Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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6. CARITÀ VERSO IL PROSSIMO1

Questa mattina abbiamo letto nel Breviario, quelle bellissime parole di S. Giovanni: «Deus caritas est: Dio è carità, et qui manet in caritate in Deo manet et Deus in eo»2. Che significa? Che chi vive nella carità è in Dio, perché Dio è la carità e Dio è in lui.
Il regno della carità è il regno di Dio, quindi dove si pratica la carità c’è Dio, perché non solamente chi vive nella carità vive in Dio, ma le comunità che vivono la carità vivono in Dio e Dio è in mezzo a loro. Egli stabilisce il suo regno d’amore, regno di benedizioni, regno di grazie, di pace, regno di santità, regno di unione intima, regno della virtù. «Caritas operit multitudinem peccatorum»3, quando vi fosse anche una quantità di peccati, di debiti con Dio, se si ha la carità sono tutti pagati e quando si ha la carità tutto è pagato. Oh, fermiamoci sopra questo punto! La carità che è conseguenza di quello che abbiamo meditato l’altro giorno: vita comune, che vuol dire la carità portata al suo più alto grado su questa terra. Si potrebbe fare questo: servire i poveri, dare loro pranzo (si fa tante volte e magari va qualche persona d’autorità a servire), distribuire alle porte del convento pane e minestra, attendere agli orfani, agli ammalati: sono tutte opere di carità. Quando però si abbraccia la vita religiosa, si abbraccia la vita di comunità che è la carità portata al più alto grado, perché si accetta non solamente di dare una scodella di minestra alla porta, ma di vivere tutto il giorno, tutta la notte, una settimana, un’altra, anni ed anni con quelle persone che compongono la comunità. Sì, la carità consegue la sua perfezione quando c’è la vita comune, come quando c’è l’obbedienza religiosa, l’obbedienza consegue la sua perfezione, e quando
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c’è la vita religiosa la castità consegue la sua perfezione, e così la povertà. Quando c’è la vita comune [la carità] consegue la sua perfezione. È sempre da meditarsi questo.
Noi uomini andiamo ad incontrare due giudizi, il giudizio particolare subito dopo la morte. Allora saremo soli con Dio solo e a lui renderemo conto di tutta la nostra vita. Cose che si fanno in un istante, ma noi dobbiamo sempre meditarle in particolare perché dobbiamo averne cognizione. Il giudizio avviene con una luce che il Signore diffonde nell’anima e l’anima vede da una parte tutto quel che ha ricevuto di grazia e come doveva corrispondervi, e dall’altra parte vede come nella sua vita ha corrisposto. Da una parte quindi vede la bontà di Dio a suo riguardo e dall’altra vede la sua corrispondenza. L’anima da sola con Dio solo, Gesù solo. Vi è poi un altro giudizio ed è il giudizio universale dove veniamo messi a contatto, a confronto con tutti. Compariremo là con tutti gli altri e compariremo coi superiori e dovremo vedere come abbiamo ascoltato.
L’obbedienza è un dovere sociale ed è dovere di carità nella vita religiosa. Vedremo se i superiori ci hanno diretto bene, vedremo se noi abbiamo trattato bene, se abbiamo compiuto bene specialmente il nostro apostolato che è l’esercizio della carità più larga. Vedremo come hanno corrisposto e come non hanno corrisposto quelli a cui abbiamo fatto la carità della verità. Vedremo da una parte se nel fare il nostro apostolato abbiamo applicato la mente, il cuore, le forze, se l’abbiamo fatto proprio con amore e in amore. Che brutta cosa fare continuamente le opere di carità senza carità! Può avvenire anche questo.
Nel giudizio universale non saremo più giudicati sopra i doveri individuali. La sorte è già fissata, ma saremo giudicati riguardo ai doveri sociali perché l’uomo non è destinato a vivere in deserto ma ha naturale tendenza alla convivenza, cioè al vivere sociale. Gli uomini hanno la tendenza ad aggregarsi in società, infatti il Signore ha cominciato a fare la prima società che è la società coniugale: Adamo ed Eva. Comparendo poi i figli, la società familiare; dopo si è formata la società religiosa, la società civile, la società internazionale che non è ancora ben organizzata e perciò la convivenza sociale è molto spesso turbata. L’uomo è naturalmente socievole.
