Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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3. LA COSCIENZA1

[I. Coscienza retta]

Prima di iniziare la predica il predicatore e gli uditori devono ringraziare il Signore per aver rivelato il Vangelo, ringraziare il Maestro divino, perché egli ci ha predicato le verità eterne e i mezzi per arrivare alla salvezza eterna e ci ha indicato quello che dobbiamo fare, vivere, perché: «Quotquot autem receperunt eum dedit eis potestatem filios Dei fieri: his qui credunt in nomine eius»2. Quelli che credono al suo nome possono diventare figli di Dio. Ringraziare il Signore della rivelazione.
Il Maestro divino un giorno aprì la sua bocca e insegnò: «Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli»3. Ringraziamo per questa dottrina: vale immensamente di più della dottrina dei filosofi e degli antichi sapienti, è al di sopra di tutta la dottrina e la sapienza del mondo attuale.
Il predicatore e gli uditori devono ancora chiedere perdono al Signore, perché dopo tante cose che hanno meditato, dopo che egli ha rivelato i suoi segreti ai piccoli, essi con la loro
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superbia, con la loro ostinazione non hanno messo in pratica tutto quello che egli ha detto. Oh, la sapienza di Gesù, l’amore con cui egli ha predicato alle anime la via della perfezione! E tante volte le passioni, i sette vizi capitali ottenebrano l’anima nostra e noi non vediamo giusto. È tanto importante vedere giusto, crediamolo: molte anime non vedono giusto. Chi poteva vedere meglio, chi poteva vedere più giusto di coloro che hanno sentito da Gesù la medesima sua parola, di coloro che da quattromila anni aspettavano la venuta del Messia? Eppure non hanno veduto niente. «Sui eum non receperunt»4. Quelli nati nella sua casa, nella sua parentela, quelli della sua nazione non lo ricevettero.
Ora, se a lui capitò così, che cosa dire di noi che siamo lontani dai tempi in cui parlò Gesù e che videro i suoi miracoli, l’ammirabile sua vita? Domandiamo perdono se il nostro orgoglio ci ha impedito di ascoltare, di capire, di assecondare tutta la sapienza di Gesù. Perché vi sono anime così penetrate dalle tenebre, così ottenebrate che la luce non riesce ad arrivare a loro. A volte al mattino usciamo per il viaggio e c’è la nebbia e vediamo che il sole nonostante sia già un po’ alto sull’orizzonte, stenta a penetrare e ad arrivare a noi, a dissipare le tenebre, a dissipare la nebbia.
Anime annebbiate! Domandiamo perdono, perché il Signore ha nascosto queste cose ai sapienti e le ha rivelate ai pargoli. Il Signore alle volte le rivela agli umili, a quelli che sono minimi. «Revelasti parvulis»5 a quelli che si fanno piccoli. Oh, la grande sapienza che hanno le anime piccole! Le persone che guardano gli altri, le persone che si credono in alto, che magari guardano con una certa compassione le altre, spesso sono allo scuro. La sapienza vera è quella che Gesù rivela ai piccoli e se non ci facciamo piccoli come il bambino Gesù ha detto: «Non ci sarà posto nel regno dei cieli»6. Ringraziare quindi e chiedere perdono.
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Adesso domandiamo al Signore la sua luce: Signore, guardatemi dalla superbia. Ecco, Signore, abbiate paura della nostra superbia, perché la nostra superbia è veramente l’ostacolo alla grazia di Dio. L’orgoglio si presenta sotto tante forme: primo è la superbia, secondo è l’attaccamento, terzo è la passione dell’invidia, poi viene l’ira, poi viene la carne la quale è l’umiliazione del superbo. Domandiamo perdono specialmente delle nostre distrazioni. Occupiamoci più che degli altri, della nostra santificazione e del nostro dovere e del nostro apostolato. Occupiamoci del nostro lavoro nel raccoglimento, nella serenità. Non dobbiamo giudicare gli altri, ma dobbiamo giudicare noi stessi e se gli altri si facessero santi e noi non ci facessimo santi sarebbe un rimprovero in più, perché il Signore direbbe: Ti ho messo tra i santi e tu non hai saputo farti santa. Domandiamo perdono al Signore della distrazione di molte suore, di molte persone che vivono in Congregazione: non occuparsi degli altri. Bisogna invece occuparsi di Dio, di noi e dell’apostolato.
