha coscienza di non essere più per sé: «Iddio ci pose ad acquisto di salvezza mediante il Signore Nostro Gesù Cristo morto per noi» (1 Tess. 5,9), e perciò non bada più a sé. A poco a poco la sua personalità scompare, e rimane solo lo strumento di Cristo.
Si adatta a seguire in qualunque momento e in qualunque luogo le indicazioni dello Spirito Santo, come cerca di vestirsi delle più diverse necessità degli uomini, pur di poter arrivare a loro e ad essi comunicare le ineffabili ricchezze del Cristo. Scrisse infatti: «Essendo libero da tutti, di tutti mi feci schiavo per guadagnare i più: e diventai con i Giudei come Giudeo, per guadagnare i Giudei; con quelli sotto la legge diventai come sotto la legge; con quelli senza legge diventai come senza legge - pur non essendo un senza-legge di Dio, bensì un dentro-legge di Dio - per guadagnare quelli senza legge. Diventai coi deboli debole, per guadagnare i deboli. Sono diventato tutto a tutti, per salvare in ogni modo alcuni» (1 Cor. 9,19-22).
Naturalmente tutto ciò costava, e molto, ma che importava? Era la sua missione. Egli sapeva di non essere nulla nell'apostolato, null'altro che strumento nelle mani di Cristo: «Da parte di Cristo siamo ambasciatori, in quanto Iddio esorta per mezzo nostro» (2 Cor. 5,20). E sapeva anche molto bene come Iddio voleva servirsi di coloro che dovevano continuare la missione salvatrice del Figlio. Lo lascia capire in una pagina piena di drammaticità: «Iddio fece figurare ultimi di tutti gli uomini noi, gli Apostoli, come destinati a morte, perché diventassimo uno spettacolo per il mondo e gli Angeli e gli uomini. Noi stolti per Cristo, voi invece sapienti in Cristo; noi deboli, voi invece forti...» (v. 1 Cor. 4,9-13).
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Era la morte della personalità, ma era inerente alla missione di apostolo, che gli incombeva come una necessità, quindi l'abbracciava pienamente e volentieri: «Se evangelizzo, non è un vanto per me, perché me ne incombe necessità: guai a me, infatti, se non evangelizzo!» (v. 1 Cor. 9,16-18).
Nessun'altra preoccupazione, né personale, né di cose transitorie, ma solo quella di rendere più che mai fruttuoso il proprio ministero, onde Gesù fosse conosciuto, amato, servito: «Perciò mi compiaccio nelle fiacchezze, negli insulti, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle distrette sopportate per Cristo: quando infatti sono fiacco, allora sono possente» (2 Cor. 12,10).
Sa che più la persona umana scompare e più agisce la grazia divina che si serve della persona dell'apostolo.
Perciò S. Paolo può esporre come suo programma di apostolato: «Non dando nessun inciampo in nessuna occasione, affinché non sia biasimato il ministero nostro, bensì in ogni cosa raccomandandoci come ministri di Dio in molta pazienza, in tribolazioni, in necessità, in angustie, in piaghe, in carceri, in tumulti, in fatiche, in veglie, in digiuni, in purità, in scienza, in longanimità, in benignità, in Spirito Santo, in carità non ipocrita, in parole di verità, in possanza di Dio, mediante le armi della giustizia a destra ed a sinistra, mediante gloria e disonore, mediante cattiva fama e buona fama, come ingannatori eppur veritieri, come sconosciuti eppur ben noti, come morenti ed ecco che viviamo, come puniti eppur non messi a morte, come afflitti, sempre però gioiosi, come poveri, arricchendo però tutti, come non avendo nulla eppur possedendo tutto» (2 Cor. 6,3-10).
A mano a mano che si spoglia di sé, l'Apostolo riveste le viscere di Cristo e vive della vita, dei pericoli, della perseveranza dei suoi figlioli, ne partecipa le tentazioni, ne subisce le prove; vive in ansia per loro, come si rallegra quando li sa perseveranti e fedeli: «Per timore che il tentatore non vi avesse tentati, e non riuscisse vana la nostra fatica... ma ora mi sento rivivere, ora che vi so costanti nel Signore» (1 Tess. 3,5-8).
