18. LA MORTIFICAZIONE4
I. Mortificazione e apostolato
Nella Quaresima noi consideriamo il Maestro divino crocifisso e particolarmente questa devozione la dobbiamo sentire adesso sia per la nostra riconoscenza a Gesù per avere compiuto la redenzione e sia per imparare la mortificazione.
La mortificazione è la vera prova di amore al Signore. La mortificazione è quindi la misura del nostro amore. Quando veramente si ama, si è disposti a fare qualche sacrificio per la persona amata. La mamma è sempre disposta a sopportare qualche cosa per l’affetto e l’amore che porta ai suoi figli.
Domandiamo perciò questa sera e in tutto il ritiro questa grazia: primo, intendere che cosa sia la mortificazione; secondo, scegliere le mortificazioni; terzo, poterle compiere continuamente.
Che cosa significa mortificazione è chiaro dalla stessa parola: vuol dire rendere morte, dare la morte. E a che cosa? Ai desideri che non sono giusti, vuol dire reprimere le passioni quando queste passioni ci spingono fuori della strada che conduce al paradiso. La mortificazione va compresa bene. Si tratta non di torturarsi, ma soprattutto di tre cose: 1) fissarsi bene il fine che si vuole raggiungere; 2) rinunziare, rinnegare quello che ci impedisce di conseguire il fine; 3) abbracciare tutto quello che ci serve per il raggiungimento del fine, anche se costa.
Supponiamo che uno si dedichi agli studi e voglia raggiungere una laurea o raggiungere un certo grado di scienza per abilitarsi ad una certa missione o ad un certo ufficio.
Fissatosi il fine, che cosa si deve fare? Si ha da impegnare tutta la mente, tutte le forze nello studio anche se costa fatica.
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Quindi l’abneget, il rinnegarsi. Secondo: si ha da allontanare tutti i pericoli, tutte le altre occupazioni che alle volte piacerebbero anche di più, ad esempio, invece di studiare una pagina di filosofia piacerebbe di più leggere una rivista o un romanzo. Ecco allora: applicazione a quello che ci conduce al fine e nello stesso tempo allontanare quello che ci impedisce di raggiungere il fine. Questo [vale per] lo studio, ma si può dire ugualmente dell’apostolato. Se ci proponiamo di compiere bene il nostro apostolato occorre che facciamo due cose. Primo, impegnare le nostre forze nella redazione, nella tecnica e nella propaganda; secondo, allontanare ciò che è inutile, ciò che ci impedisce, ciò che ci divaga, ciò che in sostanza non serve al fine. Ecco che Gesù ci è modello: «Proposito sibi gaudio»5. Gesù, essendo venuto per la redenzione del mondo, che cosa fece? Egli fu il Maestro ed insegnò con i suoi esempi la via del cielo, perché noi potessimo raggiungerla ed insegnò la verità che dobbiamo credere e in terzo luogo offrì la sua vita, immolò se stesso per la nostra salvezza. Di conseguenza il fine: redimere l’umanità e raggiungere la gloria eterna. Egli siede alla destra del Padre. Per raggiunger la gloria eterna egli compì tutta la volontà del Padre celeste e ordinò tutti i momenti della sua giornata terrena al paradiso e alla nostra redenzione. Se noi ci fissiamo bene in mente: vogliamo andare in paradiso, vogliamo raggiungere l’ultimo fine, è necessario che vediamo due conseguenze: allontanare cioè quello che ci impedisce il raggiungimento del paradiso e abbracciare tutto quello che ci aiuta a raggiungerlo.
Non ci mortifichiamo per mortificarci, per tormentarci, ma ci mortifichiamo in ordine a un dovere, in ordine ad una missione, in ordine alla salvezza, in ordine all’apostolato, in ordine alla santificazione. Quindi il primo elemento che entra in questa mortificazione è la determinazione del fine che vogliamo raggiungere. Scegliere il fine con intelligenza, con amore, con desiderio della felicità eterna. L’uomo naturalmente è destinato ed inclinato alla felicità. Ora, se l’uomo è destinato ed
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inclinato e cerca la felicità, non deve discutere sul mezzo, deve prendere la via che sicuramente ve lo conduce. Quindi se l’uomo ha davanti a sé due strade, una che è più comoda, piana, magari invitante, e tuttavia non mette capo al cielo, ma alla perdizione eterna deve aborrirla ed evitarla ad ogni costo. E se dall’altra parte vede una strada la quale è seminata di spine e magari ha molte difficoltà, ma mette capo al paradiso, la segua con coraggio. Fissare bene il fine: questo è il primo punto.