La grazia da chiedere in questo ritiro mensile è questa: avere buona coscienza. Noi portiamo al tribunale di Dio quello che abbiamo fatto con buona coscienza. Far piacere a Dio, e le altre cose, fossero anche santissime in sé, se non sono fatte
«ex fide»7, come dice S. Paolo, non meritano. Ci può essere anche un complesso di pratiche devote, di adorazioni, ecc..., ma non sono fatte proprio per Iddio. E ci può essere una vita che è tutta attività all’esterno, ma è accompagnata dal fervore interno, il quale riempie la vita di meriti, riempie le giornate di meriti. Diceva S. Paolo: «Testimonium conscientiae nostrae»8, m’interpretino male, dicano male, mi vogliano condannare e magari mi mettano alla morte, ma la mia coscienza è tranquilla. Tante volte noi dobbiamo domandarci: Il bene che io faccio è proprio secondo la coscienza, è per amore di Dio, tutto per il Signore? Ho il testimonio della coscienza di far le cose per amor di Dio, nella migliore perfezione? Questa è cosa necessaria. Domandare una buona coscienza.
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Vi sono persone, le quali essendo già adulte, non vorrebbero sopportare la Chiesa. Ma, in pratica, si sottraggono, perché la Chiesa è infallibile, e non vorrebbero sopportare tutte le disposizioni e tutti gli avvisi, i consigli. Si credono di poter già essere liberi e si credono come umiliati a star sotto quelli che sono la guida e che quindi ci governano accompagnati dalla grazia di Dio.
Che cos’è la coscienza? Bisognerebbe, per capire bene la coscienza tener presente che essa è il principale nucleo del nostro essere. Il Papa dice: La coscienza è come un santuario la cui storia è ignota per tutti, compresi i genitori, eccezione unica per il confessore che tiene il posto di Gesù Cristo, tuttavia il sigillo sacramentale ne assicura l’inviolabilità, se non inganniamo anche il confessore stesso con il circondare le nostre manifestazioni con una certa forma per cui non facciamo comparire netta, chiara la nostra situazione interna. La coscienza, dice il Papa, è ciò che vi è di più profondo e intrinseco nell’uomo, è come il nucleo più intimo e segreto dell’uomo. In essa l’uomo si rifugia con le sue facoltà spirituali in assoluta solitudine, solo con se stesso o meglio, solo con Dio, della cui voce la coscienza risuona. Là l’uomo si determina per il bene o per il male; là egli sceglie per la strada della vittoria o della disfatta. Anche se lo volesse, l’uomo non riuscirebbe mai a togliersi di dosso la coscienza. Con essa, o che approvi o che disapprovi la nostra vita, si percorre tutto il cammino della vita ed ugualmente con essa, testimone veritiera ed incorruttibile, ognuno si presenterà al giudizio di Dio.9
Disgraziatamente vi sono molte anime che non sfruttano il tempo in cui si raccolgono in sé e si considerano solo con Dio e riconoscono, da parte loro, tutte le grazie ricevute da Dio e meditano la corrispondenza ricevuta da Dio. Molte esteriorità, fantasia, preoccupazioni di altre cose, ma non si occupano in questo tempo, propriamente di Dio, della sua gloria e della propria santificazione. Si ha così una tecnica della vita religiosa senza troppa umiltà, la quale invece è costituita dallo spirito di fede, dall’amor di Dio, dal desiderio del cielo, dall’impegno
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di ordinare tutto l’interno e tutto l’esterno a Dio. L’esteriorità non è ciò che conta davanti a Dio. Ognuno presenterà al tribunale di Dio tutto quello che ha fatto per amor suo, in spirito di fede, di amore verso di lui, nel desiderio dell’eterna salute, nel desiderio di vedere un giorno Iddio in cielo. Una pietà che è piuttosto esteriore, come vi è un abito esterno che dimostra la nostra consacrazione a Dio, ma l’abito esterno non vuol dire che dinanzi a Dio noi siamo proprio suoi, che in verità lo amiamo, che in verità lo vogliamo servire bene e non abbiamo altre preoccupazioni che Dio e noi stesse.