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Allora noi ci presenteremo là, e renderemo conto dei doveri sociali che per noi si riducono ad uno: carità, carità, carità! Ad una grande carità, però in primo luogo da esercitarsi coi vicini, perché la carità deve essere ordinata, e poi è da esercitarsi con i lontani, secondo la distanza che vi è da noi agli altri a cui dobbiamo carità. Questo è il motivo principale del giudizio universale: i nostri doveri sociali rispetto agli altri, poiché risorgeremo già prima del giudizio universale con le doti del corpo glorioso se salvi, o con i sigilli del corpo ignominioso, del corpo che risorge per bruciare eternamente, se fossimo perduti. Quindi in quanto era peccato è già giudicato anche il peccato sociale, ma ora si compare là per essere messi a confronto fra il confessore e il penitente; il superiore e l’inferiore, l’inferiore e il superiore; sorella a sorella, fratello a fratello, lettore a scrittore, spettatore a chi dà lo spettacolo, e così il predicatore con gli uditori, la maestra con le sue alunne di scuola; poi tutto quello che nella giornata facciamo verso le persone che stanno sopra o verso le persone che stanno accanto o verso le persone che stanno sotto. Tutto! Nostro Signore infatti ha detto quale criterio lo guiderà, quale criterio eserciterà nel dare la sentenza: «Io avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, ero infermo e mi avete visitato, consolato, soccorso, ero in carcere e siete venuti a me, ecc. Ma quando, o Gesù, ti abbiamo fatto questo? Ti abbiamo veduto affamato, assetato, in carcere, infermo, ignudo? Quando è che ti abbiam veduto così e ti abbiamo soccorso? Ogni volta che l’avete fatto a un mio fratello fosse pure il minimo, l’avete fatto per me, lo ritengo come fatto a me». Il povero, il fratello infelice ci rappresenta Gesù. Quindi: «Venite, o benedetti, nel regno del Padre mio». Dunque la ragione per cui Gesù ci invita al premio è questa: la pratica della carità. «Poi si rivolgerà ai perduti e dirà: Allontanatevi da me, poiché avevo fame e non mi avete dato da mangiare, avevo sete e non mi avete dato da bere». Ecco lì il ricco Epulone rispetto a Lazzaro4: «Ero ignudo e non mi avete coperto, ero in carcere e non mi avete visitato, ecc… Ma quando, Gesù, ti abbiamo veduto ignudo, affamato,
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assetato, carcerato, ecc… e non ti abbiamo soccorso, quando? Quando l’avete negato al mio fratello fosse pure l’ultimo, lo avete negato a me. Allontanatevi dunque»5.
Vi siete allontanati dal prossimo e non potete essere vicini a me, perché chi rimane nella carità è in Dio, ma chi non pratica la carità ha un bel pregare, riceve poco, ha un bel sforzarsi di farsi buona, ma non riesce. Noi riusciamo quando compatiamo più facilmente, riusciamo a farci buoni quando siamo buoni con tutti. Il nostro apostolato porta frutti, veri frutti, se siamo buoni. Si dirà: Io scrivo bene, io pitturo bene, so fare le cose che devo fare rispetto agli altri e magari tutti i servizi, tutto quello che è il mio dovere rispetto alle sorelle, ecc… Si dirà questo, sì, ma crediamo che i frutti siano lì? In una pagina ben scritta, in una pittura ben fatta, in una minestra ben cotta, in una pulizia fatta con diligenza? Le anime! Se noi siamo buoni le anime ricevono la bontà, ricevono la parola e ancorché noi non dicessimo neppure una parola, non scrivessimo neppure una riga e fossimo chiusi a fare un lavoro fra i cavoli o tra le pareti di una cucina, questa nostra carità fatta di bontà, di buona interpretazione, di pensieri benevoli, di parole buone, ottiene la grazia e il nostro lavoro va a fare del bene a delle anime lontane, magari in Cina, in Giappone o in Australia o in Indonesia.
