Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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Anno XXXII
SAN PAOLO
Marzo 1957
Roma Casa Generalizia,

AVE MARIA, LIBER INCOMPREHENSUS, QUAE VERBUM ET FILIUM PATRIS MUNDO LEGENDUM EXHIBUISTI (S. EPIPHANIUS EP.)

«TESTIMONIUM CONSCIENTIÆ NOSTRÆ»

(2 Cor. 1-12)


«IL PIÙ ALTO IMPEGNO DELL'EDUCAZIONE»

È quello di formare la coscienza morale degli educandi. Ogni sana educazione mira a rendere superflua, poco a poco, l'opera dell'educatore; a che l'educando si renda indipendente entro giusti limiti dall'educatore. E questo vale soprattutto nella formazione della coscienza. Suo scopo è «l'uomo perfetto, nella misura della pienezza dell'età di Cristo» (Ef 4,13), dunque l'uomo maggiorenne, che abbia anche il coraggio della responsabilità. Responsabilità larghissima quando alla vita cristiana si aggiunge la vita religiosa con i santi Voti; e responsabilità quasi senza limiti quando, di più, si ascende al sacerdozio. Conciliare libertà con responsabilità, coscienza delicata ed obbedienza è grande problema, è grazia da chiedersi sempre.
Ma quale febbre travaglia oggi tanta gioventù e tanti adulti a questo riguardo? La persuasione di aver raggiunta la maturità per la vita, fa sì che molti reputino la direzione dei superiori e della Chiesa, cosa indegna nel modo di trattare un'età adulta. Ne sono convinti e lo affermano: «non vogliamo essere sotto tutori ed amministratori, a guisa di fanciulli». Vogliono essere indipendenti e trattati come aventi capacità da guidarsi in tutto. Non esitano a ripetere: «la Chiesa faccia pure i suoi precetti, i superiori le loro disposizioni... ma quando si tratta di eseguire, Chiesa e superiori se ne stiano fuori.. Lascino che ognuno si guidi secondo la propria coscienza!». Non vogliono alcun interprete o intermediario tra loro e Dio; ma operano secondo le proprie vedute e osano dire «secondo la mia coscienza».
È ben diverso essere adulti dall'essere capaci di far da sé. Non sono capaci di far da sé né i giovani, né gli adulti, né gli anziani in tutto. Le Costituzioni provvedono per tante cose, perché nessuno cada in gravi errori, confidando eccessivamente nel proprio sapere, nella propria forza ed abilità.
I giovani hanno da imparare la strada della vita; gli adulti, anche già superiori, hanno da conformarsi alle Costituzioni e dipendere da chi sta sopra di loro; e chi sta sopra ha da obbedire, sentire, servire, aiutare; chiedere più consigli perché ogni suo atto ha più larghe conseguenze. È solo chi non cammina che non ha mai bisogno di chiedere la strada.
Dunque sempre bambini? Sì e no! Conservare l'innocenza, la schiettezza, la docilità del bambino; per aggiungervi la prudenza, la fortezza, l'umiltà, la generosità dell'adulto. «Se non vi farete come questo bambino non vi sarà posto per voi nel regno dei cieli» (Mt 18,2), disse Gesù agli Apostoli.
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La coscienza, da cum scire, è un atto con cui applichiamo un principio morale ad un atto particolare. Tende ad accordare le opere ai principi morali supremi e particolari: «habens fidem et bonam conscientiam» (I Tim. 1,19).
a) Riguardo al passato (consequens) facciamo l'esame di coscienza in cui approviamo o disapproviamo il nostro operato.
Se la coscienza disapprova, ecco la confessione dinanzi a Dio, a noi, al confessore. «Sanguis Christi emundabit conscientiam nostram». Diversamente si dovrebbe ricordare: «vermis (conscientiae) eorum non moritur». «Punge come spada la coscienza» (Prov. 12,18).
Se approva, ecco la soddisfazione del bene operato; che, se compiuto soprannaturalmente, va ad aspettarci sulle porte dell'eternità per il premio: «in reliquo reposita est mihi corona iustitiae quam reddet mihi Dominus». «Gloria nostra est testimonium nostrae conscientiae» dice S. Paolo.
b) Riguardo al presente - la coscienza, per qualcosa che si ha da fare o lasciare, giudica antecedentemente (antecedens) e sollecita ad operare, o ritrae dall'operare.
È la coscienza morale propriamente detta. San Paolo raccomanda di obbedire all'autorità propter conscientiam (Rom. 13, 5). Ed egli dice di sé: «Io mi studio di conservar sempre incontaminata la coscienza innanzi a Dio ed agli uomini» (Atti 24,16).
c) La coscienza ha quindi lo scopo di dirigere gli atti umani deliberati, perché l'uomo faccia il bene e eviti il male; e meriti così la lode di buono: «euge, serve bone et fidelis». Così si assicura il giudizio ultimo ed eterno sull'azione, perché ogni cosa è proceduta «de corde puro, de conscientia bona, de fide non ficta» (I Tim. 1,5).
d) La coscienza è regola degli atti umani e non è mai lecito operare contro di essa, sia che ordini qualche azione, sia che la vieti; siamo perciò tenuti a seguirla. Assioma: «Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad gehennam». Se tuttavia si tratta di una cosa soltanto permessa non è obbligatorio seguirla. Se si tratta di cosa consigliata non è obbligatorio seguirla.
Condizioni: a) Da parte dell'oggetto occorre che vi sia la verità (conscientia vera) e la rettitudine (conscientia recta). Es.: sono certo del contenuto delle Costituzioni e so che sono buone perché approvate.
b) Da parte del soggetto occorre che vi sia certezza (conscientia certa) Es.: so che oggi è veramente domenica; so che le Costituzioni veramente dispongono l'apostolato. Esclude tutto ciò che è falsato od erroneo; ciò che è ambiguo. «Omne quod non est ex fide peccatum est» (Rom. 14,23).
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Può essere: naturale: es.: lo scolaro sa che deve andare a scuola, al fine di imparare e farsi una carriera;
o soprannaturale: un giudizio pratico: quello che è da farsi è soprannaturalmente buono e meritorio; oppure non è tale, anzi peccato.