Occorre entrare in noi stessi e interrogarci: Perché Dio ci ha creati? Mi ha creato per il paradiso. Che cosa domandi alla Chiesa di Dio? - chiede il sacerdote al bambino che gli viene presentato per il Battesimo - Domando la fede. E perché? Che cosa ti giova la fede? Fides quid tibi praestat? Vitam aeternam. Si entra nella Chiesa, si accettano i comandamenti di Dio e della Chiesa stessa, si accetta tutto quello che la Chiesa insegna per un fine determinato: vitam aeternam. Determinare bene il fine: Ad quid venisti? Perché sei entrato nel mondo? Perché sei creato? Perché sei entrato nella Chiesa? Perché sei entrato nella vita religiosa? Perché hai abbracciato in particolare fra gli istituti religiosi questo della Famiglia Paolina? Perché si aveva in mente un fine, il paradiso, un paradiso più sicuro, un paradiso più bello, un paradiso con doppio premio, cioè di doppio splendore perché si sarà fatto bene e insegnato bene. E allora che cosa segue? Segue prima di tutto di evitare ciò che ci impedisce di raggiungere il fine: Questo mi giova? Questo non mi giova? E quindi lo evito. Abbiamo delle cose che ci aiutano a conseguire il fine e delle cose che ce lo impediscono. Per conseguire il nostro fine, la santificazione nella nostra vocazione, evitare tutto quello che è male, tutto quello che è peccato o che ci può portare al peccato. Raccogliere quindi per questo i nostri pensieri e i nostri sentimenti. Raccogliere le nostre parole e le nostre azioni: Giova questo al fine o mi impedisce il conseguimento di esso?
Venendo poi al particolare abbiamo da considerare il peccato come maggiore impedimento al fine, quello che davvero fa perdere la strada giusta. Il peccato è il camminare in una via opposta a Dio. La felicità è in Dio, il peccato ci distacca da Dio e allora è chiaro che impedisce il conseguimento del fine.
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Il peccato può esser di pensiero, di sentimento, di parola e di azione. Evitare il peccato di occhi, di udito, di fantasie acconsentite, di desideri disordinati. Evitare il peccato di lingua, di azione, di opere. Evitare la disobbedienza, evitare le mancanze di carità, evitare l’orgoglio, la pigrizia, evitare la sensualità, la golosità, evitare insomma tutto quello che potrebbe farci camminare in opposizione al fine. Dio è in cielo e questi peccati ci farebbero prendere la strada che conduce all’eterna dannazione. Si potrà dire che questi non sono peccati gravi e quindi non tutti i peccati portano all’eterna dannazione. Certissimo. I peccati veniali non conducono direttamente all’eterna dannazione, ma impediscono il cammino sollecito, impediscono di arrivare a quel grado di felicità cui l’anima è destinata, impediscono quell’abbandonarsi in Dio, quell’abbondanza di grazie e di aiuti spirituali per cui l’anima potrebbe santificarsi di più. Quei peccati contro la carità, l’obbedienza, quei peccati piccoli, come diciamo noi, per distinguerli dai più gravi, non impediscono il raggiungimento del fine, ma lo ritardano. Se invece di queste venialità noi avessimo il fervore, la diligenza, non arriveremmo ad un grado maggiore di gloria eterna? Certamente. I santi come erano solleciti per occupare bene il tempo, come erano attenti nella preghiera a conservare e praticare quel raccoglimento che è necessario per entrare nell’intimità con Gesù, come erano devoti di Maria!
Evitare ogni colpa, mai pace con il peccato. Per questo occorrono molte mortificazioni. Occorre mortificare la mente: che non pensi certe cose, perché non si inclini verso certe cose. Tenere a freno la lingua e moderare i nostri sentimenti interiori. Occorre che ci mortifichiamo molte volte al giorno se vogliamo conseguire il fine e conseguirlo bello. Nessuno di noi sa dire con precisione a quale gloria ci chiama il Signore. Il Signore ha i suoi disegni sapientissimi, disegni di amore e ha dato a noi certi aiuti e certe grazie perché noi possiamo raggiungere il grado di gloria a cui egli ci eleva. Le venialità abbassano, le negligenze abbassano.
Oltre a questo può essere che l’abitudine alle venialità porti dei frutti molto tristi, poiché è tanto facile che chi disprezza le cose piccole arrivi poi a cose grandi. E allora non solamente
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si rallenta il cammino, ma non si raggiunge quel grado di gloria a cui Dio ci aveva destinato. Quando saremo giudicati il Signore avrà solamente da constatare in quale stato ci siamo messi. Non è che egli possa inventare i meriti, se non ci sono, o i peccati. Il Signore constata solamente in che stato ci siamo messi noi.
In secondo luogo, per arrivare all’eterna beatitudine occorre che facciamo molte cose che costano sacrificio, queste sono le mortificazioni. Occorre che noi amiamo la preghiera, amiamo l’unione con Dio anche nella giornata, amiamo l’uso delle giaculatorie, oltre le pratiche che sono prescritte nell’orario, nelle Costituzioni: la meditazione, l’esame di coscienza, la Visita. Ma quante volte queste pratiche di pietà costano sacrificio, almeno finché non siamo abituati a sentire quasi un certo gusto e farle più volentieri che altre cose, che prendere altre occupazioni.
