Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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6. CARITÀ VERSO IL PROSSIMO1

Questa mattina abbiamo avuto la consolazione di celebrare la Messa a Gesù Maestro. E al Maestro divino chiediamo tutte le grazie che ci sono necessarie. Quelle che ci sono suggerite dalla formula che ha insegnato egli medesimo e cioè: «Io sono la Via, la Verità e la Vita!»2. La Via: la fedeltà! La fedeltà alle promesse del Battesimo e ai voti e alle promesse che ognuno fa negli Esercizi spirituali o nella Confessione. Egli è la Verità, quindi aumento di fede nella parola di Gesù. Ed è la Vita, cioè egli comunica la vita soprannaturale.
Un giorno, creando, il Signore effuse la vita nelle piante, negli animali, nell’uomo, negli angeli. Quella era una vita naturale. Oggi a noi infonde la vita soprannaturale, la vita della grazia, per cui sono ben diversi gli uomini che incontriamo nelle città, per la strada. Gli uni sono composti di anima e di corpo, sono uomini, e figli dell’uomo. Gli altri sono composti di corpo, anima e grazia cioè di Spirito Santo e quindi sono figli di Dio. Come figli dell’uomo hanno la vita naturale, ma come figli di Dio hanno la vita soprannaturale. È ben diverso che il bambino muoia senza il Battesimo, allora l’aspetta il limbo3. Se invece muore dopo il Battesimo, allora è figlio di Dio, quindi come figlio è erede di suo padre, erede del Padre celeste cioè di Dio. E coerede, erede cioè insieme a Gesù Cristo di quel Padre celeste che tanto ci ama, e al quale noi tutto dobbiamo, e dobbiamo veramente. A lui sempre diciamo: Vere dignum et justum est nos tibi semper et ubique gratias agere:
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È cosa degna e giusta che noi sempre e in ogni luogo ti siamo riconoscenti4.
Essere nella nostra condizione di religiosi, di cristiani! Quale privilegio: cattolici, Chiesa cattolica! Su due miliardi e settecento milioni di uomini, soltanto ottocento milioni conoscono Gesù Cristo e di questi trecentocinquanta milioni sono fuori strada. Come è facile andare fuori strada se non stiamo sempre umili! E non solamente fuori della Chiesa cattolica, ma si può andare fuori dello spirito dell’Istituto, della vocazione e fuori della via di Dio, cioè della via che ci conduce alla santità. Quattrocentocinquanta milioni invece sono cattolici e noi abbiamo avuto la grazia di nascere in questa Chiesa cattolica, da una buona famiglia, in una buona parrocchia e appena abbiamo avuto la vita naturale, per misericordia di Dio, abbiamo pure avuto la vita soprannaturale al fonte battesimale: «Ex aqua et Spiritu Sancto»5. Fatti cristiani.
Che cosa dunque chiedere al Maestro divino? La grazia di seguirlo bene, imitarlo; la grazia di aumento di fede e la grazia di vivere bene questa vita soprannaturale. Non solo non perderla, ma renderla sempre più rigogliosa, perché Gesù non solamente ci ha preparato il Battesimo, «ut vitam habeant», ma vuole che noi l’abbiamo questa vita soprannaturale: «Più abbondante: Et abundantius habeant»6.
Questa vita è la carità, cioè è l’unione nostra con Dio. Il peccato quando è mortale toglie la vita soprannaturale, quindi si chiama mortale, perché porta la morte. E l’uomo dopo il peccato mortale è solamente più composto di anima e di corpo, non più di Spirito Santo: togliendo questa vita si chiama mortale. Allora quando c’è il peccato mortale, le opere che si fanno, anche se buone, non hanno più merito per la vita eterna. Quegli uomini che vanno a Messa alla domenica e che forse hanno l’anima macchiata di peccato, dalla Messa non guadagnano il merito per la vita eterna ma solamente se perdessero la Messa non commettono un altro peccato. E di più, se vanno
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ancora a Messa, vi è da sperare che il Signore infonda loro, presto o tardi, il sentimento del pentimento, del dolore, e quindi riacquistino la vita soprannaturale mediante il sacramento della Confessione o anche con il dolore perfetto, secondo le circostanze.