Il suo cuore manifesta tenerezze insospettate, di cui non si sarebbe creduto capace un cuore tanto forte, un carattere così duro: scrive nella prima ai Tessalonicesi: «Ci facemmo piccoli tra voi, come nutrice che si stringe al seno i suoi figlioli; e, nel nostro affetto per voi, bramavamo di dare a voi non solo il Vangelo di Dio, ma persino le stesse anime nostre, poiché ci siete divenuti carissimi...» (2,7ss.). Chiama i suoi Filippesi: «Fratelli amati e desiderati, gaudio e corona» (4, 1), dice loro che li ha in cuore tutti, che anela a loro, nelle viscere di Gesù Cristo (1,7-8).
E anche quando deve rimproverare, trova accenti accorati: «O insensati Galati! Chi ammaliò voi, davanti ai cui occhi fu dipinto Cristo Gesù crocifisso?» (Gal. 3,1). E nel timore di calcare troppo le tinte, ed esacerbare cuori già pentiti, ad un certo punto dà libero sfogo al cuore e: «Figliolini miei, esclama, per i quali di nuovo soffro le doglie del parto, fino a che Cristo sia formato in voi; come vorrei essere presente fra voi presto e cambiare la mia voce, perché sono perplesso riguardo a voi!» (Gal. 4,19s).
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«Cor Pauli, Cor Christi erat»ha detto il grande conoscitore dell'Apostolo, S. Giovanni Crisostomo: infiammato dal medesimo ardore, guidato dalle medesime intenzioni, teso verso la medesima meta: «Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate alcunché, tutto fate a gloria di Dio. Non siate d'inciampo né a Giudei, né a Greci, né alla Chiesa di Dio» (1 Cor. 10,31-33).
Insegnamenti
Chiamati all'apostolato anche noi, sulla via segnata da chi ci è stato dato per Padre e Guida, concludiamo guardando a lui.
a)
L'azione apostolica non si improvvisa. La Grazia trovò in Saulo una natura ricca, doti numerose, scienza profonda e vasta, sacra e profana. Eppure S. Paolo sentì il bisogno, prima di iniziare l'apostolato, di lunghi anni di silenzio, di preghiera, di meditazione. E solo nel deserto volontariamente cercato, poté godere delle rivelazioni del Maestro, poté ordinare il programma di lavoro e prepararsi e temperarsi all'opera cui Iddio lo aveva destinato.
Anche per noi - e più per noi! - la preparazione non è mai troppa. Non abbiamo fretta! Occorre ferma formazione spirituale: preghiera abituale, spirito di mortificazione, forza contro i pericoli e le tentazioni che non mancheranno mai, idee larghe, intenzioni sante. Occorre vasta formazione intellettuale, specie per il nostro apostolato e per i nostri tempi: chiarezza di idee, profondità di cognizioni, fermezza di principi, praticità. Occorre volontà formata: tenace nei propositi, pronta nelle risoluzioni, chiara e lineare nella scelta dei mezzi. Tutto ciò non solo non è poco, ma neppure è facile. Approfittare quindi di ogni tempo, tesoreggiarlo e non credere mai di aver raggiunto la pienezza. Vi sarà sempre da aggiungere, sempre da migliorare.
b)
Nell'apostolato è necessaria l'umiltà, sia rispetto a Dio che rispetto alle anime. Rispetto a Dio nella coscienza della nostra strumentalità nelle sue mani. Dobbiamo dare tutto ma non attribuirci nulla. Non possiamo né pensare né, tanto meno, pretendere di sapere o potere influire sulle anime con le nostre sole capacità personali. Chi influisce è soltanto Iddio. Per questo è necessaria la disposizione a servire come Dio vuole, anche solo come spazzatura, come concime! Disposizione a morire sull'arena a spasso delle anime a cui ci siamo consacrati. E' Dio che fa, e può benissimo volersi servire di noi, della distruzione del nostro essere (non solo fisico, ma morale!) per raggiungere i suoi scopi. - Umiltà rispetto alle anime, nella considerazione del loro valore, nella persuasione che noi siamo per loro. Perciò non esse devono servire a noi, ma noi a loro; non esse devono sacrificarsi per noi, ma noi per loro. Non da esse dobbiamo aspettarci qualche cosa, ma solo da Dio al cui servizio ci troviamo. Unica ambizione permessa: che esse amino Iddio! Necessità assoluta: andare verso di esse, comprenderne i bisogni, le necessità, rivestirne persino le abitudini. Farsi tutto a tutti,per il solo fine di portare tutti a Cristo.
c)
Unione con Cristo! Come lo strumento può soltanto operare quando si trova nelle mani di chi lo adopera, così l'apostolo può essere efficace soltanto in proporzione della sua unione con Gesù. «Non io, ma la Grazia di Dio con me!» Unione di mente, di volontà, di preghiera, di aspirazione, di intenzione. Egli solo non verrà mai a mancare. Egli solo in ogni occasione sarà grazia, conforto, guida. Egli solo, in Paradiso, sarà premio. «Per me vivere è Cristo!». Adesso, nell'azione; in cielo, nel riposo.