Nel giorno del giudizio si rivelerà chi fece più carità nella sua vita, chi ottenne più frutto certo, e quindi ognuno che ebbe carità sarà glorificato. Sì! Ecco, questa carità continua è più dura, perché non ci vuol niente a mostrarsi graziosi, gentili con una persona esterna con cui trattiamo pochi minuti oppure con un benefattore, perché si vogliono ottenere favori. Lì è una carità molto pelosa, cioè quella gentilezza è egoismo, ecc., che conta poco davanti a Dio se non è ancora un debito con Dio. Quel che importa, che è vera prova della carità, è la bontà in casa, la bontà con le persone con cui si convive, perché è più meritoria, richiede sacrificio continuo e impegna tutto l’essere. Carità quindi nei pensieri, nelle parole, nei sentimenti, nelle azioni. Perché noi potremmo anche scrivere di carità, potremmo anche parlare di
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carità con enfasi, dire tante cose che sono anche sublimi, portare le ragioni più profonde, dire che la carità fa simili a Gesù, dire che la carità è paziente, è benigna, con tutte le qualità che S. Paolo descrive rispetto alla carità6 e non praticarla.
Potremmo anche esigere che gli altri siano buoni con noi e noi non esserlo con gli altri. Alle volte potremmo avere una certa bontà esteriore, ma nell’animo avere pensieri storti, giudizi non favorevoli, essere gente che non sa comprendere e non compatisce, potremmo avere nel cuore sentimenti d’invidia, di gelosia, egoismo vivo e vivere di egoismo. Veramente se spicca il nostro io, se ci stimano, se ci trattano con particolare riguardo, potremmo vivere di egoismo e cercare di ridurre tutti a trattarci con quella benevolenza. E quando non ci trattassero così, ecco li escludiamo dal nostro libro. Videtur esse caritas et est magis carnalitas. Sembra che ci sia carità e invece c’è carnalità7, cioè, in altre parole, c’è egoismo.
La bontà deve essere poi oltre che nella mente e nel cuore, dev’essere sulle labbra, nel parlare, dev’essere nelle azioni, nelle opere. Come è possibile vivere in Congregazione e non volersi bene! Eppure spesso può avvenire questo: si trovano e si rilevano i difetti negli altri e, nelle ricreazioni, alle volte, nei discorsi, chi ne fa la spesa sono le sorelle o ancor più le superiore. Amare chi ci ama di per sé non è carità. Certo, possiamo indirizzarla con retta intenzione a Dio e dobbiamo anche amare chi ci ama, ma se amiamo solo perché ci amano, in che cosa siamo meglio dei pagani? Anche i pagani amano quando hanno interesse, amano quando quel loro amore porta un vantaggio, se non altro una compiacenza, una soddisfazione dell’io. Ecco allora le simpatie, le antipatie. Come si può allora fare la Comunione in pace? Gesù è messo dentro ma non comunica col cuore, il cuore resta chiuso perché è chiuso col fratello e perciò resta chiuso con Dio. E allora la Comunione non porta frutto. Gesù è accanto ma non si comunica, come non si comunicano due vasi d’acqua messi uno vicino all’altro. Noi non siamo mai così dannosi verso noi stessi come quando
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diamo cattivo esempio o abbiamo sentimenti di avversione, quasi di vendetta. Noi facciamo il danno proprio a noi stessi. Pensiamo invece quando nel giudizio tutto sarà rivelato, i sentimenti nutriti nel cuore saranno pubblicati, i pensieri mantenuti nella mente saranno manifestati proprio a quelle persone a cui abbiamo nascosto cose, cui abbiamo nascosto i pensieri e i sentimenti. Pazienza!
La mancanza di carità esterna è minor male, diciamo così, perché si manifesta con qualche azione. Ma quando le mancanze di carità stanno nei pensieri e nei sentimenti, e ci stanno a lungo, quale danno ci facciamo! Come rendiamo la nostra vita amara, arida, lavorando tutto il giorno insoddisfatte. Ma il peggio è che saremo insoddisfatte davanti al tribunale di Dio, poiché non avremo raccolto i meriti che potevamo o credevamo di poter fare. Quando il cuore ha un po’ di astio, ecc., influisce sulla mente, e quella persona per cui non si ha simpatia la si giudica male, si vede male e s’interpretano in cattivo senso le sue azioni e