Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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11.
POVERTÀ

È utile che ci fermiamo alquanto a considerare i santi voti e il modo con cui si osservano. Parliamo prima del voto di povertà. È il meno eccellente perché più eccellenti sono la verginità e l'obbedienza. Con la povertà diamo a Dio, consacriamo a Lui i beni esterni; con la castità si consacra a Dio il corpo, con l'obbedienza si consacra a Dio l'anima, la mente, lo spirito. Quindi le proprietà e le stesse cose che usiamo, come il cibo, la casa, il vestito eccetera, tutto viene offerto con il voto di povertà a Dio, mentre con il voto di castità si consacra a Dio il corpo con tutti i sensi e con il voto di obbedienza si consacra a Dio la nostra libertà.
Sono tre le concupiscenze dell'uomo, cioè sono specialmente tre le passioni che travagliano gli uomini, che li spingono al male; queste tre concupiscenze, se vogliamo salvarci, bisogna regolarle, dominarle e condurle al bene. La prima concupiscenza è l'avarizia e, col voto di povertà, si combatte l'attaccamento alle cose terrene. La seconda concupiscenza è la carne, e cioè la lussuria e, col voto di castità, si domina questa passione. La terza concupiscenza è l'orgoglio e, con l'ubbidienza, dominiamo la superbia. Infatti è detto: tutto quel che è nel mondo è guasto, è cioè avarizia, lussuria e superbia.
Ho detto che con il voto di povertà si consacra a Dio tutto, si fa Dio padrone, non usando più le cose come nostre, ma dando a Dio tutto quello che abbiamo, come il cibo, il vestito, la casa, la proprietà, i titoli, il denaro, ecc. Di tutto fare Lui padrone. Come mai? E questo a che cosa serve? Serve a questo scopo: dopo useremo queste cose come cose sacre, di Dio, e quindi le useremo bene.
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Se si hanno, supponiamo, dei denari, si useranno in bene; e se si hanno le cose che servono a coprire il corpo, cioè il vestito e altre cose connesse, come sono gli arredamenti dell'alloggio, il tutto è consacrato a Dio e ne faremo quell'uso che piace a Lui; non per ambizione, non per goderci le cose, ma in ordine a Dio, come Dio le ha date in uso, perché serviamo Lui e perché ci serviamo di queste cose a suo onore, secondo la sua volontà. Far Dio padrone di tutto, e allora si può dire che tutto ciò che abbiamo in casa e addosso e tutto quello che riguarda il vitto quotidiano, lo usiamo per mantenerci nel servizio di Dio e dell'apostolato. Veramente la preghiera di ringraziamento che si dice a tavola sarebbe più giusto esprimerla così: per mantenerci nel servizio di Dio e nel servizio delle anime, cioè nell'apostolato, perché le anime consacrate al Signore negli Istituti Secolari, intendono sempre usare tutto per il Signore e perciò per l'apostolato.
Anche per la povertà guardiamo l'esempio di Gesù Cristo. Il Figlio di Dio si è incarnato e ha preso l'essere umano nel seno della Vergine Santissima. Ha scelto una vergine poverissima e un padre putativo, Giuseppe, lavoratore. Poteva nascere da una imperatrice, ma è andato a nascere in Galilea, la regione meno stimata, e si è ritirato a Nazaret, borgo che aveva una cattiva nomea. Si diceva: «Può venire qualcosa di buono da Nazaret? Può nascere un profeta dalla Galilea?» (Gv 1,46). Ma è andato a vivere là. E per nascere ha scelto Betlem, ma non è nato nella città: «Non erat eis locus in diversorio»: non c'era posto per Giuseppe e per Maria all'albergo (Lc 2,7); Giuseppe è andato a cercarsi un rifugio nella campagna e là, in una grotta, nel corso della notte, è nato il Figlio di Dio incarnato. E dove l'ha messo Maria? Nella greppia, sopra un po' di paglia, coprendolo come poteva. Dunque Gesù, Figlio di Dio, padrone di tutto l'oro e di tutte le ricchezze del mondo, ha voluto scegliersi una grotta dove si rifugiavano solamente le bestie quando il cattivo tempo le sorprendeva nella campagna, e in una grotta che non era sua.
