13. UMILTÀ III1
Ieri abbiamo cominciato a parlare dell’umiltà da usarsi rispetto al prossimo e in primo luogo con i superiori. Adesso la consideriamo rispetto agli eguali e agli inferiori. Già abbiamo ricordato che dire superiori, uguali ed inferiori è cosa umana, espressione per intenderci quaggiù. Davanti a Dio nessuno può dire quello è superiore, quello è uguale e quello è inferiore. I primi possono diventare gli ultimi e gli ultimi possono diventare i primi nella sentenza del giudizio universale. Può benissimo essere che uno degli inferiori un giorno abbiamo da considerarlo e vederlo più in su in Paradiso, in luogo elevato. Quel re è comparso dopo la morte a un suo amico e ha detto che era salvo assieme al portinaio del palazzo reale, ma che il portinaio era tanto più in su di lui, quanto era stato più in basso sulla terra. Considerare davvero quello che siamo davanti a Dio. Può essere che una sia vestita riccamente, magari vestita da regina, mentre che nello stesso palazzo ci sia una donna che è addetta agli uffici più umili, e che in paradiso questa donna che sulla terra compie gli uffici più umili si trovi al di sopra di colei che ha rappresentato la condizione di regina. Chissà come siamo davanti a Dio!
Umiltà con gli eguali. Gli eguali sarebbero le sorelle, sarebbero i fratelli, in loro considerare il bene. Avviene che il nostro orgoglio ci porti a considerare negli altri più i difetti che le virtù e allora può essere che ci inganniamo, che facendo il paragone, noi sbagliamo. Nessuno può dire che lui sia più in alto del fratello che gli pare uguale, perché non sappiamo le grazie che abbia ricevute il fratello o la sorella, sappiamo invece, almeno in gran parte, quello che abbiamo ricevuto noi. Ebbene, allora come si può fare il paragone? Impossibile. Occorre che di noi abbiamo sempre un concetto umile.
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Considerare il bene nelle sorelle: questo è segno di buon cuore, è segno di umiltà. L’orgoglio porta anche a paragonarsi e qualche volta, vedendosi inferiori in qualche punto, non ci si umilia, ma fatti i conti finali sembra che pur essendo inferiori in quel punto siamo superiori in altro: questo è segno di molto orgoglio. Anche lo stesso paragonarci agli altri è segno di tanto orgoglio. È anche un errore metterci a considerare le vite dei santi e, dopo averne considerato le gesta, perché noi facciamo qualche cosa che facevano loro, ci crediamo uguali. Certo, dicevano il rosario, supponiamo, e noi lo diciamo. Ma basta fare all’esterno tutto quello che facevano i santi per poterci considerare uguali a loro? No. Bisogna vedere quali obblighi abbiamo noi e quali avevano loro. Gli obblighi dipendono dal numero delle grazie: chi ha ricevuto di più deve dare di più. Può essere che uno dia nove e un altro dia soltanto sei e che colui che dà sei innanzi a Dio sia più grande, perché può essere che colui che ha nove avrebbe potuto arrivare anche a dieci data l’intelligenza e il tempo che ha avuto. Mentre colui che ha ricevuto sei, avendo fatto tutto il possibile, ha speso tutto quanto ha ricevuto da Dio e quindi il Signore gli darà di più in cielo. Dipende dall’impegno messo nel fare le cose, cioè dall’amore con cui si fanno, e questo noi non possiamo saperlo con precisa realtà.
È meglio considerare le virtù negli altri e considerare i difetti in noi. «Non giudicate e non sarete giudicati. Non condannate e non sarete condannati»2. Se noi ci giudichiamo, non saremo giudicati, perché accusando i nostri peccati questi vengono cancellati. Se invece giudichiamo gli altri facciamo un male, manchiamo di carità e allora gli altri vanno avanti nella virtù e noi facciamo dei peccati. Occorre che noi giudichiamo noi stessi secondo verità, il più possibile.