È una copertura. L’abito e tutta l’organizzazione della vita religiosa, degli orari, delle pratiche di pietà e tutte le occupazioni della giornata sono un po’ come l’abito messo addosso: «Deus intuetur cor: Dio guarda dentro»10. Non fa come gli uomini che vedono una persona vestita da suora e dicono: Questa è una suora, una persona consacrata a Dio. Dio guarda il cuore se è consacrato a lui, se cerca lui solo, se realmente ha l’impegno di ripulirsi da quello che costituisce i difetti e se l’impegno è veramente per le due tendenze, i due amori: l’amor di Dio e l’amor del prossimo. E il nostro premio sarà realmente e solo in quanto abbiamo amato Iddio e il prossimo, perché due sono i comandamenti: l’amore di Dio e l’amore del prossimo; e due sono gli articoli [delle Costituzioni]: l’impegno della preghiera che consiste nell’amore di Dio e l’impegno dell’apostolato che è l’amore del prossimo. Vediamo quindi di entrare realmente nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo.
Adesso bisognerebbe analizzare bene la coscienza. Che cos’è la coscienza? Si può considerare sotto due aspetti. In se stessa la coscienza è quel giudizio pratico che noi facciamo di ogni azione che stiamo per fare o che dobbiamo lasciare. Per esempio: è tempo di andare alla preghiera. Cosa ci dice la coscienza? La coscienza dice: Va’ per tempo alla preghiera. Oppure tu adesso devi usare quel riguardo, in carità, in bontà verso la tua sorella. Oppure la coscienza ci dice il suo giudizio pratico: quello non devi farlo, quella parola non devi dirla, tu non devi fare il tuo volere e cioè tardare negli orari, non devi
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trasgredire quelle che sono le disposizioni che sono state date. La coscienza quindi è quel giudizio che noi emettiamo davanti ad una azione: si deve o non si deve fare un’azione che si sta per compiere. Questa è la coscienza antecedente, quando si è giudicato prima di fare o di omettere una cosa. La coscienza conseguente è come l’esame che facciamo di noi stesse. Oggi ho passato bene la mia giornata? I miei pensieri sono stati giusti? Le mie parole anche? Mi sono comportata bene in questo o in quel caso? E se la coscienza dice sì, ringraziamo il Signore e c’è una certa consolazione, soddisfazione. Se la coscienza dice di no e disapprova quello che abbiamo fatto, quello che abbiamo detto, allora vi è l’esame di coscienza e il pentimento, il dolore dei peccati, la Confessione per rimetterci a posto. Quindi c’è la coscienza che previene le azioni, prima di fare, prima di dire. E c’è la coscienza conseguente che viene dopo. Allora cosa dobbiamo dire? Coscienza è l’applicare i principi all’azione imminente a quello che dovremmo fare lì per lì, hic et nunc: qui e ora.
Vi è un principio. Ho fatto il voto di obbedienza perfetta, la voglio fare perfetta adesso, hanno disposto così, non mi piace e la faccio ugualmente per amor di Dio. Perché chi fa l’obbedienza perfetta ha maggior merito. Oppure la coscienza dice: Carità nei pensieri, nei sentimenti, nelle parole. Adesso sento sentimenti di avversione o di simpatia, ecco non sono da seguirsi. La mia coscienza dice: Questo non piace al Signore, e facendo questo, cioè assecondando la simpatia o l’antipatia non ami veramente il Signore, perché la prova di amare Iddio è precisamente che amiamo bene il prossimo non per motivi naturali, come sarebbe la simpatia, ma per motivo soprannaturale in quanto il prossimo è l’immagine di Dio, ci rappresenta Gesù Cristo.