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Tuttavia spesso con la stessa parola «conscientia» si indica il modo abituale di formare quel giudizio nelle varie contingenze e la disposizione soggettiva dell'individuo che giudica. Di qui le espressioni: uomo di coscienza delicata, uomo di coscienza lassa, uomo di coscienza retta, uomo senza coscienza; coscienza sacerdotale, coscienza cristiana, coscienza religiosa, coscienza naturale, coscienza soprannaturale.
Le disposizioni interne hanno somma influenza nel giudicare della moralità di un'azione.
La coscienza è come un santuario, la cui soglia è inviolabile per tutti, compresi i genitori. Eccezione unica il sacerdote confessore, che tiene il posto di Gesù Cristo; e tuttavia il vincolo del sigillo sacramentale ne assicura la inviolabilità rispetto a tutti.
La coscienza è «ciò che vi ha di più profondo ed intrinseco nell'uomo». «È come il nucleo più intimo e segreto dell'uomo». «In essa l'uomo si rifugia con le sue facoltà spirituali in assoluta solitudine; solo con se stesso, o, meglio, solo con Dio - della cui voce la coscienza risuona - e con se stesso. Là egli si determina per il bene o per il male; là egli sceglie tra la strada della vittoria o quella della disfatta. Quando anche volesse, l'uomo non riuscirebbe mai a togliersela di dosso; con essa, o che approvi o che disapprovi, percorrerà tutto il cammino della vita; ed egualmente con essa, testimonio veritiero ed incorruttibile, si presenterà al giudizio di Dio».
Educare la coscienza significa dare all'individuo le cognizioni e gli aiuti necessari per un retto giudizio e per operare in conformità con esso.
Perciò:
1) istruzione
2) salvare da aberrazioni
3) fortificare la volontà ad eseguire in libertà e con fortezza.