D. Fedele Pasquero
~
PAOLO MARTIRE
(Continuazione)
S. Paolo non sfuggì al destino comune di ogni Apostolo, come del primo Apostolo. Anzi, come nell'apostolato lavorò più di tutti, così pure soffrì più di tutti. E possiamo affermare ciò senza paura di esagerare, non solo perché il martirio è movente all'apostolato, ma perché ce lo dimostra la vita dell'Apostolo e lo poté affermare egli stesso. Già fin dalla prima chiamata, appena convertito, Gesù stesso indica di che cosa sarà cosparsa la via di Paolo, quella via che dovrà percorrere per portare il suo nome dinanzi a Principi, a Re, a popoli numerosi : «Io infatti gli mostrerò quante cose deve egli soffrire per il mio nome» (Atti 9,16): fin d'allora dovette apparire a Paolo che «apostolato e persecuzioni da sopportare erano considerati come due termini che si completavano a vicenda, e le seconde dimostravano la genuinità del primo, garantendo l'assistenza del Cristo» (G. Ricciotti).
Le persecuzioni, infatti, cominciarono subito, a Damasco stessa; continuarono a Gerusalemme; si perpetuarono nei diversi viaggi apostolici. Già fin dalla prima lettera che S. Paolo scrisse tra la fine dell'anno 51 e il principio del 52, quindi dopo neppur 10 anni di apostolato, poteva dire: «Avendo patito in precedenza ed essendo stati oltraggiati, ...avevamo franchezza nel nostro Dio di portare il Vangelo di Dio in molta lotta... Ricordatevi infatti, fratelli, della fatica nostra e del travaglio: notte e giorno lavorando, predicammo a voi il Vangelo d'Iddio» (1 Tess. 2,2-9); e noi dagli Atti degli Apostoli sappiamo molto bene quanto fosse costato all'apostolo di sofferenza, di persecuzioni, di lapidazioni, il primo viaggio apostolico.
Né S. Paolo si meraviglia di ciò: se lo aspettava. Sapeva che cosa voleva dire essere cristiano e per di più apostolo. Scriveva perciò nella prima ai Tessalonicesi: «Nessuno sia agitato in queste tribolazioni: sapete infatti voi stessi che appunto a questo siamo destinati. Perché, anche quando eravamo tra di voi, vi dicevamo in anticipo che siamo per essere tribolati, come avvenne e come sapete» (3,3s.).
Infatti le tribolazioni raggiunsero alle volte degli acuti inaspettati. Confessa egli stesso : «Non vogliamo che ignoriate, fratelli, riguardo alla tribolazione nostra avvenuta nell'Asia, che fummo aggravati all'eccesso sopra le nostre forze, al punto di disperare anche della vita» (2 Cor. 1,8). Ed altrove: «Anche arrivati in Macedonia nessun sollievo ebbe la nostra carne, bensì fummo tribolati in ogni modo: al di fuori battaglie, al di dentro spaventi» (2 Cor. 7,5).
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Ma non è il caso che andiamo spigolando dalle Lettere e dalla storia dell'Apostolo. Egli stesso ci fa un quadro oltremodo vivo di quanto ha patito per Cristo, per essere vero ministro del Vangelo. Portando le ragioni per cui fu, più dei suoi avversari, ministro di Cristo, dice: «Ben più nelle fatiche, ben più nelle prigionie, oltre misura nelle battiture, spesso nei pericoli di morte. Dai Giudei ricevetti cinque volte i quaranta colpi meno uno; tre volte fui vergheggiato; una volta fui lapidato; tre volte feci naufragio; ho passato una notte e un giorno nell'abisso; spesso in viaggi, pericoli di fiumi, pericoli di ladroni, pericoli dalla mia stirpe; pericoli dai gentili, pericoli in città, pericoli nel deserto, pericoli in mare, pericoli in falsi fratelli; in fatica e pena, spesso in veglie, in fame e sete; spesso in digiuni, in freddo e nudità» (2 Cor. 11,23-27).
Ma tutte queste cose erano già passate quando scriveva, ed ugualmente numerose furono le sofferenze che seguirono.