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E, posto sopra un po' di paglia, ha chiamato per primi i pastori, i poveri, che gli hanno portato le offerte e ha incominciato, diciamo così, a vivere di offerte, consegnate a Maria e a Giuseppe per i bisogni della santa Famiglia.
Poi fu esule in Egitto. E la condizione di un esule, o di una famiglia che è obbligata per forza a stare in terra straniera, è una condizione penosa. E quando l'arcangelo avvertì Giuseppe che era morto Erode, nemico di Gesù, e che poteva quindi tornare in Palestina, Giuseppe, Maria e il Bambino andarono a Nazaret, dove c'era una casetta povera e, accanto alla casetta, un laboratorio di falegname. E lì visse Gesù Bambino, Gesù fanciullo, Gesù giovanotto, Gesù uomo fatto, guadagnandosi il pane col sudore della fronte.
Considerarlo, contemplarlo lì al banco dove piallava, tagliava legna sotto lo sguardo della sua Madre Maria che filava la lana secondo l'uso di quei tempi. E quelli che lo conoscevano lo chiamavano il falegname del paese, come un falegname in una borgata, e quando era necessario qualche mobile e qualche altro strumento, ecco, si andava dal falegname. Fu chiamato il falegname: «Nonne hic est faber?»: questi non è il falegname? (Mc 6,3), dicevano quando poi lo sentivano predicare. Di dove ha imparato la sua scienza per parlare così bene e di cose così alte? Poi Gesù a 30 anni uscì per il ministero pubblico e si portò a Cafarnao, che fu poi il centro delle sue peregrinazioni.
Come visse in quei 2 anni e pochi mesi della vita pubblica? Di carità. Il popolo gli faceva delle offerte e Giuda le conservava; e sappiamo in che modo le conservava, abusando purtroppo della fiducia di Gesù; poi accettava l'ospitalità in qualche casa per carità, per un po' di ristoro e qualche volta anche per dormire. Egli visse tanto poveramente che poté dire: «Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli hanno i loro nidi, ma il Figlio dell'Uomo non ha una pietra dove posare la testa» (Lc 9,58).
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Egli non aveva niente di suo; come non era sua la grotta dove era nato, così nessuna pietra per sedersi, per riposarsi un momento era sua; così quando morì, il sepolcro dove fu posto non era suo, ma imprestato.
Eccolo ancora quando viene spogliato degli abiti, quando la tunica viene giocata a sorte dai soldati sotto la croce. E la sua morte non avviene su un letto normale, ma su un letto di legno, una croce. La povertà estrema, perché Gesù ci voleva dare l'esempio. Al contrario, quante persone hanno l'ambizione degli abiti, la raffinatezza nel mangiare, la volontà di mostrarsi in case ornate, magari in ambienti lussuosi e sforzarsi di sembrare benestanti, anche quando non lo sono. Il Signore voleva dare le sue lezioni, è chiaro, come volle guadagnare il pane col sudore della fronte. Pensiamolo affaticato Gesù, e pensiamo che quel sudore valeva per la nostra redenzione come le sue gocce di sangue versate nell'orto degli ulivi. Imparare allora da Lui la santa povertà.