Occorre poi che noi compiamo il nostro dovere quotidiano, compiamo cioè quell’ufficio che ci è stato destinato e lo facciamo con buon animo mettendoci tutto il cuore, l’applicazione della mente e spendendovi tutte le forze. E forse non costa la preghiera e l’adempimento di quei doveri? Certamente che costa sia l’una che l’altra cosa. Si tratta allora di esercitare la fede, la speranza, la carità. Oh, quante volte queste virtù costano! Come è difficile alle volte l’esercizio pratico di queste virtù! Noi sappiamo bene che l’umiltà non si acquista con dei desideri, ma con delle umiliazioni e le umiliazioni sono sempre contrarie al nostro amor proprio. Noi sappiamo che la carità non si acquista con un desiderio o con un proposito, ma si acquista esercitando la pazienza, praticando la benignità, frenando il nostro egoismo.
Allora o che noi vogliamo adattarci alla mortificazione o che rinunziamo alla santità. Siamo schietti, sinceri con noi medesimi qualunque siano le nostre disposizioni interne. Vogliamo noi umiliarci davvero, vogliamo praticare la bontà, la carità, vogliamo il merito dell’obbedienza, il merito della pazienza, vogliamo o non vogliamo questi meriti? In paradiso la corona dei giusti e la corona di Gesù Cristo è intessuta di croci. L’abneget semetipsum è legge generale: Rinnega te stesso se
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vuoi andare appresso a Gesù. «Qui vult post me venire abneget semetipsum, tollat crucem suam et sequatur me»6. Confessiamo dunque a noi stessi, se siamo coraggiosi, se vogliamo abbracciare la croce e cioè la mortificazione quotidiana. L’osservanza dello stesso orario quante volte importa per noi un rinnegamento!
Occorre poi considerare che per raggiungere l’eterna felicità noi abbiamo scelto anche l’apostolato. E l’apostolato quante fatiche e sacrifici richiede! Vi sono i sacrifici delle propagandiste, vi sono i sacrifici della redazione e i sacrifici della tecnica. Vi sono sacrifici che ci impegnano dal mattino alla sera. Ecco: l’apostolato nostro è simile all’apostolato di Gesù il quale andava predicando di borgo in borgo, di paese in paese il santo Vangelo, e quante contraddizioni durante la sua predicazione! E perché era venuto sulla terra a rendere testimonianza alla verità, ecco la condanna alla croce. Le croci nasceranno dal nostro apostolato. Il nostro apostolato è un tormento in quanto richiede spese particolari, richiede che noi abbiamo da trovarci spesso a contatto con il mondo o leggendo o parlando o trattando, e tuttavia non dobbiamo lordarci i piedi di fango. Veramente si può dire quello che è nell’Imitazione di Cristo: Tutta la vita di Gesù Cristo fu croce e martirio7, e nel nostro apostolato vi è la croce ed anche il martirio, e si consumano le forze. E quante volte vedendo queste suore in poca salute, si pensa ai sacrifici che hanno compiuto e ai meriti che si sono accumulati sulla porta dell’eternità.
In conclusione: la mortificazione non è un tormentarsi. La mortificazione è necessaria, perché in primo luogo ci conduce al fine determinato, non solamente alla salvezza, ma anche alla santificazione e all’apostolato. Dobbiamo dunque rinnegarci in tante cose. Ecco la mortificazione: astenerci e sostenerci8, rinnegarci e spenderci. La mortificazione quindi deve essere continua sia per non fare peccati e sia per assicurarci il paradiso.
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Volgiamoci al Crocifisso in questi giorni per avere grazia. Parlare di mortificazione è sempre un poco spiacevole, e sia per il predicatore che per gli uditori, ci vuole molta grazia per capire. Ma è legge generale: chi vuole farsi santo e specialmente chi vuole compiere dell’apostolato deve sottomettersi a questa legge.
Guardiamo Gesù crocifisso e seguiamo Gesù crocifisso.
II. Mortificazione: la carità e la vita comune
La mortificazione è tanto più necessaria e più continua quanto più si tende alla santità, quanto maggiore santità si vuole conseguire. Allora abbiamo da indicare questa sera tre mortificazioni che sono necessarie per noi. La prima è il compimento dei nostri doveri quotidiani. La seconda è la pratica della carità fraterna. La terza è la mortificazione interna cioè della mente e del cuore.
I. Il compimento dei nostri doveri quotidiani. I doveri quotidiani sono di volontà di Dio. Ciascuno di noi ha i suoi uffici da compiere. Uno ha la pratica di questo proposito particolare, un altro ha un altro proposito. C’è chi è impegnato nello studio, ad esempio, e chi è impegnato nell’apostolato tecnico, nella propaganda, chi ha uffici che riguardano il servizio domestico, il servizio familiare in casa. Ciascuno ha la sua parte di dovere. Tutti abbiamo da lavorare, nessuno è dispensato, poiché tutti hanno il dovere naturale di mangiare il pane con il sudore della propria fronte. Chi non capisce questo dovere che è secondo natura non può essere certamente religioso, perché non è neppure un cristiano e neppure un uomo retto.
Il dovere quotidiano è la volontà di Dio. Di questo dovere parte viene direttamente da Dio, ad esempio la preghiera, e parte viene per disposizione di chi guida e di chi assegna gli uffici e i doveri quotidiani secondo il divino volere, interpretando, per quanto è possibile a noi poveri uomini, il volere di Dio. Si comprende poi che il dovere quotidiano è segnato nelle Costituzioni, è segnato nella professione religiosa: l’osservanza della povertà, della castità, dell’obbedienza e della vita comune.