Oseremmo tuttavia dire che le sofferenze fisiche non furono né le più numerose né le più gravi. Il lungo elenco surriferito, termina con una frase che apre tutto un altro campo in cui l'Apostolo stesso non entra, accontentandosi di accennarvi appena, perché troppo profondo e troppo pudico: «Oltre le cose estranee, c'è l'aggravio di ogni giorno, l'ansia per tutte le Chiese. Chi è infermo che io non sia infermo? Chi si scandalizza che io non bruci?» (ivi, 28s.).
Per comprendere questo tormento dell'anima di San Paolo, bisognerebbe poter penetrare in quell'ardore apostolico che lo consumava. Egli viveva intensamente la vita delle comunità da lui fondate: per questo soffriva profondamente per tutti i pericoli che loro incombevano: por questo ha ansie di madre novella per la cristianità di Efeso minacciata d'essere inghiottita dai morsi delle persecuzioni; per quella di Corinto in pericolo di dissolversi per ribollimenti interni; ha ruggiti di leonessa cui vogliono rapire i piccoli, per la cristianità di Galazia cui insidiavano con fortuna i Giudaizzanti; ha lamenti sconfortanti perché anche a Gerusalemme la corrente a lui contraria ingrossava sempre più.
E intanto lo scuotevano i peccati che anche tra i cristiani si commettevano ancora, e gemeva scrivendo ai cari Filippesi : «Molti infatti camminano in maniera tale che di loro spesso vi dicevo e adesso lo dico ancora, con le lacrime agli occhi, che sono nemici della Croce di Cristo; la fine dei quali è la perdizione, il Dio dei quali è il ventre e la gloria nella vergogna di essi che pensano alle cose terrene» (3, 18 s.); si sentiva struggere dal pensiero di coloro che vivevano «ricrocifiggendo essi per loro stessi il Figlio di Dio ed esponendolo a ludibrio» (Ebr. 6, 6).
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Accanto a questo, si metta ancora il sentimento struggente del proprio dovere di evangelizzatore, che lo faceva esclamare: «Guai a me se non evangelizzo» (1 Cor. 9,16); si metta il pensiero che tante anime andavano perdute perché non era ancor giunta ad esse la parola di Cristo.
Fu così struggente quest'ansia che non gli diede pace per tutta la vita, tanto che molti commentatori delle Lettere paoline si sono domandati da che cosa poteva derivare.
La risposta l'ha data già da secoli l'Apostolo stesso: «L'amore di Cristo ci comprime» (2 Cor. 5,14): amore di Cristo e amore per il Cristo, che non gli dava tregua un momento e lo tormentava continuamente non lasciandogli pace.
Che cos'è, a questo confronto, l'ultimo colpo di spada?
Fu una liberazione. E come liberazione lo considera l'Apostolo scrivendo al carissimo Timoteo : «Io, infatti, sono già versato in libazione, e il tempo del mio sciogliere le vele è imminente. Ho combattuto il buon combattimento, ho compiuto la corsa, ho serbato la fede. Oramai sta deposta per me la corona di giustizia che mi darà in quel giorno il Signore Giudice giusto» (2 Tim. 4,6-8).
Era stato versato in libazione nel corso dell'intera vita e s'era, più che consumato, sacrificato per portare anime a Cristo. Ora aspettava di rendere a Gesù l'ultima testimonianza d'amore e di fede. Non sappiamo precisamente come né quando, ma un giorno, forse nel 67, dai governatori di Roma che tenevano nel frattempo le veci di Nerone, andato a far l'istrione in Grecia, fu condannato a morte.
A S. Paolo, come a cittadino romano, non era possibile infliggere altra morte che quella della decapitazione, ed a questa fu condannato.
«La sentenza imponeva, secondo il costume, che egli fosse flagellato prima di essere decapitato. L'Apostolo offerse ancora una volta al bacio delle verghe le spalle scarnificate, scavate da innumerevoli colpi di flagelli. Vi si leggevano incise, come sopra una stele, in stigmate gloriose, tutte le sue battaglie». Poi gli furono bendati gli occhi ed egli si inginocchiò e tese il collo in silenzio. Un colpo di spada e la testa cadde a terra. E quella terra benedetta bevve avidamente la libazione del sangue liberatore (cfr.
Bauman, 381). E così l'Apostolo completò la testimonianza resa per tanti anni a Cristo cui andò a congiungersi per l'eternità.
Sac. FEDELE PASQUERO
IMPORTANTE!Il «Calendario Paolino 1958» uscirà anche con le rubriche liturgiche.