Passiamo adesso a considerare come si pratica la povertà nell'Istituto delle Annunziatine. I membri, oltre alla proprietà dei loro beni, nel senso che questi si continuano a possedere, hanno ancora la capacità di acquistare altri beni o per eredità, oppure facendo lavori che vengono pagati. I membri dell'Istituto conservano pure l'amministrazione e l'uso degli stessi beni. Le Religiose non hanno l'amministrazione, questa è data a una persona che amministra in nome di tutte, quindi l'amministrazione è del convento; e l'uso, anche nel caso di un regalo, deve essere preceduto dal permesso delle loro superiore. Non è così per le Annunziatine. Esse conservano la proprietà, la capacità di acquistare altri beni, conservano l'amministrazione e l'uso degli stessi beni, però con cuore distaccato, dopo aver fatto di tutto un'offerta al Signore. A motivo del voto di povertà le Annunziatine si considereranno come semplici depositarie dei propri beni, non li amministreranno e non ne faranno uso se non nella debita dipendenza e controllo dei superiori.
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Dei loro beni hanno reso padrone il Signore e allora li amministrano come beni di Dio, se ne servono come beni suoi, con rispetto, tenendoli da conto, usandoli solo per il bene, per le necessità proprie e per le necessità di bene e di carità verso i poveri, verso i meno abbienti e per l'apostolato. E usandoli, esse usano una cosa di Dio. Allora tutta la loro proprietà la considerano con grande rispetto, non ne fanno un uso qualunque e non la sciupano, non la sprecano. Tutto è di Dio.
Allora nell'esercizio della povertà che cosa c'è di diverso dai semplici fedeli? La differenza consiste innanzitutto nel fatto che i membri, alla fine del noviziato, faranno un testamento libero, provvedendo così alla destinazione dei loro beni dopo che saranno passati all'eternità. Inoltre presenteranno ai superiori lo stato del loro patrimonio e i proventi della loro vita professionale e metteranno per scritto l'uso che ne faranno. Se vi è qualche necessità, supponiamo, per la famiglia, per qualche opera buona, per la vita in genere, la renderanno nota, in maniera che abbiano come un'obbedienza nell'uso dei loro beni, in modo che obbedendo guadagnino dei meriti.
Chi non è membro di questi Istituti, supponiamo, prendendo il cibo, lo fa come un fedele ordinario; ma chi è membro dell'Istituto e ha emesso i voti, prendendo il suo cibo rettamente, compie il dovere naturale e serve a Dio perché è volontà di Dio che ci nutriamo. Poi sottoponendo ai superiori un preventivo delle spese che avrà nell'anno, come vorrà usare di quello che avrà, ecco che l'uso di questi beni avrà gran merito. Così pure per il vestito, per l'uso della casa, per tutto l'esercizio di quello che riguarda i beni esterni, i beni materiali. Come chi ha il voto di castità in questi Istituti ha doppio merito: ad esempio cacciando una tentazione impura, ha il merito della virtù e quello della religione; così avviene nella povertà. Allora la vita resta come in un ambiente soprannaturale ed è molto diverso. Anche se, supponiamo, una deve mantenere la mamma, quello diventa un doppio merito; un merito di pietà filiale per la mamma, e un altro merito per la virtù della religione, perché ha sottoposto ai superiori l'uso di ciò che le appartiene.
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Se vi è un piano di amministrazione si è più regolati. E se poi capiterà che nell'anno si avranno spese straordinarie, impreviste, allora potrà chiedere il permesso. E di più, quando queste necessità sono improvvise, si può interpretare il permesso di dare anche in carità qualche cosa che non era preventivato.
Poi alla fine dell'anno, quando si viene agli esercizi, si presenta il preventivo dell'anno seguente e si dà un po' di resoconto dell'andamento dell'anno trascorso. Questo serve per una amministrazione saggia, perché una potrebbe anche fare per larghezza di cuore una donazione straordinaria e non provvedere per sé nella vita, e potrebbe trovarsi in cattive condizioni; e quindi può essere consigliala in primo luogo a risparmiare. Poi quanto alla beneficenza o ad altre opere che si vorrebbero fare, camminare sempre con prudenza. Bisogna tener conto della condizione sociale, del soggetto nella applicazione pratica della povertà. Evidentemente il superfluo è ispirato soltanto dalla vanità, perciò è da escludere una spesa inutile. Con la virtù della povertà ogni membro si spoglia di ogni affetto disordinato ai beni temporali e ne sopporta con animo lieto anche le privazioni per amore di Gesù Cristo, e questo è l'aspetto più importante della povertà.