se non ci sono i difetti si creano e alle volte si arriva persino a criticare la bontà che ha usata a noi: Ah, vuol attirarsi l’amicizia! Abbiamo proprio da fare un esame lungo, largo sulla carità e su questa dobbiamo fare un programma di vita. Perché dico questo? Perché noi come religiosi ci disfacciamo se non abbiamo carità. Sarebbe meno male se fossimo stati nel mondo e magari per avere i meriti dell’obbedienza, povertà, castità fossimo vissuti da soli8. Anche in una predica del M. Giaccardo9 c’è scritto e abbastanza lungamente spiegato, come la grazia della vita comune non è tanto comune10; in secondo luogo è facile perderla ed essendo facile perderla, ecco che si rimane solo con l’obbligo della vita comune. Infatti i cuori sono lontani, non sono vicini. Congregavit nos amor unus: Ci ha raccolti l’amore, la carità a vivere insieme, e se in principio c’è stata: Deo gratias! Se adesso non permane questa carità noi non siamo
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religiosi, non viviamo da religiosi. Allora occorre esaminarci sui pensieri, sui sentimenti, sulle parole, sulle opere.
«Omnia in caritate fiant: Tutte le cose siano fatte in carità»11, e non solo per amor di Dio ma anche per amore delle anime. Oh! La giornata è piena di cose di carità: se uno zappa ogni zappata è perché venga un cavolo o una carota che serva alla comunità. Son tutti atti di carità, e se una scrive una parola fa un atto di carità e se una prepara bene la verdura per metterla in pentola, per fare una minestra buona, conveniente, ecco, fa un atto di carità. La giornata è tutta piena di queste occasioni, ma occorre che facciamo la carità con carità.
Adesso pensiamo alla sentenza finale del giudizio con cui sarà chiusa la nostra storia umana e ciascuno entrerà «in domum aeternitatis suae: nella casa della sua eternità»12. Domandiamo molto perdono al Cuore di Gesù, del Maestro divino se non sempre c’è stata la carità, se abbiamo lasciato regnare l’egoismo, lo spirito di vendetta, il rancore. Se stai per offrire il tuo dono all’altare, qui noi dobbiamo dire fare la Comunione, ascoltare la santa Messa; se offri il tuo dono a Dio e lì ti ricordi che c’è qualcosa con il tuo fratello, ha ricevuto un dispiacere da te, i cuori non sono più in perfetta unione, e quindi non sei in buona armonia con il tuo fratello: «Vade prius reconciliari fratri tuo»13. Vedete, Dio non vuole che diamo il dono prima a lui, ma prima al fratello. Non vuole che facciamo l’atto di amore prima a lui, ma al fratello, alla sorella; «…poi, vieni». Dopo che avrai esercitato la carità verso di lui, farai il dono a me, il dono di amore, l’offerta che è il dono d’amore. È importante questo: e se noi facciamo l’offerta, se noi sentiamo le Messe, se facciamo le Comunioni, se noi domandiamo molte grazie, cantiamo belle lodi a Dio, ma il Signore vedesse il cuore così indisposto verso il fratello o la sorella, non gradirebbe. Taci, compi il dovere con tuo fratello e tua sorella, poi vieni a cantare le belle lodi alla mia gloria.
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1 Istruzione tenuta a Grottaferrata, il [14 gennaio] 1956 durante gli Esercizi spirituali. Dattiloscritto, carta vergata, fogli 8 (22x28). Non è indicata la data. Dal Diario curato da don Speciale si può dedurre che fu tenuta con probabilità il 14 gennaio. A mano è aggiunto “4 - Esercizi Grottaferrata”. Trascrizione da registrazione, ma il nastro non è stato conservato.

2 Cf 1Gv 4,16: «Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio in lui».

3 Cf 1Pt 4,8: «La carità copre una moltitudine di peccati».

4 Cf Lc 16,19-31.

5 Cf Mt 25,34-46.

6 Cf 1Cor 13,1-13.

7 Cf Imitazione di Cristo, I, XV, 2.

8 Probabilmente allude a chi fa parte di un istituto secolare, di cui ha parlato nella meditazione precedente.

9 Beato Timoteo Giuseppe Giaccardo (1896-1948), primo sacerdote paolino. Beatificato il 22 ottobre 1989.

10 Cf Lamera S., Lo spirito di don Giaccardo, Edizioni Paoline, Roma 1956, p. 324.

11 Cf 1Cor 16,14.

12 Cf Qo 12,5.

13 Cf Mt 5,24.