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Il dovere quotidiano poi è segnato dagli orari, per mezzo degli orari sono distribuite le varie azioni nella giornata: dal mattino fino alla sera, e anche alla sera l’offerta del riposo che, come il cibo, viene preso per mantenerci nel servizio di Dio.
Quindi parlando del dovere quotidiano intendiamo la volontà di Dio. Comprendere i nostri doveri, amarli perché piacciono al Signore, compierli religiosamente con cura, con dedizione e applicare tutta la mente e le forze per il Signore. Chi è che può farsi santo? Chi compie la volontà del Signore. E per far questo, alle volte dobbiamo lasciare delle cose che ci piacciono, ad esempio, qualche volta piacerebbe un maggior riposo, invece abbiamo da spenderci e sostenerci. Bellissime sono le parole del Maestro divino: «Meus cibus est ut faciam voluntatem Patris mei: Il mio cibo è fare la volontà del Padre mio»9. Parole che fanno eco all’altra sentenza: «Quae placita sunt ei facio semper: Faccio sempre quello che piace al Padre mio»10. Che espressioni forti! Il mio cibo è la volontà di Dio: ciò significa che Gesù si nutriva della volontà del Padre. Non abbiamo soltanto da dare da mangiare al corpo, ma anche da sfamare lo spirito, procurare il cibo allo spirito. Chi si nutre bene e può assimilare bene quello di cui si nutre, è robusto. E di spirito chi è robusto? Chi si nutre bene della volontà di Dio. Fuori della volontà di Dio non c’è santità, nella volontà di Dio c’è ogni santità. «Quae placita sunt ei facio semper». E allora nell’accettare gli uffici io devo dire: Lo faccio volentieri perché piace al Signore. Nell’accettare certi doveri e certe destinazioni: Faccio volentieri perché piace al Signore. Vediamo un poco se qualche volta non ci domina il capriccio, la volontà nostra, se non usiamo delle astuzie per fare inclinare la volontà dei superiori secondo che piace a noi, se vi sono false interpretazioni? Quando la religiosa è fervente, fa quello che è disposto con semplicità. Quando la religiosa non è fervente, cerca sempre di conciliare il volere di Dio con il suo e ama molto di più le cose particolari che piacciono a lei che non le cose comuni, cioè le cose che sono disposte dall’obbedienza.
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Dobbiamo cercare bene in fondo al nostro cuore se noi abbracciamo volentieri i nostri doveri quotidiani, oppure se ci dispensiamo con facilità per fare quello che più piace a noi. Allora l’esame si estende dalla levata alla meditazione, alla Messa, alla Comunione, all’apostolato, alla scuola, agli altri impegni della giornata, alla preghiera, alla ricreazione. Chi vuole camminare bene nel volere santo di Dio incontra sempre qualche sofferenza. Qual è il dovere che non costa sacrificio? La vita stessa religiosa è descritta da Gesù come vita di sacrificio e di rinunzia: «Se vuoi esser perfetto, va’, lascia tutto, dallo ai poveri, vieni, seguimi»11. È descritta così la povertà, la castità e l’obbedienza. Non vi sono dei grandi sacrifici, non pensiamo a cilici o a mortificazioni straordinarie. Abbiamo da mettere il cilicio alla volontà, dobbiamo cioè regolarci secondo il volere di Dio dalla mattina alla sera.
II. La pratica della carità. Nella professione [religiosa] si comprende anche che la pratica della vita comune è un grande mezzo di santificazione. La vita comune si compone di pensieri comuni, di desideri comuni pur nella varietà. Occorre che vi sia una unità di forze. La vita comune è una vita sotto l’obbedienza. La vita comune è una convivenza serena con le sorelle. La vita comune significa mettere tutto l’impegno per la santificazione e per l’apostolato. E che cosa è l’apostolato se non l’esercizio della carità? Noi miriamo non soltanto alla santificazione nostra, ma miriamo anche alla salvezza delle anime, alla santificazione delle anime del nostro prossimo. Dobbiamo donarci alla Chiesa. Dobbiamo sentirci membra vive del Corpo mistico ed operanti in questa Chiesa. Questo è un continuo esercizio pratico della carità: Congregavit nos in unum Christi amor.
La carità in primo luogo consiste nell’accettare quello che viene insegnato e detto nell’Istituto per formarci, perché se noi lasciamo vivere il nostro io non siamo nell’Istituto. Vi sono persone che vivono nell’Istituto, ma non sono nell’Istituto. Vivono materialmente nell’Istituto in quanto hanno la stessa tavola e hanno tutti gli aiuti per la loro vita materiale, ma non
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vivono nell’Istituto, perché non consegnano la loro anima, non lasciano guidare l’anima, non accettano tutta la direzione spirituale dell’Istituto, quindi la loro è solo una presenza materiale in esso. È piuttosto uno sfruttamento dell’Istituto e non un apporto di pensieri, di attività, di preghiera e di azione. Persone che hanno il cuore e il pensiero a se stesse. Occorre dunque accettare in spirito di amore e di carità quell’indirizzo, quel complesso di istruzione che viene dato. Troppe volte si crede di fare meglio e invece si lascia quello che è essenziale: l’unione, l’unità. Poiché Congregazione vuol dire adunanza per vivere assieme con i medesimi pensieri e sentimenti e finalità.