Errori


Vi è una nuova corrente di pensiero, «la morale nuova» la morale «delle circostanze» o della «situazione». Una morale che, infine, è soggettiva; una morale dell'utile, del comodo, anziché dell'onesto; una morale di un giudizio singolare e casuale, perciò mutevole; morale che crea un caos interiore e sociale; morale che Pio XII ha detto «fuori della fede e dei principi cattolici» (23-3-1952).
Si vorrebbe quasi istituire una revisione a tutto l'ordinamento ed insegnamento morale. Si vorrebbe svincolarlo dall'insegnamento della Chiesa, che dipingono come sofistico, casuistico, opprimente, angusto. Pressoché quanto si dice e si vorrebbe nel campo dogmatico; cioè un'indipendenza intellettuale e morale da Gesù Cristo e dalla Chiesa. Si può ricordare quanto dice lo Spirito Santo: «tutto è puro per i puri; per i contaminati... nulla è puro; ma si è contaminata in loro anche la mente e la coscienza» (Tit. 3, 16).
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È negare che Gesù Cristo è la Via; che Egli ha consegnato alla Chiesa la sua rivelazione; di cui la Chiesa è custode, interprete, difesa; mentre ha il mandato di esporla a tutti gli uomini. La divina assistenza è promessa non agli individui, ma alla Chiesa, perché possa interpretarla infallibilmente ed applicarla secondo i bisogni di tempi e luoghi.
La vera libertà è ben altra cosa dalla sfrenatezza, dissolutezza, licenza; è invece una provata idoneità al bene; è un risolversi da sé a volerlo compiere (Gal. 5, 13); è la padronanza sulle proprie facoltà, sugli istinti, sugli avvenimenti.
La Chiesa sempre ha difeso la umana libertà. Essa vuole che l'uomo sia introdotto nelle infinite ricchezze della fede e della grazia, in modo persuasivo, così da sentirsi invitato ed inclinato a considerarle, penetrarle, accettarle, come suo bene temporale ed eterno.
Il Papa parla chiaramente, quale Vicario di Gesù Cristo; dice:
«La Chiesa però non può ritirarsi dall'ammonire i fedeli che queste ricchezze non possono essere acquistate e conservate se non a prezzo di precisi obblighi morali. Una diversa condotta finirebbe col far dimenticare un principio dominante, sul quale ha sempre insistito Gesù, suo Signore e Maestro. Egli infatti ha insegnato che per entrare nel regno dei cieli non basta dire «Signore, Signore», ma deve farsi la volontà del Padre celeste (Matt. 7,21). Egli ha parlato della porta stretta e dell'angusta via che conduce alla vita (Matt. 7, 13-14) ed ha aggiunto: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrare e non vi riusciranno» (Luc. 13,24). Egli ha posto come pietra di paragone e segno distintivo dell'amore verso se stesso, Cristo, l'osservanza dei comandamenti (Io. 1,21). Similmente al giovane ricco, che lo interroga, Egli dice: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» ed alla nuova domanda «Quali?» risponde: «Non uccidere! non commettere adulterio! non rubare! non dire falsa testimonianza! onora il padre e la madre! e ama il prossimo tuo come te stesso!». Egli ha messo come condizione a chi vuole imitarlo, di rinunziare a se stesso e di prendere ogni giorno la sua croce (Lc. 9.23). Egli esige che l'uomo sia pronto a lasciare per Lui e per la sua causa quanto ha di più caro, come il padre, la madre, i propri figli, e fin l'ultimo bene, la propria vita (Matt. 10, 37-39). Poiché Egli soggiunge: «A voi dico, amici miei: non temete quelli che uccidono il corpo, e dopo tanto non possono fare di più. Vi mostrerò io chi dovete temere: temete Colui, che, dopo tolta la vita, ha il potere di mandare all'inferno» (Lc. 12, 4-5).
Così parlava Gesù Cristo, il divin Pedagogo, che sa certamente, meglio degli uomini, penetrare nelle anime ed attrarle al suo amore con le infinite perfezioni del suo Cuore, bonitate et amore plenum (Lit de Sacr. Corde Iesu).
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E l'Apostolo delle genti, S. Paolo, ha forse predicato altrimenti? Col suo veemente accento di persuasione, svelando l'arcano fascino del mondo soprannaturale, egli ha dispiegato la grandezza e lo splendore della fede cristiana, le ricchezze, la potenza, la benedizione, la felicità in essa racchiuse, offrendole alle anime come degno oggetto della libertà del cristiano e meta irresistibile di puri slanci d'amore. Ma non è men vero che sono altrettanto suoi gli ammonimenti come questo: «Operate con timore e tremore la vostra salute» (Fil. 2,12), e che dalla medesima sua penna sono scaturiti alti precetti morali, destinati a tutti i fedeli, siano essi di comune intelligenza, ovvero anime di elevata sensibilità. Prendendo dunque come stretta norma le parole di Cristo e dell'Apostolo, non si dovrebbe forse dire che la Chiesa di oggi è inclinata piuttosto alla condiscendenza che alla severità? Di guisa che l'accusa di durezza opprimente, dalla «nuova morale» mossa contro la Chiesa, in realtà va a colpire in primo luogo la stessa adorabile Persona di Cristo».
Ed è specialmente riguardo ai problemi della purezza, castità che si tende ad una morale in opposizione al Vangelo.
Nello stesso tempo si scusano come inevitabili certe cadute, affermando che la passione toglie la libertà. Eppure Dio ci ha dati i Comandamenti; la Chiesa li predica: non possiamo capirli e adattarli alle nostre passioni con interpretazioni soggettive; ma dobbiamo conformare la nostra mentalità ad essi, come a norma oggettiva e vincolante.
Molto si grida ai diritti dell'uomo, anche a discapito dei diritti di Dio cui apparteniamo.
Il compito della coscienza è esattamente quello di dare un giudizio sopra una azione imminente, partendo da una legge universale (estrinseca all'uomo) e applicandola al caso particolare.
Quando giudichiamo infatti della moralità di una persona pensiamo se il suo operare si conforma alle leggi naturali e positive; non ad una indipendenza dai principi.
La «morale nuova» non si fonda su principi generali (Comandamenti per esempio), ma sulle condizioni o circostanze particolari e concrete, in cui si deve agire; ed allora con la ragione della personalità si va a quanto piace, o è utile, o è opinione diffusa, o secondo l'ambiente, o secondo la situazione.
La «morale nuova» si va oggi molto estendendo: perciò l'educatore deve assolutamente fondare la sua azione nel predicare il volere di Dio.
Si scusano taluni delle colpe più gravi: «io la vedevo così». S. Paolo parla di coloro che hanno «cauteriatam conscientiam» (I Tim. 4,2).
La «morale nuova» o «della situazione» nega il valore dell'insegnamento e dell'esempio di Gesù e scalza dal fondamento la predicazione della Chiesa.
L'educatore è un ripetitore, non un facitore di precetti. È un banditore della volontà divina; non un legislatore. L'educando ha da ricevere umilmente e conformarvisi.