Quindi lo scopo della coscienza qual è? Coscienza vuol dire: cum scire. Sapere due cose: il principio e l’azione che si sta per fare. Mettiamo il principio generalissimo: il bene da fare, il male da fuggire. Adesso mi trovo davanti a questo fatto: parlare fuori tempo o parlare di cose che non devo. È male da fuggirsi, quindi non lo faccio. Parlare in bene, esortare, incoraggiare, esporre quello che è utile per l’apostolato, per la
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convivenza lieta in comunità: è bene da fare, quindi mi comporterò così. Ecco il giudizio pratico: questo è la coscienza.
Notiamo bene che il merito sta lì, nell’ascoltare il dettame, il giudizio della coscienza. Il brutto invece sta nel non ascoltare il dettame della coscienza, perché una potrebbe fare anche un’opera ottima, ma con fine storto. Per esempio: vado alla Comunione, perché se non andassi mi noterebbero, perderei la stima, chissà cosa sospetterebbero di me. Vedete che far la Comunione è cosa ottima, ma il farla per amor proprio è cosa pessima. Allora non devo farla per questo. E se quella persona farà la Comunione unicamente per essere veduta, che cosa conterà davanti a Dio? Tutto quello che è contro coscienza è contro Dio, è peccato. E se la coscienza mi dice invece che oggi posso mangiare carne, e per disgrazia non mi sono ricordata che è venerdì e ho mangiato carne, ho fatto un’opera buona, ho merito davanti a Dio. Il Signore ci giudica secondo la coscienza, non secondo l’opera esterna che può essere indovinata e può essere sbagliata.
Qualche martire è andato volontariamente a buttarsi sul fuoco durante la persecuzione e qualche vergine ha fatto così per non essere toccata dai carnefici. Ottimo merito. Per sé non si dovrebbe fare, non è vero? Invece è capitato l’opposto. È secondo la coscienza che riceviamo merito o demerito dalle nostre azioni. Dentro c’è un testimonio, una voce che dice: Questo è bene, questo non è bene; questo pensiero piace a Dio, questo non gli piace; questo sentimento è ispirato dall’invidia, questo è ispirato dalla carità; questa parola è secondo il Signore e quest’altra no; questa mia azione, questo mio comportamento piace a Dio. Può essere che qualche volta si sbagli, non importa, purché si operi per Dio, in rettitudine. Invece qualche volta si crede che un’azione sia buona, all’esterno pare buona, magari tutti approvano e dicono bene, e intanto davanti a Dio non c’è nessun merito, anzi forse è un demerito.
È secondo la coscienza che noi dobbiamo operare. Il Papa dice: Ciascuno si presenterà al giudizio di Dio con le opere, le azioni, i pensieri, i sentimenti pensati conforme a coscienza e avrà il merito e il premio secondo che avrà operato con coscienza. S. Paolo dice: «Gloria nostra haec est: testimonium
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nostrae conscientiae»11. E ancora: «Io mi studio di conservare sempre incontaminata la coscienza davanti a Dio e davanti agli uomini»12.
Si operi secondo una buona coscienza. Però bisogna notare che con il nome di coscienza s’intende tante volte il complesso delle disposizioni che abbiamo dentro. A volte non si cerca di conoscere la volontà di Dio e a volte si cerca di capire meglio [quanto è disposto]. Allora noi abbiamo diverse disposizioni interne che ci inducono a giudicare così, a criticare così. Abbiamo un’avversione contro una persona e tutto quello che fa, per noi è antipatico e condannabile. Abbiamo una simpatia verso una persona e quella, facesse anche dei peccati, è tutto ammirabile. È quel complesso di disposizioni interne che ci fa giudicare così.