Riguardo agli altri, a coloro che sono uguali, sentire di avere dei doveri, sempre avere dei doveri: doveri di stima, di rispetto. Sempre avere dei doveri: prendere il buono ed evitare il male. Sempre avere dei doveri: il soccorso di carità, l’esempio buono da dare, la preghiera da fare. Riguardo agli uguali mostrarci
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sempre servizievoli in quanto possiamo, si tratta di aiutare una sorella, un fratello. E quante volte noi possiamo dare aiuto, possiamo portare un conforto, possiamo dare buon esempio, la buona parola, possiamo fare una correzione, ecc…!
Quanto a correzioni è tanto difficile farle e altrettanto difficile riceverle. Ci vuole virtù in chi le fa e virtù in chi le riceve. Ma vi sono persone che le fanno bene le correzioni, con tanto garbo, vivendole prima in se stesse. E se umiliamo noi stessi prima di richiamare il fratello o la sorella, allora v’è più grazia, si fa la correzione con maggiore rispetto e con carità ed è anche più facile quindi che sia ricevuta. Non rispondiamo mai male: Guarda te stessa! Ecco chi non è disposto a ricevere la buona parola, a ricevere la correzione del fratello o della sorella, non ha umiltà. Ma quella non è costituita in autorità. Il Signore dice: «Se ha mancato il tuo fratello, non il tuo superiore, corripe eum inter te et ipsum solum»3. Correggilo. Se ha mancato la tua sorella, correggila prima che venga denunziata. Prima correggila e poi, se non basta tra te e lei, chiama uno o due testimoni e alla fine si può arrivare ai superiori. La correzione prima che la faccia il superiore sia fatta da altri. Avere la santa umiltà di lasciarci correggere anche da una sorella che può essere più giovane e può avere anche i suoi difetti, e certamente ne ha. Chi fa la correzione la faccia umilmente e chi la riceve, la riceva umilmente.
Certe parole che alle volte sono offensive, questo rispondere male alle sorelle, da che cosa dipende? Da orgoglio, da superbia. Vedete come alle volte la carità viene rotta nella casa da cattive risposte, dal non saper tollerare un difetto, uno sgarbo, uno scherzo. Da che cosa tutto questo? Da superbia. E anche se abbiamo ricevuto un torto, mettiamo che sia veramente un torto:… e Dio non ci ha sopportato tanto tempo quando gli abbiamo fatto tanti torti con i peccati? «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»4. Cioè: Signore perdonaci quanto noi perdoniamo agli altri. Ma se non perdoniamo piccole cose, anche il Signore non perdonerà
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a noi. E se vogliamo che ci siano perdonati non solo i peccati, ma anche le pene che abbiamo meritato, bisogna che perdoniamo di cuore a coloro che ci hanno disgustato. Ma ha questo carattere, ha questo modo di fare. Noi abbiamo il nostro carattere e il nostro modo di fare. Chissà se devono penare più gli altri a sopportare noi o noi a sopportare gli altri! È un fatto che S. Paolo dice: «Ut discamus alter alterius onera portare: Che sappiamo portare bene i pesi gli uni degli gli altri»5.
In terzo luogo umiltà con gli inferiori e, riguardo agli inferiori, bisogna soprattutto avere rispetto. La parola di Gesù: «Se non vi farete piccoli come questo fanciullo non entrerete nel regno dei cieli»6 è chiara. Pietro voleva rimandare i fanciulli che si affollavano attorno a Gesù e sembrava che lo trattassero non con abbastanza rispetto. Ma Gesù ne prese le difese: «Lasciate che i piccoli vengano a me»7. Vi sono persone le quali, perché hanno già una certa posizione, sanno fare scuola, perché riescono in una iniziativa o in un’altra, si mettono sopra la cattedra e cioè trattano gli altri dall’alto al basso. Chi sarà il più grande, il maestro o lo scolaro? Lo dirà Dio nel giorno del giudizio. Fa sempre riflettere quella frase della sacra Scrittura: «Iudicium sine misericordia his qui praesunt: Un giudizio senza misericordia a coloro che comandano»8. Allora viene la voglia di scambiare i posti; e quanti santi lo hanno fatto! Con questo volevo dire che può essere più grande davanti a Dio e più caro al cuore di Gesù un fanciullo che un grande. Perciò grande rispetto. In primo luogo dare il buon esempio ai piccoli. Vi sono parole che forse dette fra persone adulte sono in bene, fanno del bene e dette innanzi ai fanciulli fanno del male. «Maxima debetur puero reverentia: Si deve alla innocenza del bambino molto rispetto»9. Sono piccoli: aiutarli, siamo obbligati. A suo tempo non abbiamo noi ricevuto l’aiuto e perciò dobbiamo darlo a chi è più piccolo di noi? «E chi vuole essere
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il primo sia il servo di tutti»10. I genitori devono mantenere i figli, dare l’aiuto, e nella Congregazione chi ha più anni di professione deve aiutare chi ne ha meno o chi è aspirante. Aiutare con la preghiera, aiutare con l’esempio, aiutare in tante piccole cose, insegnare nell’apostolato, tanto l’apostolato di redazione quanto l’apostolato tecnico e di propaganda. Aiutare, formare. Vi sono dei compiti di carità: è meglio dare il pane ai fanciulli, oppure insegnare a guadagnarselo? È meglio insegnare a guadagnarselo. È meglio dare il lavoro al povero che fare l’offerta. Sappiamo dunque comportarci bene con i giovani e con le giovani, con grande rispetto.