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I. Istruzione
La vita umana è tutta un viaggio da Dio a Dio; Via Cristo: con la verità, l'esempio, la grazia che Egli ha portato dal cielo.
Percorrere questo cammino significa, nella pratica, accettare il volere e i comandamenti di Gesù Cristo; e conformare ad essi la vita, cioè i singoli atti, interni ed esterni, che la libera volontà umana sceglie e fissa. Ora qual è la facoltà spirituale, che nei casi particolari addita alla volontà medesima, affinché scelga e determini gli atti che sono conformi al volere divino, se non la coscienza? Essa è, dunque, la eco fedele, nitido riflesso della norma divina delle umane azioni. Cosicché le espressioni «il giudizio della coscienza cristiana», o l'altra «giudicare secondo la coscienza cristiana» hanno questo significato: la norma della decisione ultima e personale per un'azione morale va presa dalla parola e dalla volontà di Gesù Cristo. Egli è infatti Via, Verità e Vita; non solo per tutti gli uomini presi insieme, ma anche per ogni singolo individuo (cfr. Giov. 14,6). È tale per l'uomo maturo, è tale per il fanciullo ed il giovane.
Da ciò consegue che formare la coscienza cristiana di un fanciullo o di un giovane consiste innanzi tutto nell'illuminare la loro mente circa la volontà di Cristo, la sua legge, la sua vita; ed inoltre nell'agire sulla loro anima, per quanto ciò può farsi dall'esterno, a fine di indurlo alla libera e costante esecuzione del divino volere.
«È questo il più alto impegno dell'educazione» dice il Papa.
Dove troveranno l'educatore e l'educando, in concreto, con facilità e certezza la legge morale cristiana? Nella legge del Creatore impressa nel cuore di ciascheduno (cfr. Rom. 2,14-16), e nella Rivelazione; nel complesso cioè delle verità e dei precetti insegnati dal Divino Maestro.
Ambedue, sia la legge scritta nel cuore, ossia la legge naturale, sia la verità e i precetti della Rivelazione soprannaturale, il Redentore Gesù ha rimesso, come tesoro morale dell'umanità, nelle mani della sua Chiesa; affinché essa le predichi a tutte le creature, le illustri e le trasmetta, intatte e difese da ogni contaminazione ed errore, dall'una all'altra generazione.

II. Salvare il giovane e l'adulto da aberrazioni
Il fanciullo e il giovane devono essere convenientemente istruiti: è il punto di partenza. Ma l'istruzione deve essere proporzionata al fine. Sempre si ha da formare la persona in Cristo, Via, Verità e Vita. Ma Cristo si può vivere in diversa misura dal semplice cristiano, dal religioso, dal Sacerdote.
Corrisponde allora una coscienza cristiana, una coscienza religiosa, una coscienza sacerdotale.
La prima richiede un'istruzione sui dogmi, sui precetti, sui mezzi di grazia che deve sempre seguire e adoperare il cristiano.
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La coscienza religiosa richiede ancora in aggiunta istruzione sulle verità e precetti che reggono la vita religiosa e lo spirito di orazione proprio del religioso.
La terza richiede un'abbondante istruzione sopra la verità, la vita, la pietà del sacerdote, i suoi uffici e doveri rispetto a Dio e alle anime; e i mezzi di santificazione e di apostolato propri del Ministro di Dio e del dispensatore dei suoi tesori di verità, grazia, santità.
Ora un errore gravissimo in sé e rovinoso per le coscienze è questo: che per il sacerdote basti la coscienza di un religioso laico o di una religiosa; o che per il religioso basti la coscienza di un cristiano, o di un uomo retto. I principi, i precetti, gli impegni, i doveri sono ben diversi, e per il giudizio pratico occorre tener presente tutto.
Il religioso ha una disciplina cui è tenuto; così il sacerdote, così il cristiano secondo il proprio stato. Forse che il giovane cristiano non è tenuto al sesto comandamento? Forse che il religioso non è obbligato a praticare anche i mezzi difensivi stabiliti dalle Costituzioni? Forse che il religioso non ha come primo dovere il santificarsi con la pratica dei voti, nella vita comune?
Se gli aspiranti e giovani professi specialmente, poi in proporzione i professi perpetui e i sacerdoti aprono troppo le orecchie o gli occhi al mondo, alle massime e agli esempi mondani, finiscono col formarsi una mentalità mondana.