Oltre alle modifiche che riguardano le feste proprie della Congregazione, si inseriranno anche quelle che le singole Case devono seguire per allinearsi con la propria Diocesi. Perciò ogni casa (Italia ed estero) mandi i seguenti dati:
Festa della Dedicazione della Cattedrale; Titolare della Diocesi; Titolare della propria chiesa; Patroni della Diocesi e della nazione.
La redazione del calendario verrà fatta entro il mese di maggio, perciò si prega di inviare
non oltre il 20 maggio i dati richiesti.
Si spera che entro settembre il calendario sarà pronto.
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Anno XXXII
SAN PAOLO
Dicembre 1957
Roma Casa Generalizia,
AVE MARIA, LIBER INCOMPREHENSUS, QUAE VERBUM ET FILIUM PATRIS MUNDO LEGENDUM EXHIBUISTI (S. EPIPHANIUS EP.)
ANNO A SAN PAOLO
Consideriamo come una grazia, venutaci dall'intercessione di S. Paolo Ap., le sante parole del Papa Pio XII sopra l'apostolato delle Edizioni: stampa, cinema, radio, televisione.
Riportiamo alcuni fra i tratti più salienti e più adatti a noi.
PER LA STAMPA
Nella lettera inviata a nome del Papa Pio XII al V Congresso Mondiale della stampa cattolica a Vienna (1-10-1957) si esortano tutti i pubblicisti cattolici a servire la verità. Siano editori che scrittori, tecnici che propagandisti, direttori che informatori, tutti hanno come primo dovere questo: «Rendere testimonianza alla verità».
«Se è vero che l'ondata di errori e di falsi principi di morale sparsi oggi dalle tecniche di diffusione fanno fremere, non conviene insistere di nuovo sull'opera di verità che la stampa cattolica deve compiere? Questa deve con i mezzi, che le sono propri, servire la verità nella Chiesa e nel mondo. E' questo il suo scopo, è questa la sua nobiltà».
Dinanzi all'ampiezza della loro responsabilità, il Santo Padre esorta una volta di più i suoi figli della stampa a prepararsi con coscienza a sostenere questo importante ruolo nella società. Loro dovere è di formare se stessi, prima di pretendere di guidare i loro fratelli ed è per questo che Egli raccomandava loro, in un recente messaggio, uno studio serio e una sicura padronanza dei principi fondamentali della filosofia e della teologia cristiana. Loro dovere è di attingere la regola del loro giudizio, in materia religiosa e morale, all'insegnamento della Chiesa, maestra della verità; e di conformarsi, con leale docilità, alle direttive dei pastori divinamente costituiti. Nell'esercizio della loro professione, che i migliori di essi considerano giustamente come un apostolato della penna, accoglieranno tra di loro le legittime divergenze d'opinione; ma, in un mondo agitato e portato agli estremismi, daranno prova di moderazione nel giudizio ; preferendo ciò che li unisce a quello che li divide, unendo sempre la carità e la verità. La base di tutto, è la verità; il termine e il coronamento di tutto e la carità. La base deve restare intatta, altrimenti tutto crolla. Ma la base della verità non basta.
La lettera conclude ricordando le parole rivolte dal Papa nel 1953 ai rappresentanti della stampa e nelle quali ebbe a ricordare «che la qualità principale del giornalista è sempre un incorruttibile amore di verità».
Dall'Enciclica Miranda prorsus pubblicata in data 12-9-1957.
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PER CINEMA, RADIO. TELEVISIONE
In generale
Il Santo Padre rileva come tra le invenzioni u-mane ai nostri giorni hanno preso uno straordinario sviluppo, nel nostro secolo il cinematografo, la radio, la televisione. La Chiesa ha accolto con particolare gioia ed insieme vigilante sollecitudine queste nuove tecniche; per i pericoli che possono derivarne, per il gran bene che possono importare, per la possibilità di usarli come mezzi di evangelizzazione, portando «la buona novella».
«Perciò, dice il Papa, abbiamo dichiarato San Gabriele Arcangelo, che ha portato al genere umano il tanto sospirato annunzio della redenzione, patrono celeste presso Dio di quelle tecniche che consentono agli uomini di inviare in un istante per mezzo della elettricità messaggi scritti ad assenti, parlare tra loro da luoghi lontani, mettersi in comunicazione attraverso le onde dell'etere e vedere presenti nello schermo realtà lontane».
«Sono pertanto da condannarsi quanti pensano ed affermano che una determinata forma di diffusione può essere avvalorata ed esaltata, anche se manca gravemente nell'ordine morale, purché abbia pregi artistici e tecnici.