Abbiamo poi da meditare circa la carità verso le sorelle, carità che è umiltà. Considerando noi stessi, facendo l’esame o riflettendo, noi troveremo certamente dei doni da parte di Dio e dei doveri da parte nostra. Se troviamo che Dio ci ha fatto dei doni, come comportarci? Se riconosciamo di avere intelligenza, se riconosciamo di avere buona salute, abilità, bella voce, e di avere acquistato, per esempio, una certa scienza, una certa capacità nelle cose, davanti a questi doni come comportarci? In primo luogo riconoscerlo e quindi darne lode a Dio, come fece Maria. Ella allorché S. Elisabetta la riconobbe Madre di Dio: «A che debbo che venga a me la Madre del mio Signore?»11. Maria allora non stette a compiacersi di questa lode, ma subito passò la lode a Dio: «La mia anima loda il Signore, perché mi ha fatto cose grandi colui che è potente»12. Riconoscendo i doni che avete ricevuto, ad esempio, la bella vocazione, lodare Dio, glorificare Dio. Non è superbia riconoscere i doni, perché è come dire: Quello è il mio benefattore a cui io devo riconoscenza. Riconoscere dunque i benefici ricevuti e glorificare Dio. Ma bisogna anche fare un’altra cosa e cioè pensare che chi più ha ricevuto, più deve dare a Dio. Se io ho più intelligenza devo applicarmi di più, devo studiare, impegnare la mia mente e fare progresso nello studio, nell’apostolato, nella pietà. Riconoscere i grandi doveri che dipendono dall’avere ricevuto più doni.
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Inoltre questi doni li abbiamo sempre usati in bene? Se vi è, per esempio, facilità nello studio, noi abbiamo impiegato tutta la nostra intelligenza nello studio come dovevamo, abbiamo riportato tutti i frutti come dovevamo? Non esageriamo però le qualità che abbiamo. Qualche volta avviene che finiamo con il gonfiarci, ammirare noi stessi. Forse gli altri ci compatiscono per questo o quel difetto, ma noi siamo gonfi per una buona qualità, per un successo ottenuto. Come la rana, che vedendo il bue grosso, imponente, voleva misurarsi con lui e ingrassare fino al punto di raggiungere la grandezza e il volume del bue, e così cominciò a respirare, a gonfiarsi finché scoppiò.
Qualche volta la superbia scoppia dagli occhi, si vede dalle parole, dal tratto, dall’atteggiamento. La superbia alle volte accompagna fino al confessionale che pure è il posto della penitenza. Perché non mortifichiamo noi stessi e non pensiamo alle nostre deficienze? Abbiamo un po’ di bene, ma in quante cose manchiamo! Sappiamo qualche cosa, ma vi sono innumerevoli scienze di cui non sappiamo neppure il nome. Abbiamo molto da gloriarci per le poche cose che abbiamo appreso nei pochi anni di studio? Sappiamo una lingua, ma nel mondo vi sono circa cinquecento lingue. E quante se ne sanno di queste cinquecento? Occorre umiliarci. Sappiamo ben poco, e quello che facciamo è ben poco! Quanto più hanno fatto i santi! Quanto di più sanno uomini che hanno consumato la vita negli studi! Quindi non mettiamo tanto l’occhio su quello che facciamo, i meriti che abbiamo, quanto sopra le nostre miserie, i nostri difetti, le nostre scarsità, gli insuccessi in tutte le cose.