La persona di coscienza delicata scopre il male dove c’è, anche il male piccolo, e scopre la virtù dove c’è, anche se è piccola. Per la persona di coscienza lassa passa tutto: per tale persona il parlare a vanvera, il giudicare il comportamento di questo o di quello è cosa quasi naturale. Nella coscienza lassa passano tanti pensieri, tanti sentimenti. Coscienze squilibrate! Rompono la pace e non se ne accorgono. Una persona ha detto una parola che turba un momento, una parola un po’ inconsiderata e la persona di coscienza lassa la considera come indegna. Perché una ha fatto una piccola azione che non andava bene, si punta lì sopra e si accusa senza considerare che magari ha fatto dieci, cento azioni buone. Bisogna proprio accusare ingiustamente, perché su cento azioni buone ne ha sbagliata una? Ma siamo retti! Che cosa ci dice la coscienza? Perché quella sa parlare bene, perché ha fatto un’azione buona, perché è complimentosa, perché è graziosa tutto va bene? Vedete? Coscienza lassa!
Coscienza retta! Domandare rettitudine di coscienza, che consiste nel vedere chiaro il principio. Supponiamo: amerai tuo padre e tua madre; nella Congregazione amerai le tue Mae-
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stre. Ecco, dipende da lì, dai principi. Che cosa ha comandato il Papa; che cosa ha detto la Prima Maestra negli avvertimenti che ha messo nella circolare interna, che indirizzo ha dato, che cosa ha consigliato, quale avviso hai sentito nelle conversazioni private, quale avvertimento? Allora si tratta di applicare al caso particolare il principio generale che è il comandamento. L’applicare ai casi particolari dipende tanto dalle disposizioni interne.
Questo chiedere al Signore: la grazia della rettitudine di coscienza. È cosa buona, savia e certamente lo faremo.


[II. Coscienza religiosa]

Imitare S. Paolo e seguirlo nel suo apostolato. S. Paolo è un grande predicatore della coscienza. Non c’è nessuno che abbia spiegato così bene l’obbligo di sentire la coscienza e di fare le cose secondo coscienza.
Quello che è fatto secondo coscienza è sempre buono davanti a Dio, ancorché, per caso, sia sbagliato; e quello che è fatto contro coscienza è sempre male ancorché fosse buono in sé, perché è l’intenzione che dà il valore o il demerito all’azione nostra. Quindi si opera sempre bene quando si opera come dice S. Paolo: «Ex fide» che vuol dire «ex conscientia»; e si fa sempre male quando si opera contro coscienza. Però a volte la coscienza ci dice che una cosa è consigliata, è migliore e se uno trasgredisce un consiglio non pecca. A volte la coscienza dice che è permesso fare quella cosa, ma se uno non vuole assecondare il permesso e non opera secondo coscienza non fa male, perché non siamo obbligati a seguire ciò che è permesso. Siamo obbligati solo quando la coscienza è proibente, oppure è imperante, cioè comandante. Non invece quando si tratta di coscienza dubbiosa o della coscienza la quale dice che una cosa è permessa o è consigliata.
Notare questo: vi possono essere dei casi in cui siamo dubbiosi. Esempio: sono in dubbio se devo o posso fare la Comunione stamattina. Se vi è il dubbio, alla persona non è comandato di farla, ma può dire un Atto di dolore e farla. Il dubbio
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non proibisce la Comunione, tuttavia per prudenza dire l’Atto di dolore e cercare per quanto si può di ottenere il dolore perfetto, che è meglio. In generale quando si segue il consiglio del confessore, si può operare con tranquillità. È sempre però necessario che sia un confessore che conosca bene l’Istituto e i suoi usi.
Da tre o quattro mesi mi occupo di questo: come mescolare la Confessione, cioè le notizie interne del confessionale con le notizie esterne e servirsi senza discriminazione di quello che si sa per Confessione e di quello che si sa per confidenze esterne. In sostanza: non confondere il foro interno con il foro esterno. Il confessore non dovrebbe neppure essere conosciuto; tanto meno confidare le cose dell’Istituto e parlarne fuori del confessionale. Il confessore è come un interprete e un rappresentante di Gesù: quindi la sua posizione è altissima e bisogna rispettarlo. È il diritto canonico che vieta strettamente di entrare nelle cose dell’Istituto, nella disciplina, nella condotta esterna. Sappiamo che è legge della Chiesa e quindi dobbiamo osservarla. Questo è sempre importante, sempre buono e assicura maggior frutto nella Confessione. Operare secondo coscienza.