"Le tre principali tecniche audio-visive di diffusione: il cinema, la radio e la televisione, non sono pertanto semplicemente dei mezzi di ricreazione e di svago, anche se una gran parte degli uditori e degli spettatori le considerano prevalentemente sotto questo aspetto, ma di vera e propria trasmissione di valori umani, soprattutto spirituali, e possono costituire pertanto una efficace forma di edificazione della cultura in seno alla società moderna».
«Più che la stampa, le tecniche audio-visive offrono la possibilità di collaborazione e di scambio spirituale, strumenti di civiltà tra tutte le genti del globo; prospettiva tanto cara alla Chiesa, che, essendo di natura sua universale, desidera l'unione di tutti nei comune possesso di autentici valori».
«E' quindi nostro vivo desiderio, venerabili fratelli, che queste tecniche audio-visive, che con tanta facilità e suggestione agiscono sull'uomo, vengano opportunamente utilizzate per completare la formazione culturale e professionale, e soprattutto la formazione cristiana, base fondamentale di ogni autentico progresso. Vogliamo quindi esprimere il nostro compiacimento a quanti, educatori ed insegnanti utilizzano saggiamente il film, la radio e la televisione a tale nobile scopo».
«Lo spettacolo comprende generalmente non soltanto elementi ricreativi ed informativi, ma svolge anche una funzione educativa. Il nostro predecessore di f. m. giustamente ha chiamato il cinema «scuola di vita»; può essere infatti chiamato «scuola» perché questo genere di spettacoli contiene anche una presentazione figurativa, nella quale gli effetti di luce e di suono si fondono, con particolare fascino, in tale modo, da rivolgersi non soltanto all'intelligenza ed alle altre facoltà, ma a tutto l'uomo, soggiogandolo, e quasi obbligandolo ad una partecipazione personale all'azione presentata».
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In particolare
CINEMA
«Il cinematografo, a sessant'anni dalla sua invenzione, è diventato uno dei più importanti mezzi di espressione del nostro tempo. Pertanto, a rendere il cinema positivo strumento di elevazione, di educazione e di miglioramento, è necessaria la coscienziosa collaborazione di tutti coloro che hanno parte di responsabilità nella produzione e nella diffusione degli spettacoli cinematografici.
«Nel giudicare del contenuto morale di un film, si ispirino i revisori alle norme da noi esposte in varie occasioni, specialmente sul film ideale, ed in particolare a quelle riguardanti gli argomenti religiosi, la presentazione del male ed il rispetto dovuto all'uomo, alla famiglia ed alla sua santità, alla Chiesa ed alla società civile».
«Sale cattoliche - E' ovvio che le sale cinematografiche dipendenti dalla autorità ecclesiastica, dovendo assicurare ai fedeli e particolarmente alla gioventù, spettacoli educativi ed un sano ambiente, non potranno presentare film che non siano ineccepibili dal punto di vista morale». «S'avvicinino gli autori dei film alle fonti di grazia, assimilando la dottrina del Vangelo, prendano conoscenza di quanto la Chiesa insegna sulla realtà della vita, sulla felicità e sulla virtù, sul dolore e sul peccato, sul corpo e sull'anima, sui problemi sociali e sulle aspirazioni umane, e allora vedranno aprirsi davanti a loro vie nuove e luminose, ispirazioni feconde ad opere affascinanti e di valore permanente».
«Occorrerà pertanto favorire e moltiplicare le iniziative e le manifestazioni destinate a sviluppare e a intensificare la loro vita interiore, avendo anzitutto particolare cura della formazione cristiana dei giovani che si preparano alle professioni cinematografiche».
RADIO
«Quale privilegio e quale responsabilità - dicevamo in un recente discorso - per gli uomini del presente secolo e quale differenza tra i giorni lontani, in cui l'insegnamento della verità, il precetto della fraternità, le promesse della beatitudine e-terna seguivano il lento passo degli apostoli sugli aspri sentieri del vecchio mondo, ed oggi, in cui la chiamata di Dio può raggiungere nel medesimo i-stante milioni di uomini !
E' un'ottima cosa che i fedeli profittino di questo privilegio del nostro secolo, e godano delle ricchezze dell'istruzione, del divertimento, dell'arte e della stessa parola di Dio, che la radio può apportare per dilatare le loro conoscenze e i loro cuori.