III. Fortificare la volontà
L'educazione è efficacissimo mezzo. Chi educa può e deve agire sull'animo dell'educando per indurlo alla libera e costante scelta ed esecuzione della volontà divina. Si noti: libera e costante scelta, poiché non si tratta né di costringere, né di ridurla ad una esortazione teorica. Si tratta di convincere, ripetere, esortare, assistere e correggere l'educando: «Praedica verbum opportune, importune; argue, obsecra, increpa in omni patientia et doctrina» (2 Tim. 4,2). Qui si apre all'educatore un vastissimo campo: spirito di iniziativa, bontà e fermezza d'animo, preghiera e comprensione.
L'amore vivo al Signore, l'abitudine di pensare che Dio è Padre, che ogni suo comando è fatto di sapienza e bontà ed a vantaggio nostro temporale ed eterno, costituiranno uno stabile modo di giudicare e operare rettamente.
Gesù Cristo ha presentato costantemente nella sua predicazione la sanzione eterna della vita morale: premio e castigo. Ha descritta la felicità eterna di chi è servo buono e fedele; come la tortura eterna di chi è servo inutile e infedele.
Ha preannunciato il «venite, benedetti dal Padre mio, possedete il regno che vi è stato preparato dall'inizio del mondo»; come ha espressamente proclamato: «andate lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli».
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Il Signore ha parlato di due vie - larga l'una, stretta l'altra - ma che conducono a ben diversa fine.
Ha assicurato una grande mercede a chi per lui soffre calunnie e persecuzioni (Matt. 5,12), e ha annunziato i castighi eterni per gli ostinati ipocriti e persecutori.
Ha detto che anche un bicchier d'acqua dato all'assetato avrà la sua mercede e ha detto pure di temere colui che dopo tolta la vita ha il potere di mandare all'inferno.
Ha messo di fronte nella parabola il ricco Epulone, gaudente e crudele in vita, poi arso nel fuoco nell'eternità, al povero Lazzaro ammalato ed affamato, ma paziente in vita, ma felice nel seno di Abramo dopo morte.

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Mezzo efficacissimo per formare la delicatezza di coscienza, la sensibilità alle voci di essa, i rimorsi del peccato e la gioia di aver operato bene è la divozione a Maria. Si intende una divozione illuminata, tenera, pratica, orante. Maria è un ideale di immacolatezza e illibatezza che fa concepire un gran timore del peccato, delle occasioni pericolose, della stessa venialità. Maria è la piena di grazia, la creatura più intima a Dio, la benedetta Madre che dà a noi Gesù, e ce ne ispira l'amore, fa nascere il desiderio della purezza, del sacrificio, della vocazione... Maria è la mediatrice universale della grazia, madre premurosa per noi, pronta ad ogni invocazione dei figli pericolanti e bisognosi; basta chiamarla che subito l'anima si rasserena, il demonio impuro si allontana, il coraggio si riprende, il cuore si accende di entusiasmo. Formare alla divozione a Maria significa allontanare il peccato, portare i cuori a Gesù: cioè acquistare delicatezza di coscienza.

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Altro mezzo del tutto necessario a formare la coscienza cristiana, specialmente religiosa ed ancor più la sacerdotale, è la meditazione dei novissimi.
I novissimi sono: l'immortalità dell'anima, la morte, cioè la separazione temporanea dell'anima dal corpo, il giudizio particolare, il paradiso, l'inferno, il purgatorio, la risurrezione della carne, il giudizio universale con il «venite benedetti e allontanatevi maledetti», l'ingresso al cielo e la discesa all'inferno, l'eternità del cielo e la glorificazione di Dio, di Gesù Cristo, l'eternità delle pene: tutto si riassume nella meditazione del fine della creazione e della fine nostra, che dipende dalla volontà di prendere i mezzi.
Le meditazioni di un anno nel complesso vanno divise in tre parti: le grandissime verità; i mezzi che Gesù Cristo ha dato per la salvezza; l'amore a Dio con tutte le forze, tutta la mente, tutto il cuore. Quindi quattro mesi, più quattro mesi, più quattro mesi. Così ogni anno si allargano e approfondiscono ed ogni anno, come in metodo ciclico, si sale sempre più il monte santo della perfezione.
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L'istituto progredirà di persone, di opere e in santificazione quanto bene si mediteranno i novissimi. Dimenticando il «ad quid venisti», si è sulla china, nella discesa.
Le prediche saranno fruttuose se si saprà tenerne molte sui novissimi; e se le altre si legheranno nell'inizio e nella chiusa ad essi; si finirà coll'ancorare la fragile navicella della nostra vita al porto dell'eternità.
Si dice che occorre una catechesi ed una predicazione moderna, quella che prepara alla «morale nuova». Moderna quanto alla presentazione sì; ma il contenuto no. La morte è sempre uguale. Diversamente si guasta insensibilmente il nostro ministero, si minimizza l'apostolato tra i giovani, si dimostra una scarsa sensibilità psicologica.
La vita, la predicazione, la passione e la morte del Maestro Divino è tutta intesa a portare la vita eterna alle anime. La sua catechesi è tutta sostanziata dalle verità fondamentali ed eterne.
Si tratta del problema fondamentale e di tutti gli uomini: o vi è un giudizio ed una sanzione eterna alla legge morale; ed allora dobbiamo ordinare la vita a quella; o non vi è e non ci si pensa ed allora cade ogni precetto, e si può vivere a talento proprio.
I novissimi ben presentati esercitano una forza di prim'ordine nella formazione della coscienza. Hanno una funzione incitatrice e moderatrice per la generosità del giovane, che, spesso nella sua esperienza interiore, vitale, alterna eccedenze a deficienze, appunto per l'incompleta maturità ed i fenomeni diversi delle fasi evolutive. Motivi umani e naturali di «freno» possono anche servire bene, ma nessuno dubita della superiorità inibitrice e sollecitatrice delle supreme realtà. La morte, il giudizio, l'inferno, il paradiso nell'ordine della rivelazione sono «moniti» o preavvisi di ciò che avverrà. Sono un grande e positivo mezzo di formazione. Occorre presentarli bene e, diciamo pure, in modo adeguato; valorizzandone l'aspetto storico, provvidenziale, positivo.
E qui non si capisce come oggi si introduca un modo di educare puramente umano e una falsa paura di insistere sui novissimi... Non fece così Gesù, il Maestro. Trascurare questi mezzi di educazione sarebbe la più grave aberrazione di un formatore di coscienze cristiane e religiose.
Il parlare di personalità, di carattere, di vantaggi nella vita presente ha il suo valore. Ma come parlava Gesù Cristo? Come formava gli Apostoli? Forse promettendo beni temporali? Annunziava invece sacrifici, fatiche, persecuzioni... A tutti diceva: «chi vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua».
«Mundus gaudebit, vos vero contristabimini; ed tristitia vestra vertetur in gaudium».