Il consiglio della Prima Maestra è sempre valido. Vi sono state Superiore generali degli Istituti d’Italia a convegno13 e dopo che si è parlato molto si è detto come conclusione quello che sempre inculca la Prima Maestra: Se dovete trattare qualche cosa di apostolato, le suore siano sempre in due; se invece sono cose di coscienza si vada al confessionale. Questo è molto saggio e si deve praticare costantemente. Una Superiora generale dei più noti e numerosi istituti d’Italia, dopo che io avevo parlato della pietà che le superiore devono avere, ha detto e ha dimostrato questo: Spesso avviene che le nostre suore perdono lo spirito per il confessore. Tutte l’hanno applaudita. Chi presiedeva l’adunanza ha cercato di evitare una discussione, ma poi coloro che rappresentavano la Congregazione dei Religiosi hanno preso un appunto e hanno promesso di dare un’istruzione.
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Forti, unite nello stesso spirito, unite con la Maestra e, attraverso le Maestre, unite con la Prima Maestra, nel vostro spirito paolino che è ottimo. Sempre svelte. Quello di essere svelte nei doveri e applicarsi con tutte le forze al dovere è vero amor di Dio. Sono molti mesi, anzi sono anni che volevo dirvi questo, perché bisogna essere proprio come avete ricevuto con l’educazione, con la formazione. Si va bene solo quando si conserva lo spirito che è stato dato nella casa di formazione. Per questo benedico il Signore che vi ha dato tante grazie. Tuttavia vedete un po’ se la vostra maniera di comportarvi è così.
Il confessore non si deve quasi conoscere all’esterno; non può entrare nelle cose dell’Istituto e tanto meno dobbiamo interessarlo. Perché fare una confessione lunga e manifestare quello che è avvenuto, quello che è stato detto, quello che è capitato dell’uno e dell’altro? Basta dire: io non ho avuto carità. È detto tutto. Io non sono abbastanza osservante, c’è tutto. Perché per manifestarsi, bisogna dire tutte le cose che devono restare tra voi? Finché l’Istituto avrà il grande beneficio di essere unite tra di voi, con la Maestra e attraverso questa direttamente alla Prima Maestra, camminerà sempre bene, altrimenti farete i pasticci, le divisioni. Quando si arriva alle divisioni abbiamo il disordine.
S. Paolo dice: «Non dite io sono di Paolo, io sono d’Apollo, io sono di Pietro»14. Dite tutte: Io sono di Gesù Cristo. Vi siete consacrate a lui e a lui solo. S. Paolo aggiunge: Forse io mi sono lasciato crocifiggere per voi? È Gesù; quindi siete di Gesù e da lui dovete ricevere la grazia. Poi soggiunge in un altro luogo: «Se aveste anche diecimila maestri, uno solo è il vostro padre. Io attraverso il Vangelo vi ho generati»15.
Questo è per formarsi la vera coscienza. Bisogna formarsi una coscienza giusta, che è sempre ordinata al fine. Vi è la coscienza di chi non è cristiano: questa deve essere una coscienza retta. Vi è poi la coscienza del semplice confessore, la coscienza del semplice cristiano, la coscienza del religioso.
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È diversa la coscienza del cristiano da quella del religioso. La coscienza del cristiano è giusta e retta, tale da produrre tanto progresso e tanto merito quando si uniforma al catechismo. Per il cristiano c’è il catechismo completo, se volete, e per chi ha studiato anche l’istruzione religiosa più ampia, le verità da credersi, i comandamenti da seguire, i mezzi di grazia da usare: Messa, sacramenti, preghiera. Quando il cristiano fa questo è a posto.