In secondo luogo la vita comune è convivenza con le persone. Alle persone che guidano dobbiamo rispetto. Alle persone che sono uguali dobbiamo bontà. Alle persone che sono inferiori dobbiamo il rispetto, l’aiuto, il buon esempio e la preghiera. Quando c’è l’impegno perché le cose riescano bene, allora c’è l’amore alla vita comune e l’impegno di far progredire la Congregazione. Se il libro riesce meglio, se quello che si va facendo nella redazione e nella propaganda dà sempre migliori risultati, se i lavori comuni, la pulizia e tutto quello che costituisce il servizio domestico nella casa, se ciò che deve portare a rendere le funzioni più devote, più solenni, se la stessa cucina e la pulizia, se tutto è fatto con impegno per il progresso della Congregazione, allora vi è l’amore alla vita comune, cioè tutte uniscono le forze per il fine della Congregazione.
Poi vi è la vita comune con le sorelle e cioè la pratica di quelle qualità che S. Paolo attribuisce all’esercizio della carità: la pazienza con tutte le persone che ci circondano e cercare di non fare esercitare la pazienza troppo agli altri; per quanto è possibile non gravare sopra gli altri, anzi aiutare sempre le sorelle. Se un peso è troppo grave per una persona, le altre persone possono mettere la loro mano, portare il loro aiuto e allora il peso diviso si porterà meglio e con discreta facilità. Quando vi è l’aiuto delle consorelle, quando vi è l’aiuto della preghiera, l’aiuto del buon esempio, la pace regna nella Congregazione e si progredisce e ognuna ha più merito e si santifica più facilmente. Quando però nascono le gelosie, i pensieri di orgoglio, e a ognuna sembra sempre troppo grave quello che è
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stato disposto, e interpreta male le cose altrui, allora la vita di comunità diviene difficile, pesante, e quanti meriti se ne vanno! I nostri propositi devono finire nel proposito della carità, perché la vita eterna è carità.
III. La terza mortificazione riguarda l’interno e cioè la mente e il cuore. La mente è la più difficile da guidare, questo è certo perché la volontà non ha sulla mente un dominio diretto. Eppure questa mente dobbiamo mortificarla tante volte, cioè dobbiamo togliere tanti pensieri e metterne tanti altri. Togliere i pensieri di orgoglio, i pensieri di vanità, i pensieri contrari alla carità, i pensieri inutili, le notizie inutili, il ricordare le cose inutili. Togliere, ripulire la nostra mente da tutto quello che è contrario alla fede, alla speranza, alla pazienza, al rispetto vicendevole. Si può mancare molto con la mente anche riguardo alla giustizia, alla prudenza, alla temperanza, alla fortezza, all’umiltà. Vegliare sopra i nostri pensieri. In secondo luogo mettere pensieri buoni. I pensieri buoni sono quelli che riguardano Dio, la meditazione, la lettura spirituale. Quindi raccoglimento nella preghiera, pensando a ciò che si dice. Quindi lo studio, l’esame di coscienza. Pensare a come riuscire meglio nell’apostolato, nella vita religiosa, nel nostro lavoro di santificazione. Ricordare sempre le cose belle, le cose sante, i buoni esempi, le prediche udite, gli avvisi del confessore. Per tutto questo è necessaria una continua vigilanza sulla mente; una continua mortificazione.
Oltre le mortificazioni della mente ci sono quelle del cuore. Il cuore può essere umile e può essere orgoglioso, superbo. Il cuore può essere pieno di vanità, di orgoglio e di ambizione e può essere pieno di desideri, di amore di Dio e di santità. Il cuore può essere pieno di ira e di sentimenti contrari alle persone che ci circondano, e può essere tutto impostato e impastato di carità, di bontà, di buone interpretazioni. Vi sono persone che hanno così buon cuore che fanno tanto bene. Guardare il cuore di Maria: come era? Il cuore può coltivare tutti i sentimenti di amore a Gesù e può avere sentimenti contrari alla purezza. Il cuore può essere distaccato da tutto e può essere invece attaccato a tante piccole cose. Il cuore può essere tutto di Dio e può invece inclinare a simpatie e antipatie.
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Il cuore nostro è difficile da custodire e tuttavia noi, con grande impegno, abbiamo da evitare i sentimenti non buoni e abbiamo da esercitarci sempre più in sentimenti conformi alla giustizia, alla carità e all’apostolato. Vi sono persone che vivono di Dio e persone che vivono dell’io, in fondo in fondo cercano se stesse. Vi sono persone che cercano solo Dio e il suo servizio, cercano l’amore di Dio, la santità: «Quaerite primum regnum Dei»12.
Com’è il nostro cuore? Quell’anima domandava al Signore in che cosa poteva e doveva sacrificarsi. E l’ispirazione ricevuta è stata questa: Semper et in omnibus, mortificati sempre e in ogni cosa13.