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«Tutti sanno quanta virtù educativa possono a-vere le buone trasmissioni; ma nello stesso tempo l'uso della radio comporta delle responsabilità, perché anch'essa, come le altre tecniche, può essere adoperata per il bene e per il male. Si può applicare alla radio la parola della Scrittura: «Con essa benediciamo il Signore e Padre; e con essa malediciamo gli uomini che sono stati creati a immagine di Dio. Dalla stessa bocca esce la benedizione e la maledizione» (Iac. 3,9 e 10). I pastori di anime ricorderanno perciò ai fedeli che la legge di Dio vieta di ascoltare le trasmissioni dannose alla loro fede o alla loro vita morale ed esorteranno coloro che hanno la cura della gioventù, alla vigilanza ed alla sapiente educazione del senso della responsabilità di fronte all'uso dell'apparecchio collocato in casa».
«I metodi moderni di sondaggio della pubblica opinione, permettendo di misurare il grado di interesse che hanno suscitato le singole trasmissioni, sono certo di grande aiuto ai responsabili dei programmi; ma l'interesse più o meno vivo suscitato nel pubblico può essere spesso dovuto a cause transitorie o a impulsi non ragionevoli, e non è quindi da considerarsi un sicuro indice della retta norma di agire».
«Considerando intanto attentamente le possibilità che ci offre la radio per l'apostolato, e spinti dal mandato del Divino Redentore: «Andate per tutto il mondo, predicate l'Evangelo ad ogni creatura» (Mc. 16, 15), vi chiediamo, venerabili fratelli, di incrementare e perfezionare ancora, secondo le necessità e le possibilità del luogo, le trasmissioni religiose».
«A tale scopo saranno opportunamente indetti, nei paesi dove i cattolici dispongono di moderne attrezzature e di una più lunga esperienza, appositi corsi di addestramento che permetteranno ai candidati, anche di altre nazioni, di acquistare l'abilità professionale occorrente ad assicurare alle trasmissioni religiose un alto livello artistico e tecnico».
«Circa la partecipazione degli ecclesiastici, anche se religiosi esenti, alle trasmissioni radiofoniche e televisive, i Vescovi potranno emanare opportune norme, affidandone l'esecuzione agli uffici nazionali».
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TELEVISIONE
«Siamo a conoscenza dell'interesse con cui un vasto pubblico segue le trasmissioni cattoliche alla televisione. E' ovvio che la partecipazione per la televisione alla Santa Messa - come qualche anno fa abbiamo detto in merito alla radio - non è la stessa cosa che l'assistenza fisica al Divin Sacrificio, richiesta per soddisfare al precetto festivo. Tuttavia i copiosi frutti che provengono per l'incremento della fede e la santificazione delle anime dalle trasmissioni televisive delle cerimonie liturgiche per quanti non vi potrebbero partecipare, ci inducono ad incoraggiare queste trasmissioni».
«Sarà ufficio dei Vescovi di ciascun paese giudicare circa l'opportunità delle varie trasmissioni religiose e di affidarne l'attuazione al competente ufficio nazionale, il quale, come nei precedenti settori, svolgerà una conveniente opera d'informazione, di educazione, di coordinamento e di vigilanza sulla moralità dei programmi».
«Perché tale soluzione si possa ottenere simultaneamente con la progressiva introduzione nei singoli paesi della tecnica stessa, occorrerà anzitutto compiere un intenso sforzo per preparare programmi che corrispondono alle esigenze morali, psicologiche e tecniche della televisione. Invitiamo perciò gli uomini cattolici di cultura, di scienza e di arte, e in primo luogo il clero e gli ordini e congregazioni religiose, a prendere atto della nuova tecnica e a dare la loro collaborazione perché la televisione possa attingere alle ricchezze spirituali del passato e a quelle di ogni autentico progresso».
«Occorrerà inoltre che i responsabili dei programmi televisivi non solo rispettino i principi religiosi e morali, ma tengano conto del pericolo che trasmissioni destinate agli adulti potrebbero rappresentare per i giovani. In altri campi, come ad esempio avviene per il cinema o il teatro, i giovani sono nella maggior parte dei paesi civili, protetti con apposite misure preventive dagli spettacoli sconvenienti. Logicamente, e a maggior ragione, anche per la televisione dovranno essere garantiti i vantaggi di un'oculata vigilanza».
«Tuttavia anche la buona volontà e la coscienziosa attività professionale di chi trasmette non sono sufficienti per assicurare il pieno profitto della meravigliosa tecnica del piccolo schermo, né per allontanare ogni pericolo».