Però la coscienza di una religiosa va più avanti: non ha solo il catechismo, ma ha le Costituzioni; non ha solo i comandamenti, ma ha anche i Consigli; non ha solo i mezzi di grazia essenziali: Messa, Confessione, Eucaristia, ma ha tutte le preghiere prescritte in Congregazione: meditazioni, esame di coscienza, rosari, Visita al SS. Sacramento, preghiere del mattino e della sera.
La coscienza di una religiosa, quando è buona regola per operare? Ho detto quando oltre i comandamenti si bada anche ai consigli evangelici, quindi non solo a tutti i principi contenuti nel catechismo, ma anche al voto di obbedienza, di castità, alla vita comune e, per voi, all’apostolato. La coscienza della religiosa oltre al catechismo deve uniformarsi alle Costituzioni.
Che cosa c’è nelle Costituzioni? C’è che cosa è vietato e che cosa è comandato, ci sono gli usi della Congregazione. Gli usi introdotti da principio si devono conservare. Per esempio, la sveltezza in Confessione. Si capisce che una volta negli Esercizi si sta di più; e se ci si vede anche solo ogni tre o quattro mesi, vi sarà qualche cosa da domandare. In generale, però, quanto più si allunga la Confessione, tanto meno c’è di frutto. Pregate di più, mettete più buona volontà nel correggervi; più preghiera per ringraziare il Signore della grande grazia della vocazione, della grande grazia di far parte delle Figlie di San Paolo; più preghiera per domandare la grazia di corrispondere interamente alla vocazione.
Perciò la religiosa veda e abbia coscienza se vive in perfetta povertà, perfetta castità, perfetta obbedienza. Certe simpatie non ci devono stare, certe antipatie non ci possono stare. L’obbedienza va interpretata com’è, con semplicità.
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Poi per la religiosa la coscienza deve portare fedeltà alle pratiche di pietà. Come faccio la meditazione? Come faccio l’esame di coscienza? L’adorazione, la Comunione? Come sento la Messa? Come dico le preghiere? Come sto unita a Gesù durante il giorno? Come richiamo il pensiero della meditazione nella giornata? Quante Comunioni spirituali faccio? Eccetera. Il segno che siamo con Dio è questo: che siamo con i superiori; il segno che non siamo con Dio è che siamo discordi dai superiori. Il segno che il cristiano sta con Dio è: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti»16. E il segno che amiamo Dio è l’amore all’Istituto, alle sorelle, alle anime. Allora la coscienza di una religiosa per essere regola retta, santa, buona di azione considera tutti questi principi: oltre il catechismo, le Costituzioni; oltre i comandamenti, i consigli; oltre la pietà comune, le pratiche [di pietà] proprie della religiosa; oltre a vivere una vita a sé, l’apostolato. E occuparsi di sé, non degli altri. Non è l’esteriorità che conta, è vedere dentro di noi se operiamo secondo coscienza, cioè per amor di Dio. Considerati questi principi, si applicano al caso particolare: adesso mi hanno comandato di far così; questo che mi hanno comandato è buono o indifferente: lo faccio. Ecco la coscienza. Dai principi si tirano le conseguenze e si applicano i principi al particolare.
La cosa principale per gli educatori, la cosa principale per le Maestre che vi formano, l’impegno più grave è di formare delle coscienze rette. Gente che quando ha conosciuto che una cosa è buona, opera; gente che quando ha conosciuto che una cosa è meno bene, non la fa, la evita ad ogni costo. Gente, quindi, che ha personalità, ha carattere: gente che ha davvero volontà di farsi santa.
Tale è l’insegnamento che il Santo Padre impartiva nel 1952 e che è raccolto nella collezione Atti e discorsi. Il Papa porta i testi del Vangelo in cui risulta chiaro che noi dobbiamo operare in ordine al premio. Questo piacerà o non piacerà a Dio? Dio mi darà il premio o il castigo? Questo è un atto di amor di Dio o un atto di amor proprio? Il Papa insiste specialmente di non seguire la moralità nuova, quella che è chiamata moralità
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della contingenza o, meglio, la moralità della situazione17. Questa è una moralità che non è gradita al Signore, eppure oggi [si trova] anche nei libri, e purtroppo nelle condizioni attuali si diffonde un poco nei conventi, negli Istituti religiosi.