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Dice il Papa: «La gioventù deve essere fiera della sua fede ed accettare che le costi qualcosa; fin dalla tenera infanzia deve abituarsi a far sacrifici per la sua fede, a camminare in rettitudine di coscienza innanzi a Dio, a rispettare ciò che egli ordina».
Ma qui l'educatore ha da formare una profonda convinzione nell'animo del detto: «Da me nulla posso, con Dio posso tutto». Dimostrerà perciò la insufficienza delle forze umane: «Dio non comanda cose impossibili; ma mentre impone un obbligo vuole che facciamo quanto possibile a noi; e gli chiediamo aiuto là dove non possiamo con le nostre forze».
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Occorre molta preghiera.
Pio XII insiste che «La fede della gioventù deve essere una fede orante».
È necessario per l'educazione formare lo spirito di preghiera, l'uso della confessione, della Comunione, la Liturgia che sono «i principali mezzi di santificazione e di salvezza», secondo il Codice di Diritto Canonico.
Accanto o insieme alla confessione occorre la direzione spirituale che è stata la via ed il mezzo prima del 1914 e sempre in seguito per la formazione dei Nostri; si usasse o no questo termine.
Sarà più particolare o più generale, più assidua o meno. Leone XIII la dice mezzo moralmente necessario, particolarmente trattandosi di vocazioni. Gesù Cristo a Saulo che, fermato sulla via di Damasco, chiede: «Domine, quid me vis facere?», risponde: «surge et ingredere civitatem et ibi dicetur tibi quid te oporteat facere».
Pio XII concludeva il suo discorso: «Educate le coscienze dei fanciulli con tenace e perseverante cura. Educatele al timore come all'amore di Dio. Educatele alla verità. Ma siate veraci per primi, voi stessi; ed escludete dall'opera educativa quanto non è né schietto, né vero. Imprimete nelle coscienze dei giovani il genuino concetto della libertà; della libertà, degna e propria di una creatura fatta ad immagine di Dio.
Educateli a pregare e attingere dai Sacramenti della penitenza ed Eucaristia ciò che la natura non può dare, la forza di non cadere, la forza di risorgere, sentano già da giovani che senza l'aiuto di queste energie soprannaturali essi non riuscirebbero ad essere né buoni cristiani, né semplicemente uomini onesti».
Sarà così formata la coscienza: illuminata, libera, praticamente e rettamente operante: nell'istruzione, nell'educazione, nell'ausilio della Divina grazia.
Si avrà il cristiano libero e forte, stabilito in Cristo, salvato dal pericolo di una «morale nuova» e soggettiva.
La voce della coscienza sarà allora l'eco della voce di Dio: «come un banditore, scrive S. Bonaventura, che non comanda a nome proprio, ma a nome del re del quale promulga un decreto».

Sac. Alberione


N. B. Le citazioni delle parole del Papa sono prese dal suo discorso del 23 marzo 1952.

Un errore in fatto di dottrina e di pratica sull'obbedienza è questa: sottomissione al Superiore per il suo prestigio e le sue doti intellettuali o morali, anziché per l'autorità divina che è in lui. Certo che le buone qualità di un Superiore sono preziosissime; ma lo spirito e il merito di chi obbedisce sta nel vedere il volere di Dio in quanto è disposto, indipendentemente dalla persona e qualità del Superiore. S. Paolo agli Ebrei scriveva: «Pregate per noi, poiché crediamo di avere una buona coscienza».
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L'obbedienza specialmente negli Istituti religiosi è perfezionata da due elementi: la pietà e la cooperazione.
La pietà che deve aleggiare tra i membri di un Istituto come dono dello Spirito Santo. Nella sua triplice applicazione: pietà paterna, pietà fraterna, pietà filiale.