Il compiere il nostro dovere quotidiano, l’esercizio della carità fraterna, la mortificazione della mente e del cuore richiede una continua attenzione. Dobbiamo assistere noi stessi, dobbiamo assistere il nostro cuore, assistere la nostra mente, assistere la nostra condotta esterna, governare noi stessi, il che è una cosa molto difficile.
Allora domandiamo a Gesù crocifisso la grazia di sapere evitare il male, mortificarci quando le passioni ci spingono al male e sapere abbracciare il bene con tutto il cuore anche se qualcosa al nostro istinto ripugna.
Avanti dunque con coraggio poiché si percorre una via che è in salita, è la salita del Calvario, ma dietro il Calvario c’è la risurrezione, la gloria celeste. Dove Gesù «proposito sibi gaudio sustinuit crucem: Volendo arrivare al regno beato in cielo portò la croce».
III. Mortificazione dei sensi: apostolato della sofferenza
La sofferenza è un grande apostolato. In ogni istituto c’è bisogno di chi compia anche questo apostolato. E il Signore che è provvido, il Signore che ci tratta con tanta delicatezza, il Signore provvede agli istituti, perché vi siano tutti i mezzi di
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santificazione, non solo, ma anche tutti i mezzi per raggiungere il fine particolare dell’istituto.
Ora, tra i mezzi che l’istituto ha bisogno di usare, vi è pure questo: che vi sia chi soffra per tutti. E saranno pene interne e saranno pene esterne, pene morali e pene corporali, ma il Signore non lascia mancare i mezzi di santificazione: l’attenzione perché si paghino le pene, si compia la penitenza dei peccati che vengono commessi nell’istituto stesso, peccati veniali e anche più che veniali. Allora chi si accorge di aver da compiere questa missione nell’istituto, non si ribelli al volere di Dio, e anche se fosse condannata all’inazione, perché non ha più forze fisiche, non pensi di essere inutile nella Congregazione, no! Forse compie il lavoro più umile, più nascosto e più utile per la Congregazione. Basta che noi sempre ci conformiamo al santo volere di Dio, sempre. Egli guida tutto. Non pensiamo di essere noi a guidare. A noi basta essere docili nelle mani del Padre celeste quanto è stato docile Gesù nelle mani del Padre suo, per cui ha meritato: «Tu sei il mio Figlio diletto in cui mi sono compiaciuto»14.
Leggevo in questi giorni la vita di una suora indiana, clarissa, che al battesimo aveva nome Anna, poi nella professione [prese] il nome di suor Alfonsa15. Questa suora capì molto presto, nella sua giovinezza, la grande missione del dolore: l’apostolato della sofferenza. Tra le altre cose ha detto parole che per noi sono assai istruttive: È necessario che il grano venga macinato, perché si formi e si abbia la farina bianca per fare le ostie. È necessario che l’uva venga spremuta, perché si abbia il vino da consecrare nella Messa. Così io devo essere macinata, così devo essere spremuta nelle mani di Dio, che sia rinnegata in tutti i miei sensi, in tutti i miei voleri e che trovi sempre pena là dove cercavo consolazione. Occorre che sia macinata, ridotta in polvere e che sia spremuta come gli acini dell’uva, onde essere un’ostia, onde essere nel calice, e gradita al Padre celeste, per la mia nazione, cioè per l’India
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particolarmente, nazione che ha quasi quattrocento milioni di abitanti.
Fra le mortificazioni, forse ieri sera non ho detto abbastanza della mortificazione del cuore, della mortificazione positiva, cioè eccitarsi all’amore di Dio, eccitare il cuore all’amore di Maria, eccitare il cuore a entrare nell’intimità con l’Ostia santa, particolarmente durante la Visita e nella santa Comunione. Amare Gesù anche come uomo. Il cuore non deve essere mai solitario, si deve sentire la presenza, la vicinanza, l’unione con Gesù, così intima che saranno due in uno spirito solo, oppure come dice S. Paolo: «Vivo io, non vivo più io, ma vive in me Cristo»16. Eccitare il cuore all’amore, perché sembra che tendiamo più a formare delle intellettuali che delle amanti. Ora formare delle amanti. Per questo si è editata la collana di libri: Amanti di Dio17. La storia ce ne presenta tante.
Veniamo adesso a considerare la mortificazione dei sensi, la mortificazione che è necessaria per raggiungere il fine per cui siamo creati, il fine per cui siamo religiosi. La mortificazione dei sensi dapprima riguarda quella dei sensi esterni. La mortificazione però è sempre divisa in due parti: mortificazione positiva e negativa. La mortificazione positiva degli occhi è guardare ciò che bisogna guardare, e la mortificazione negativa è non guardare quello che è proibito guardare.
Guardare quello che bisogna guardare: guardare il Tabernacolo, guardare il cielo, guardare l’immagine di Maria, guardare il libro che hai per studiare, guardare le persone con cui devi trattare, guardare i libri dove dobbiamo leggere le preghiere, guardare il Vangelo per scorrere attentamente e nello stesso tempo lentamente le parole del Salvatore divino. Adoperare gli occhi quindi al servizio di Dio. Abbiamo questa grande grazia: il dono della vista. Come ci fanno pena quelli che sono nati ciechi o sono diventati ciechi! È grazia di Dio avere questo dono: conserviamolo e usiamolo tutto per il Signore. È un grande talento. Che possiamo alla fine dire: Ho guardato
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ciò che dovevo guardare. Ho adoperato gli occhi secondo il volere di Dio.