Quando una è in peccato grave, non fa più meriti. Per questo ieri nell’epistola di S. Paolo, si diceva: «Quand’io parlassi le lingue degli uomini e degli angeli e non avessi la carità, sarei come un bronzo che suona e un cembalo che squilla». E la campana non guadagna meriti a suonare, e io non guadagnerei meriti. «E quando avessi la profezia e conoscessi tutti i misteri e ogni scienza e, quando avessi tutta la fede», parla anche della fede, «fino a trasportare i monti e non avessi la carità, sarei un niente», perché, di nuovo, non guadagno per il paradiso. «E quando distribuissi tutto il mio per nutrire i poveri e sacrificassi il mio corpo ad essere bruciato», cioè a subire il martirio, «se non avessi la carità nulla mi giova»7. Perché? Perché l’uomo, che non è più unito a Dio, è come un ramo distaccato dalla pianta, non farà fiori, né foglie, né frutti. Dunque si richiede questa carità che è l’unione con Dio, che è l’amore di Dio, lo stato di grazia. Prende tanti nomi, ma è sempre la carità verso Dio, l’unione dell’anima con Dio.
Però ci sono anime che non sono distaccate da Dio, ma in esse non c’è il vigore spirituale, non attingono abbastanza dal Tabernacolo, non c’è abbastanza fervore. Ora le piante, anche se sono vive, se non sono bene nutrite nella radice, faranno poco frutto. Così vi sono anime che sono ancora in grazia di Dio, ma vivono una vita languida, hanno mille difetti. È come se uno fosse malato in tante parti, avesse male ai piedi, male al cuore e, forse un po’ ai polmoni, forse un po’ ai denti, un po’ agli occhi: è una vita stentata. Questi difetti volontari riducono la vita a uno stento. Fervore! Vita! Attingere dal Tabernacolo il calore spirituale e non impedire poi che questo calore sia tale da espandersi e da conservarsi.
Le venialità diminuiscono la carità, cioè l’unione con Dio, quando sono volontarie: «Veni ut vitam habeant, abundantius
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habeant: Sono venuto a portare la vita e una vita più abbondante». Quando vi sono belle Comunioni e belle Confessioni e belle Visite al SS. Sacramento, Messe ascoltate con intelligenza ed amore, allora questa vita diviene più abbondante. E se anche il corpo s’illanguidisce, le forze fisiche diminuiscono, lo spirito è più vivo e più forte. E allora: «Cum infirmor, tunc potens sum»8, diventando malato sono più potente presso Iddio, cioè ho più grazie. Lo spirito interiore, spirito interiore!
Questa carità verso Dio ci porta alla carità verso il prossimo. E qui da notare che questa settimana si può chiamare la settimana della carità. Il Vangelo e l’Epistola della domenica, di ieri, danno il tono alla settimana, indicano che cosa dobbiamo specialmente chiedere nella settimana: settimana della carità. D’altra parte questa casa dove ci troviamo è casa di carità! Casa di carità, perché da una parte vi è chi rende i servizi alle inferme, e dall’altra parte le inferme devono mettere a disposizione e a vantaggio della casa un po’ delle loro sofferenze, offrirle al Signore, e un po’ delle loro preghiere a vantaggio di chi è loro utile e presta i servizi. Allora casa dove c’è uno scambio di beni, ma da una parte i beni più materiali, sebbene non manchino i beni spirituali, e dall’altra parte più i beni spirituali, quantunque ognuna deve portare quel contributo di aiuto che può portare secondo le sue forze. Casa della carità, considerarla così.
Ma la carità verso il prossimo, la carità vera, dipende dalla carità verso Dio. Ci può essere uno che non abbia carità verso Dio e sia pieno di gentilezze esterne, di sorrisi, ecc., ma quella non è la vera carità. La vera carità è quando tutto è ordinato al cielo: «Qualunque cosa avete fatto al mio fratello, anche il minimo, l’avete fatto a me»9, siano servizi materiali o siano preghiere e sofferenze offerte a quel fine per chi presta i beni materiali, gli aiuti materiali alla salute. Dunque S. Paolo va avanti e dice: «La carità è paziente e benefica; la carità non è invidiosa, non è insolente, non si gonfia, non è ambiziosa, non cerca il proprio interesse, non si irrita, non pensa male, non
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gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. E tutto scusa, e tutto crede, e tutto spera, e tutto sopporta».