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«Insostituibile è la sapiente vigilanza di chi riceve. La moderazione nell'uso della televisione, la prudente ammissione ai programmi dei figli secondo la loro età, la formazione del loro carattere e del loro retto giudizio sugli spettacoli visti, e infine il loro allontanamento dai programmi non adatti, incombe come un grave dovere di coscienza sui genitori, sugli educatori. Sappiamo bene che specialmente quest'ultimo punto potrà creare situazioni delicate e difficili e il senso pedagogico spesso richiederà ai genitori di dare il buon esempio anche con personale sacrificio nel rinunciare a determinati programmi. Ma sarebbe troppo chiedere ai genitori un sacrificio quando è in gioco il supremo bene dei figli?».
«Sarà pertanto più che mai necessario e urgente - come abbiamo scritto ai Vescovi d'Italia - formale nei fedeli una coscienza retta dei doveri cristiani circa l'uso della televisione, perché essa non serva mai alla diffusione dell'errore e del male, ma diventi "uno strumento di informazione, di formazione, di trasformazione».
Conclusione
«Non possiamo concludere questi nostri insegnamenti, venerabili fratelli, senza ricordare quanto importante sia nell'azione che la Chiesa deve svolgere in favore e per mezzo delle tecniche di diffusione (come in tutti gli altri campi di apostolato) l'opera del sacerdote».
«Egli deve conoscere i problemi che il cinema, la radio, e la televisione pongono alle anime. Il sacerdote in cura d'anime - dicevamo ai partecipanti alla Settimana di Aggiornamento pastorale in Italia - può e deve sapere quel che affermano la scienza, l'arte e la tecnica moderna, in quanto riguardano il fine e la vita religiosa e morale dell'uomo. Deve sapere servirsene quanto, a prudente giudizio della autorità ecclesiastica, lo richiederà la natura del suo sacro ministero e la necessità di giungere a un più gran numero di anime. Deve, infine, se ne usa per sé, dare a tutti i fedeli l'esempio di prudenza, di temperanza e di senso di responsabilità».
«Ed è proprio per orientare verso il bene delle anime questi doni della Provvidenza che vi abbiamo paternamente esortati non solo alla doverosa vigilanza, ma anche a positivi interventi».
«Il Sacro Cuore di Gesù non permise mai a S. Maria Margherita Alacoque di opporsi alle decisioni delle sue superiore, anche quando non erano conformi ai suoi disegni. Gesù le disse un giorno: Sappi che non mi offendo di tutte queste lotte ed opposizioni che mi fai per obbedienza, perché per l'obbedienza io ho data la vita... Perciò io voglio che tu faccia non solo quello che ti comandano le superiore, ma anche che tu non faccia cosa alcuna di ciò che ti ordino, senza il loro consenso, lo amo l'obbedienza, senza di essa non mi si può piacere».
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Chi si allontana dall'obbedienza si allontana da Dio. Disse il S. Cuore di Gesù a S. Margherita Alacoque: «I religiosi separati o discordi dai loro superiori devono essere considerati come vasi di riprovazione, in cui ogni buon liquore si corrompe; e se su di essi il sol di giustizia manda ì suoi raggi, ottiene lo stesso effetto del sole che risplende sul fango. Il mio cuore rigetta talmente tali anime che io mi allontano da esse per l'orrore che mi destano a misura che esse si sforzano di avvicinarsi a me con i sacramenti e l'orazione... e questa discordia ha fatto perdere tante anime, e ne farà perdere ancora più, perché ogni superiore, buono o cattivo che sia, sta al mio posto e l'inferiore che vi si oppone, ne riporta ferite mortali nell'anima; dopo questo egli picchierà invano alla porta della misericordia: non sarà ascoltato, se io non ascolto prima la voce del Superiore» (Gauthey, Opere...).
Memorare
E' uscita la nuova edizione del libro «Le preghiere della Pia Società S. Paolo». Ogni copia L. 230.
Nel canto dei vespri usare tutti la nuova traduzione dei salmi. Prepararsi per l'adattamento delle parole alle note.
E' pronto il «Calendario Paolino 1958». Ogni copia L. 300.
E' pure uscito il catechismo vocazionario col titolo «E tu che farai?», pag. 208, ogni copia L. 300.
Per le elezioni politiche che si prevedono nella prossima primavera, si ricorda a quanti hanno il diritto al voto, di mettersi in condizione di poterlo dare.
Si pregano pure i Superiori delle varie Case d'Italia di far fare i dovuti accertamenti presso l'anagrafe per assicurarsi che la posizione di ognuno sia in ordine, in modo che nessun voto vada perduto.
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