Ma non guardare quello che non deve essere guardato: «Averte oculos meos ne videant vanitatem»18. Gli occhi sono la finestra dell’anima e come attraverso gli occhi entrano tante cose buone, così attraverso gli occhi entrano tante cose cattive. E gli occhi suscitano i pensieri alla mente, e dalla mente dipende il cuore e dipendono le azioni, dipende la volontà. Non guardare ciò che è inutile, non guardare quello che poi fissa nell’anima ricordi non buoni o che eccita le passioni. Non guardare le persone che non bisogna guardare, e non guardare, cioè non leggere, libri o periodici che siano pericolosi e non guardare figure o ritratti o cose simili, quando sono un pericolo per l’anima.
Certo, andando per le strade, ci incontriamo sempre con cose che non è bene guardare, ma il vederle non costituisce peccato, costituisce peccato invece fissarle, e cioè considerarle, così che costituisce per l’anima un pericolo. E sono molti i pericoli, perché il mondo è tanto guasto, e non si può quasi uscire senza trovarsi di fronte a qualche pericolo. La modestia degli occhi va conservata anche in casa, perché dobbiamo aver riguardo a noi stessi e riguardo agli altri. Vi sono pellicole che non bisogna guardare e vi sono trasmissioni di televisione alle quali non bisogna assistere. Così noi dobbiamo santificare gli occhi. Ricordare la risposta di S. Savio Domenico19, quando attraversava la piazza dove vi erano i saltimbanchi e i baracconi e dove c’era pericolo che i suoi occhi potessero vedere cose non convenienti. Ecco egli sapeva moderare lo sguardo e voltarlo dall’altra parte: Ma tu non guardi mai niente!. Io voglio riservare i miei occhi a guardare ben bene la santissima Madre mia, Maria, in paradiso!.
Dopo gli occhi vi è la mortificazione dell’udito, anche qui la parte positiva e la parte negativa. Parte positiva: occorre che noi ascoltiamo le prediche e ascoltiamo le conferenze, gli avvisi,
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particolarmente gli avvisi dati individualmente. Ascoltiamo i consigli del confessore, ascoltiamo i buoni esempi, le parole che ci edificano. Ascoltiamo quello che ci viene insegnato nell’apostolato, nella scuola. A servizio di Dio i nostri orecchi.
E tuttavia mortificazione negativa, cioè non ascoltare quello che non va ascoltato. Non vanno ascoltati i discorsi pericolosi, i discorsi che portano allo scoraggiamento, i discorsi di mormorazione; non vanno ascoltate le trasmissioni radio non edificanti; e non vanno ascoltati quei discorsi e quelle narrazioni che sono vane, inutili, non conformi al nostro stato. Quelle notizie che piuttosto ci distraggono e disturbano lo spirito, non ascoltarle! Il mondo è posto nel maligno, e dappertutto dove andiamo, alle volte anche tra le persone più care, può essere che vi sia l’occasione e il pericolo di sentire cose non edificanti, magari contro la vocazione, contro i buoni costumi, contro l’obbedienza; parole che portano turbamento nello spirito. Oggi in tanti ambienti non si distingue quasi il bene dal male, come se tutto fosse lecito: guardare qualunque cosa, sentire qualunque cosa, anzi difenderla, perché bisogna sapere. Bisogna in primo luogo sapersi salvare, bisogna sapere il bene in primo luogo, del male, in generale, se ne sa fin troppo. Non che talvolta non bisogni essere istruiti su certi punti, sì, ma a tempo, quando si fa per dovere, e si compie con l’aiuto della grazia di Dio in modo elevato. Noi abbiamo per le mani apostolati delicatissimi, e come non possiamo dare agli altri ciò che può danneggiare lo spirito, così, in primo luogo, per noi stessi esser delicati.
Non sempre i discorsi tra i religiosi sono veramente da religiosi, perché qualche volta sono ispirati alla tiepidezza. Ora, o esser religiosi o non esserlo. Il religioso non può esser tiepido, se è tiepido non è più religioso, perché il religioso deve fare una vita di amore fervente: Congregavit nos in unum Christi amor.
Mortificare pure la lingua: la parte negativa e la parte positiva. Molte volte dobbiamo parlare. Vi è da parlare con Dio, vi è da parlare con l’angelo custode, vi è da parlare con Gesù, vi è da cantare le lodi di Dio, vi è da dire bene le orazioni, vi è da ripetere anche con la lingua le giaculatorie, le preghiere brevi. Ecco, usare bene la lingua, usare bene la lingua nella
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propaganda. La lingua è un grande dono. La parola di Dio come dobbiamo sentirla bene, noi dobbiamo anche dirla bene la parola di Dio!