Le Annunziatine tengono in gran conto la povertà volontaria che è fondamento, vigore e ricchezza di tutta la perfezione cristiana e dell'apostolato. Si astengono, perciò, dal superfluo e da tutto ciò che non è conveniente allo spirito di povertà. Quindi è bene tenersi nella condizione sociale a cui si appartiene, con decoro e con la moderazione che si deve praticare in quella condizione stessa. Non si facciano stranezze, non si facciano cose che diano nell'occhio. Del resto Gesù dai 12 ai 30 anni ha lavorato anche per mantenere la mamma, Maria; e quando a un certo punto è mancato Giuseppe, Egli era solo a sostenere la mamma.
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Le Annunziatine siano persuase che il lavoro, assieme agli altri sussidi che la divina provvidenza fornisce, è il mezzo ordinario e principale per provvedere alle necessità temporali e sostenere le opere di apostolato. Siano quindi diligenti nell'impiego del tempo. Non perdere mai tempo, trovare sempre qualche cosa da fare. Affinché ognuna si renda familiare e possa coltivare intimamente la virtù della povertà evangelica ripensi spesso agli esempi di Gesù e al suo insegnamento; «Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Lc 6,20). Così nella povertà si trova la ricchezza per la vita eterna. Ognuna si sforzi di sradicare poco per volta ogni attaccamento alle cose temporali, si accontenti del necessario; anche spontaneamente, almeno con l'affetto interiore e umiltà, preferisca ciò che è meno vistoso.
Vedete san Francesco d'Assisi. Egli ha stabilito che il suo Ordine fosse mendicante e quindi nel suo spirito era che i suoi figli, e cioè i Cappuccini, i Minori, eccetera, vivessero di carità. Nel vostro caso avere i beni e non attaccarvi il cuore è maggior perfezione. Come si spiega? La nostra vita è sempre più perfetta man mano che si modella sulla vita di Gesù, il quale lavorò, il quale visse di offerte nel ministero pubblico, il quale non aveva nulla di suo proprio, ma tutto usava in ordine a Dio, in ordine all'apostolato. Sono poche le persone che hanno la grazia di capire la preziosità della povertà; ma quando si prega, il Signore dà questa luce, dà la sapienza di considerare le cose della terra per quel che valgono. Servirsi di tutto secondo i bisogni e non abusarne mai, e vivere intanto una povertà che importa distacco, una povertà che provvede, una povertà che produce. Qualcuno potrebbe anche dire di non aver bisogno di lavorare per vivere. Ma c'è il comando di dare quel che è superfluo ai poveri, come dice il Vangelo; bisogna lavorare per produrre e se quello che si produce non è necessario per chi lavora, passa nelle mani dei poveri o nelle mani di chi deve compiere delle opere buone, per esempio offerte per l'apostolato.
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Vi è poi una povertà ancora più preziosa. Non tutti avranno la grazia di comprenderla: la povertà di quelle persone che chiedono la carità per far carità. Nella Chiesa di Dio tutte le opere che ci sono, sono frutto di beneficenza. Le parrocchie sono per beneficenza, i seminari sono per beneficenza, le chiese sono fatte per beneficenza: tutte le opere di Dio e anche gli Istituti per gli orfani, per i vecchi, per gli infermi, per l'educazione del popolo, sono per beneficenza. Se uno arriva anche al punto di chiedere carità per le opere buone, oppure per soccorrere gli indigenti, allora arriva a un grado di povertà che possiamo chiamare eroico. Usando per sé solo quello che è necessario e soccorrendo poi i bisognosi e compiendo le opere di apostolato con le offerte che si ricevono, si giunge alla povertà eroica.
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