Non facili alle imposizioni di un'idea, nelle adunanze specialmente; ma umile e chiara esposizione rimessa allo studio del
corpo sociale, con disposizione a rimettersi al volere comune, invocando la luce di Dio «cuius spiritu totum corpus sanctificatur et regitur». Ognuno porta umilmente il suo sassolino all'edificio. Vi è sempre chi mette la base e merita la fondamentale riconoscenza e gli si deve amore e può dare consigli per l'esperienza. Vi è chi edifica il pianterreno di una casa; e merita riconoscenza e gli si deve amore e può dare consigli. Così chi vi sovrappone altro piano, un terzo, un quarto... e chi vi pone il tetto; e tutto questo è necessario perché il progresso è doveroso amore a Dio e all'Istituto; ma facendo questo si costruisce sopra chi ha il principale merito di lavoro.
Soprattutto è Dio autore di tutto «ita ut non glorietur omnis caro». Coloro che continuano l'innalzamento, perché diventati orgogliosi, vengono disapprovati e dispersi da Dio
(Torre di Babele).
E i primi costruttori non disapprovino nè si oppongano ai progressi successivi, basta aver compiuto la propria parte, che è la missione individuale per l'eterna ricompensa...
Ha un senso degno di venir meditata la parola del Maestro Divino: «Chi crede in me, compirà anche lui le opere che io faccio, anzi ne farà delle maggiori, perché io vado al Padre
» (Gv. 14,12). Non ostacolare il bene da farsi, ma non distruggere quello che è fatto per mania di far tutto di nuovo, col pretesto che sia stato tutto mal fatto.
Vi è da allontanare il male e accrescere il bene: felici che Dio sia glorificato e che tutti abbiano verità, bene, pace!
La cooperazione di tutti i membri al duplice fine dell'Istituto: perfezione religiosa e apostolato.
Cooperazione
cordiale e generosa ai Superiori quanto è segnato e deciso secondo le Costituzioni e lo spirito di esse, un compito, un'iniziativa, una disposizione.
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PAOLO MARTIRE

Nella Miscna si legge un giudizio che viene da molti riferito a Paolo al quale solo si può applicare bene, considerando l'odio dei Giudei, che lo scrissero, contro il loro antico correligionario. Esso dice: "Egli ha sconsacrato il santuario, ha disprezzato i giorni festivi, ha sciolto il patto del nostro Padre Abramo, e di fronte alla Thorà ha scoperto il suo volto... Se anche egli ha mostrato buona conoscenza della Legge ed ha compiuto opere buone, tuttavia non può avere parte nel mondo avvenire" cioè non può essere accolto in Paradiso (Detti dei Padri, 3,12). E' la damnatio memoriae, la persecuzione continuata anche dopo la morte, perpetuata, se fosse possibile, nella eternità. Anche in questo il discepolo rassomigliò al Maestro di cui si leggono nei libri ebraici condanne atrocissime, insulti vergognosi.
Quando parliamo di martirio non pensiamo solo all'ultimo atto che causa la separazione dell'anima dal corpo: vi è un altro martirio che dura più a lungo, che può comprendere la vita intera: meno appariscente mi non meno doloroso; Maria Santissima non fu Uccisa, eppure è la Regina dei Martiri; e l'autore della Imitazione di Cristo poté affermare, con piena verità, che "tota vita Christi crux fuit et martyrium».
La stessa cosa possiamo affermare della vita di San Paolo, dalla conversione all'ultimo colpo di spada.