Quante volte nella propaganda le parole che si dicono persuadono, e alle volte anche certe parole ed espressioni che sembravano buttate là quasi a caso, operano poi in un cuore e in un’anima. Usare positivamente la lingua nell’insegnare, nel fare scuola e nelle conferenze, nel trattare con le sorelle, nel consigliare, nell’incoraggiare, nel portare un po’ di luce alle anime, ai piccoli, ai poveri, agli ignoranti.
Ecco, dobbiamo usare santamente la lingua, perché questa un giorno possa cantare le lodi di Dio in paradiso. Pensiamo a come si comportava Maria nel suo parlare, e così le nostre parole siano tutte edificanti, tutte giuste, senza rispetto umano, poiché tante volte il cuore è pieno di buone cose e allora queste siano messe anche a servizio delle anime. Tuttavia dobbiamo fare molte mortificazioni anche con la lingua: astenersi da dire quello che non va detto; astenersi dai discorsi cattivi contro la carità, la povertà, l’obbedienza; discorsi cattivi che mettono il dubbio, lo scoraggiamento nelle anime, che turbano alle volte i cuori. Avere prudenza particolarmente quando si parla davanti alle piccole, che per le nostre parole nessun’anima abbia da esser turbata, nessun cuore abbia da essere agitato; prudenza nel parlare, ma non mutismo, no! Vi è un mutismo sdegnoso che offende Dio e offende il prossimo. No, occorre che abbiamo convivenza sociale buona e che per parte nostra seminiamo la letizia, la pace, la serenità con parole sante.
Vietati quindi tutti i discorsi che non fanno del bene e il narrare cose vedute, e ricordare episodi che non sono edificanti, cose che si sono magari viste in propaganda che non sono edificanti. Perché mormorare? Perché giudicare in male? Parlare quando è tempo, per esempio al confessionale, ma non parlare quando non è tempo. La chiesa è luogo sacro. Nella giornata vi sono dei tempi in cui bisogna tacere: osservare il silenzio. Il silenzio esterno frutta poi un silenzio, un raccoglimento interiore.
Ugualmente si dovrebbe dire del gusto, e cioè saper prendere quello che è necessario e nella misura in cui è utile e necessario;
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astenersi da quello che non è necessario e che si prende solo per soddisfare la gola. Quante piccole mortificazioni anche qui!
Più ancora dovremmo parlare della mortificazione del tatto, ma non ne abbiamo il tempo. Il tatto è il senso più esteso in noi. Ecco perciò che abbiamo da vigilare su di noi: sempre posizioni decorose, convenienti per le persone consacrate a Dio. Sempre rispetto alle persone ed esigere il rispetto dalle persone. Sempre abbiamo da faticare: si fatica con le ginocchia pregando e si fatica con le mani lavorando.
Ecco quanto è buono poter alla sera dire: Sono stanco, ma sono stanco perché ho servito Iddio. Adesso riposerò per servirlo ancora meglio domani. Se ognuna volesse accontentare sempre se stessa, volesse evitare ogni stanchezza e ogni fatica, allora la mortificazione non esisterebbe più, e quando non esiste la mortificazione nel tatto, è poi facile che non esista la mortificazione anche nell’interno, nei sentimenti.
In conclusione guardiamo Gesù crocifisso e santifichiamo la Quaresima, e pensiamo che della mortificazione come l’abbiamo considerata, sempre c’è bisogno: è necessaria assolutamente per raggiungere il nostro fine, evitando il male e facendo il bene.
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4 Ritiro tenuto a [Roma, 4 marzo] 1956. Il dattiloscritto, carta vergata, fogli 5 + 5 + 4 (22x28). I titoli delle tre meditazioni sono stati aggiunti a mano. Della terza meditazione esiste la registrazione su nastro. La trascrizione è considerata come originale e vi è stata apportata qualche correzione per renderla leggibile. Il dattiloscritto precedente è considerato come prima trascrizione, ma qui non è valorizzato.
5 Cf Eb 12,2: «Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi si sottopose alla croce…».
6 Cf Mt 16,24: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua».
7 Cf Imitazione di Cristo, II, XII, 3.
8 Abstine et sustine: motto latino attribuito al filosofo greco stoico Epitteto (50-120 ca d. C.).
9 Cf Gv 4,34.
10 Cf Gv 8,29.
11 Cf Mt 19,21.
12 Cf Mt 6,33: «Cercate prima il regno di Dio».
13 Cf Imitazione di Cristo, III, XLIX, 3.
14 Cf Mt 3,17.
15 Cf S. Alfonsa Muttathupadam (1910-1946) suora del Kerala (India) appartenente all’Ordine delle Clarisse Malabariche di Bharananganam. Canonizzata il 12 ottobre 2008.Mt 3,17.
16 Cf Gal 2,20.
17 La collana “Amanti di Dio”, edita da Edizioni Paoline, Modena, comprende testi mistici di tutti i tempi. Ebbe inizio nel 1955 con Il libro della Beata Angela da Foligno.
18 Cf Sal 119,37: «Distogli i miei occhi dalle cose vane, fammi vivere sulla tua via».
19 Domenico Savio (1842-1857) piemontese, aspirante salesiano, ebbe come motto: “La morte ma non peccati”.