Discendendo dal cielo, dalla carità verso Dio, noi ci troviamo fra gli uomini e, quindi il primo comandamento è «Amerai il Signore Dio tuo», il secondo «Amerai il prossimo come te stesso»10: carità verso gli altri. Se manca l’una non c’è l’altra. Se manca la carità verso Dio non c’è la vera carità verso il prossimo. E se non siamo caritatevoli con il prossimo non amiamo neanche Dio, perché carità verso Dio e carità verso il prossimo formano una sola carità.
La carità verso Dio è come una fiamma che sale verso il cielo e la carità verso il prossimo è la medesima fiamma che spande il suo calore attorno. Chi ama il Padre celeste deve amare i suoi figli. Come se voi amaste un certo padre, un certo signore, che ha una famiglia numerosa, e se faceste dispiacere a un figlio finireste con dispiacere al padre. E se invece benefichiamo il figlio facciamo piacere, ossequio al padre. Così quello che facciamo al prossimo lo facciamo a Dio: «Lo ritengo fatto a me stesso». Quindi il premio eterno: «Venite, o benedetti, nel regno del Padre mio, perché avete fatto questo»11, dirà Gesù. Dunque questo merita di essere sempre letto e, magari fissato su cartelli da appendersi nei vari locali12.
Oh, paziente è la carità! Questa è la prima condizione, che siamo pazienti, perché mettendoci assieme noi portiamo del bene, per esempio la preghiera. La preghiera di molti è più potente verso Dio che la preghiera di uno solo. Ma mettiamo insieme anche i difetti e allora: «Ut discatis alter alterius onera portare»13, perché dobbiamo imparare a sopportarci gli uni con gli altri in piccole cose, minute, perché la carità in generale c’è. Ma a volte si guasta un po’ con piccole mancanze di rispetto, magari perché manca la pazienza. Si passano delle ore travagliate dal nervosismo. Allora anche una buona pietanza in cui ci sia dentro qualcosa, anche solo le mosche, non è più gra-
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dita. Quindi non solo la sostanza della carità, ma abbiamo da usare anche il modo. Carità paziente, non soltanto facendoci sopportare, ma pazienti noi a sopportare. Non pretendere che tutti ci sopportino, siano buoni, gentili, premurosi, ma farlo noi stessi. Non facendo portare la pazienza, ma vivere noi in pazienza.
«La carità è benefica», cerca di fare del bene prima all’anima. Questa non è una casa di cura comune. Il primo frutto è il ristoro spirituale e il guarire da certe malattie spirituali, in un maggior raccoglimento dove non si è preoccupati da altre cose, per esempio dall’apostolato. Non è una clinica comune, è la clinica Regina Apostolorum14. Quindi la preghiera alla Regina Apostolorum e poi, oltre alla cura, cioè oltre a essere benefica quanto lo spirito, è benefica quanto alla salute e al corpo. Sarebbe ben raro avere in una casa comune, per esempio, tutta l’assistenza spirituale e la preparazione alla morte, così delicata, così premurosa come è qui, anche quando la malattia è fatale. E tuttavia in primo luogo, quando si può, si cura la salute. Quante persone vengono recuperate al cento per cento o al novanta per cento e ritornano nell’apostolato e nelle loro attività ordinarie! Benedire il Signore.
«La carità non è invidiosa». Si dice, almeno si diceva, questo proverbio: Se l’invidia fosse pane ne avrebbero tutti e d’avanzo. Vuol dire che l’invidia è un difetto molto comune. È incominciato quando il Signore ha dimostrato di gradire i doni di Abele e non ha gradito i doni di Caino. Non ha mostrato di gradirli, perché il cuore suo non era retto.
«Non è insolente la carità». L’insolenza capiamo bene che cos’è.
«Non si gonfia». Vedere solamente ciò che noi abbiamo di bene e non vedere gli altri, ci porta a un gonfiore che qualche volta fa scoppiare. Scoppiamo dalla superbia.
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«Non è ambiziosa la carità»: non cerca il proprio vantaggio, non ambisce soltanto il proprio vantaggio, non è egoista, ma ama. Non cerca tutto per sé, ma fa parte agli altri dei beni ed è premurosa di comunicare questi beni. «Non cerca il proprio interesse» che è sempre egoismo, cioè il grande nemico della carità.