Che significa martirio


Nel senso etimologico, la parola martirio significa «testimonianza». Il Martire, infatti, anche nel senso odierno, è colui che rende testimonianza ad una verità, ad una virtù, ad una idea, anche a costo della propria vita. Oggi noi consideriamo il Martire come colui che sparge il proprio sangue per Cristo o una verità cristiana, o patisce pene capaci di dare la morte. Significato passato presto anche nell'uso profano, per indicare i sostenitori di una idea uccisi o imprigionati o seviziati in odio a quella. Ma perché il Martire sia veramente tale, occorre la volontarietà nel subire la pena, cosa che molte volte manca nei così detti martiri delle diverse idee politiche. Ad ogni modo questo significato odierno è solo derivato, benché oggi sia il principale. Una volta era chiamato martire chi testimoniava una cosa. Or, siccome «Veritas odium parit», sovente avveniva che la testimonianza della verità si pagava con il carcere, i supplizi, la morte. E così queste cose che prima erano conseguenze di una testimonianza, vennero gradatamente ad assumere il senso di martirio in senso odierno.
Tuttavia quando parliamo di Apostoli, o di ministri della parola di Dio, entriamo in un campo che comprende ambedue i significati: testimonianza e sofferenza.
L'apostolato stesso, infatti, è martirio; e lo è specialmente in due sensi.
Prima di tutto, per quanto riguarda l'apostolo stesso.
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Egli, votandosi all'apostolato, si vota ad una idea: ad una idea che non è sua, ma gli viene comunicata; non si vota ad essa per libera scelta, ma perché chiamato con una vocazione divina e specialissima. L'apostolato quindi richiede la rinuncia; la morte della propria volontà.
Abbiamo già avuto occasione di accennare al concetto che S. Paolo aveva dell'apostolato: non solo è un ministero da compiersi a nome di un altro: «Siamo ambasciatori: è Dio che esorta per mezzo nostro» (2 Cor. 5,20), ma è anche una implicita condanna a morte, se non fisica, certo morale: «Iddio fece figurare ultimi di tutti gli uomini noi, gli Apostoli, come destinati a morte, perché diventassimo uno spettacolo per il mondo, gli Angeli, gli uomini» (1 Cor. 4,9s.). E' una cosa ben dura, questa, durissima anzi, quando la si comprende e la si deve vivere. E' duro il dover sempre tenere le veci di un altro, dire sempre e solo quanto quest'altro vuole; è ripugnante, persino, a tutto l'essere umano, il non poter mai essere indipendente, il non poter mai guardare a qualche cosa come ad opera propria, e non poter mai avere la soddisfazione di aver compiuto qualcosa da sé, a nome proprio, con capacità propria. Eppure «l'apostolo non parla da sé, ma da Cristo. Non ragiona per propria conoscenza, per propria esperienza, ma per mandato e sulla parola di Dio» (R. Guardini): questa è la sua missione, per questo è stato chiamato: "Io ho scelto voi" (Giov. 15,16), ed è stato mandato non a manifestare vedute proprie, ma: «Andate ed istruite tutte le genti,... insegnando loro ad osservare tutto quanto vi ho comandato» (Mt. 28,19 s.).
Per quanto faccia, l'Apostolo opererà solo e sempre a nome di Cristo, per virtù di Cristo: «In nome mio scacceranno i demoni, parleranno nuove lingue, maneggeranno i serpenti e se avran bevuto qualche veleno non farà loro male» (Mc. 16,17s.). E, in definitiva, nella realtà, le anime non si salvano per la predicazione apostolica, ma per la fede: «Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo» (Mc. 16,16), e battezzato «Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt. 28,19).
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L'apostolo, quindi, esiste, ma così da non significare nulla: è Cristo che è tutto; da dover portare la grandiosa realtà di una veste non mai adeguata: la scienza di Cristo; da essere sempre inviato, mai indipendente; da dover condurre gli altri alla santità, ed essere soggetto a colpa; da non consistere mai, si può dire, nella propria semplice unità, dove sangue, cuore, spirito, sono semplicemente una cosa sola con ciò che si compie e si rappresenta, ma uomo angustiato, tormentato da missione divina (cfr. Guardini). Né solo questo. Molte volte l'Apostolo deve rimanere inerte mentre vede tanta necessità di opere accanto a sé. Deve attendere ordini. Deve ritornare sui suoi passi, rimangiarsi quanto ha detto e fatto a nome di Dio, ispirato da Dio. Si pensi al Profeta Isaia al letto del Re Ezechia (Is. 38,1-3). Alle volte deve subire gl'inciampi delle creature e sopportarne le cieche meschinità e viste corte, senza che Dio intervenga. Altre ancora deve ciecamente eseguire ordini, iniziare opere sènza comprenderne il significato o vederne l'utilità o l'esito: deve agire ed eseguire un ordine di Dio, ma come se si trovasse e dovesse agire e camminare in un vicolo buio..., o sapendo solo che l'aspetta la sofferenza e l'incomprensione e l'umiliazione... (Atti 20,22-24; 21,10s.).
Tutto ciò è continuo martirio, è consumazione, è stillicidio di sofferenza intima e profonda; da cui non si riceve neppure il conforto di umana comprensione e conforto. Vero martirio per una testimonianza cui si vuol essere fedeli: la testimonianza, prima di tutto, dell'amore.
Ma l'apostolato è martirio anche riguardo agli altri.
E' mistero della provvidenza salvifica di Dio, che la salvezza degli uomini non si ottenga se non attraverso la sofferenza. Gesù aveva predetto di sé: «Attrarrò tutti a me quando sarò innalzato sulla croce», ed è la croce che ora è venerata nel mondo intero, la Croce che piega i cuori umani all'amore, la Croce che spinge ai più grandi ed eroici sacrifici. Così è ancora di quanti sono chiamati a partecipare all'opera salvifica di Gesù Cristo. S. Paolo anche a questo riguardo aveva idee molto chiare ed esplicite: «Sono versato in libazione sopra il sacrificio e il culto della vostra fede» (Fil. 2,17): il suo sangue doveva consacrare le opere e la fede dei suoi figliuoli. E nella seconda lettera ai Corinti indica a chiare note che cosa significa essere apostoli: «In ogni cosa compressi, ma non coartati; perplessi, ma non smarriti; perseguitati, ma non sorpassati; prostrati, ma non perduti; e continuamente portando attorno lo stato morente di Gesù nel corpo, affinché pure la vita di Gesù sia manifestata nel corpo nostro. Sempre, infatti, noi, i viventi, siamo consegnati a morte a causa di Gesù, affinché pure la vita di Gesù sia manifestata nella nostra carne mortale». E tutto ciò perché? Ecco: «Cosicché la morte opera dentro in noi, ma la vita in voi» (4,8-12). Le sofferenze, la pazienza, i martini, la morte stessa degli apostoli meritano ai fedeli l'abbondanza della vita spirituale.

(continua al prossimo numero)
SAC. FEDELE PASQUERO

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