Vivere il Patto13 vuol dire che siamo scarsi in tutto, nello spirito, nella scienza, nell’apostolato, nella povertà, nella convivenza religiosa, e allora noi invochiamo umilmente il Signore facendo il patto con lui: Io metterò al servizio della tua gloria tutto quello che ho, e conto che tu supplirai alle mie deficienze, farai rendere il mio studio, mi farai fare un grande progresso nella santificazione, mi darai lo spirito dell’apostolato e moltiplicherai i nostri beni materiali, perché possiamo fare più bene. Vivere il Patto ci fa sempre stare umili, fiduciosi in Dio.
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Il Patto può essere compreso in due parole: Da me nulla posso, ma con Dio posso tutto. Umiltà dentro di noi, umiltà di cuore, non umiltà di atteggiamenti e di proteste inutili, suggerite da orgoglio interno, che cerchiamo di coprire con l’umiltà.
Molte volte l’orgoglio si manifesta attraverso tante pretese che si hanno. Vi sono a volte pretese che riguardano le sorelle, pretese verso l’Istituto, pretese un po’ verso tutti che dovrebbero rispettare, che dovrebbero stimare, essere previdenti in questo e in quello, tener conto di ciò che abbiamo fatto, di quello che sappiamo, ecc… Vi sono persone che non hanno limiti nelle pretese, altre invece alle quali sembra sempre che tutto sia troppo, troppo il modo con cui sono trattate, che sia oltre i loro meriti, che il Signore è troppo buono con loro, e che loro meritano molto poco. Persone umili! Altre persone magari si distinguono in una virtù, ma, dice S. Gregorio, perché in loro vi è la castità non vedono poi in quante altre cose sono mancanti, e specialmente sono orgogliose e vuote e quindi non stanno al proprio posto e nella propria misura.
L’umiltà infine ci porta alla schiettezza e alla sincerità. La semplicità, la schiettezza, la sincerità sono frutto dell’umiltà. Chi ha molto da fare, non si ferma tanto ad ammirarsi nello specchio (non parlo solo dello specchio di vetro), pensa invece a moltiplicarsi nel lavoro ed operare per il Signore in tutte le maniere che gli è possibile. L’orgoglioso nasconde il male e mette in vista il bene. Come si comporta inoltre l’orgoglioso? Se vi è un po’ di male, viene dagli altri, e se vi è un po’ di bene, l’ha fatto lui. Vi sono persone che la parola che dicono più frequentemente nelle conversazioni è: io, e io scritto a caratteri grossi, perché fatti i conti non vi è nulla di più bello nel mondo. Vi sono invece altre persone che hanno fatto il proposito: Di me non parlerò se non per stretta necessità. Non parlare né in bene e né in male, perché è facile nell’uno o nell’altro caso che entri un po’ di orgoglio.
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1 Predica tenuta a [Roma] il 15 febbraio 1956 durante gli Esercizi spirituali. Dattiloscritto, carta vergata, fogli 5 (22x28). Le curatrici hanno aggiunto il titolo e il luogo.
2 Cf Lc 6,37.
3 Cf Mt 18,15: «Va’ e ammoniscilo fra te e lui solo».
4 Cf Mt 6,12.
5 Cf Gal 6,2.
6 Cf Mt 18,3.
7 Cf Lc 18,16.
8 Cf Sap 6,6 (Volgata).
9 Cf Locuzione latina di Decimo Giunio Giovenale, cf Med. 10, nota 27.
10 Cf Mc 10,44.
11 Cf Lc 1,43.
12 Cf Lc 1,46.49.
13 Cf Le preghiere della Famiglia Paolina, Alba 1985, p. 193ss.