«Non si irrita», perché, ad esempio, le hanno mancato di rispetto. Non pensa male, non fa giudizi temerari e sospetti temerari.
«Non gode dell’ingiustizia». Quella lì ha sbagliato, sono quasi contenta, perché così ha un rimprovero ed è umiliata. Quasi che gli sbagli degli altri esaltassero i nostri meriti. E no! Se siamo poveri peccatori, non crediamo di essere giustificati, perché anche gli altri sono tali.
«La carità si rallegra della verità» non della bugia e dell’ipocrisia, no. L’ipocrisia e la bugia conducono al male, disorientano le comunità.
«La carità tutto scusa»: prende sempre il torto per sé, trova ancora sempre il modo di accusare se stessa. La persona caritatevole scusa le altre. «Tutto crede», perché è semplice e crede a Dio. E «tutto spera», perché quando si ama, l’amore produce subito un gran bene. L’amore merita che noi siamo perdonati dai nostri peccati, e se c’è grande amore, se c’è veramente tanta carità verso gli altri, siamo anche perdonati dalla pena temporale. E quando un’infermiera fa bene il suo ufficio non andrà a fare il purgatorio.
«E tutto sopporta», sopporta anche qualche parola pungente; sopporta anche qualche piccola mancanza di riguardo, che tante volte sono mancanze inavvertite. E quindi la carità è il gran dono da chiedersi al Signore in questa settimana.
Casa della carità, dove dobbiamo chiedere la carità verso Dio e verso le persone. E settimana della carità verso Dio e verso il prossimo. Riparare oggi, domani le offese più gravi che si fanno a Dio nel carnevale, le offese forse più numerose, sebbene le offese più numerose sono sempre quelle delle cattive edizioni. Riparare: questo è amore di Dio. Consolare il Padre celeste per i figli che gli sono ingrati. Riparare per le dimenticanze fatte a Gesù. Quanti lo dimenticano! Egli è in
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mezzo agli uomini qui nel tabernacolo, e lo dimenticano tanto. Questo è amore di Dio, questa è riparazione!
E poi se noi abbiamo da prenderci una penitenza per la Quaresima, da mercoledì, giorno delle Ceneri, la prima penitenza sia la carità. Usare una carità squisita. Quale carità? Quella del Maestro divino, Gesù Cristo: «Non son venuto a farmi servire, ma son venuto a servire»15. La intendessimo sempre questa grande dottrina: servire come Maria quando è andata presso Elisabetta e Zaccaria16. Servì in quella casa, come umile ancella. Ecco il grande modello delle infermiere: Maria che serve in casa di Elisabetta e Zaccaria in quel momento, in quei tre mesi in cui in quella casa vi erano dei bisogni particolari. Carità! Chi ha la carità non può andare all’inferno e chi ha molta carità non può andare in purgatorio.
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1 Meditazione tenuta ad Albano il 17 febbraio 1958. Trascrizione da nastro: A6/an 43a - ac 74a. La riflessione risente della teologia del tempo.
2 Cf Gv 14,6.
3 La credenza del limbo non è mai stata considerata a livello di verità di fede, è un’ipotesi teologica, come risulta da un pronunciamento della Congregazione per la dottrina della fede nel 2007 e firmata da papa Benedetto XVI. Infatti l’attuale Catechismo della Chiesa cattolica prevede che i bambini morti senza Battesimo siano affidati «alla misericordia di Dio [...] che vuole salvi tutti gli uomini» (cf n. 1261).

4 Dal Prefazio della Messa.
5 Cf Gv 3,5: «Da acqua e Spirito Santo».
6 Cf Gv 10,10: «…perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

7 Cf 1Cor 13,1-13.

8 Cf 2Cor 12,10: «Quando sono debole, è allora che sono forte».
9 Cf Mt 25,40.

10 Cf Mt 22,37-38.
11 Cf Mt 25,34.
12 C’è stato un tempo in cui nei vari ambienti delle case erano affissi i cartelli recanti i “caratteri della carità” (Cf 1Cor 13,4-7).
13 Cf Gal 6,2.

14 La Casa di cura “Regina Apostolorum” fu iniziata nel 1947 e inaugurata ufficialmente il 2 settembre 1948. Nel 1950 fu in grado di ospitare, oltre le Figlie di San Paolo con malattie infettive, anche alcune monache di clausura che negli ospedali comuni avrebbero avuto minore assistenza soprattutto spirituale. Cf C. A. Martini, Le Figlie di San Paolo - Note per una storia 1915-1984, Figlie di San Paolo, Casa generalizia, Roma 1994, p. 253.

15 Cf Mt 20,28.
16 Cf Lc 1,39-56.