Il Papa dice che vi è una nuova corrente di pensiero: la morale nuova, la morale delle circostanze e della situazione, una morale infine che è soggettiva, una morale dell’utile, del comodo, non dell’onesto, una morale di un giudizio singolare, casuale, morale che crea un caos interiore per la coscienza e un caos nella vita sociale. E anche nell’Istituto, se non possiamo fidarci più di nessuno, se quella persona si abitua a dire davanti una cosa e dietro un’altra... Ma la coscienza è una. Gente che opera in un modo quando è veduta e in un altro quando è lontana dalla superiora... Ma la coscienza è una, tanto quando si è veduti come quando non si è veduti. Lo spirito religioso ci insegna a operare sotto l’occhio di Dio e non sotto l’occhio dei superiori: «Non ad oculos servientes»18. Dice S. Paolo nella Lettera ai Romani: «Sed propter conscientiam: non operare per timore, ma per ragione di coscienza»19.
Perché dire male dell’assente? Se quella cosa si poteva dire di quella sorella, si dica anche in presenza, così che possa difendersi. Che cos’è questa viltà che fa condannare chi è assente? Tanto peggio poi se si andasse in confessionale a dire male dell’una e dell’altra. Questa è una cosa insopportabile, è come profanare il sacramento. Ma il sacramento è una cosa seria! Delicatezza! Accusiamo noi stessi; mentre confessiamo il peccato, non aggiungiamone un altro.
Vigilanza e semplicità, sveltezza20, come vi ha insegnato la Prima Maestra. Operare agli occhi di Dio, sapendo che al giudizio tutto sarà esaminato minutamente: come un bicchier d’acqua dato all’assetato avrà il suo premio, così una parola che ferisce una persona, che disgusta, che offende la carità avrà il suo castigo. Quando feriamo la carità allontaniamo le
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grazie e quando invece siamo caritatevoli verso gli altri Dio è buono con noi. Molte preghiere, molte novene non sono esaudite, perché non siamo buoni con gli altri. Ma quando siamo buoni con tutti, il Signore ascolta ed esaudisce le nostre preghiere, e si fa buono con i buoni. Grande bontà! Non è proprio questo che vuol dire: Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori? Il Signore ci perdona in quanto perdoniamo, ed è largo con noi nella misura che noi siamo larghi con gli altri.
Operare dunque secondo coscienza tenendo presente i principi religiosi, le Costituzioni, tutto quello che è di tramandato nella Congregazione.
Gesù vi benedica tanto!
Operare alla presenza di Dio, in buona coscienza. Rettitudine, merito, premio eterno.


[III. Apostolato e mezzi per formarsi una buona coscienza]

L’avere Gesù in casa, lui che è la nostra via, la nostra vita, la nostra luce, spiega il progresso. Questo si nota ogni volta che vengo, e questa volta, essendo già quattro mesi che non ero venuto, il progresso è ancora più sensibile. Progredite! Sempre umiltà, sempre fiducia! Due cose: molta umiltà in ognuna e molta fiducia nel Signore. Umiltà che si risolve nell’espressione: Da me nulla posso, e fiducia che si risolve nell’espressione: con Dio posso tutto. Generalmente si dicono più i fastidi che non le grazie, anche perché noi abbiamo l’abitudine di saper poco ringraziare il Signore, invece raccontiamo di quello che si manca. È più facile lamentarsi con Dio e con gli uomini che non riconoscere le grazie di Dio e i benefici degli uomini. Ma in sostanza il Signore continua ad effondere in questa casa abbondanza di grazia. Che presto si realizzino tutti i disegni che il Signore ha ancora su questa casa! Ci vuole tanta umiltà! Ci vuole tanta fiducia!
Noi non conosciamo tutti i disegni che Dio ha per le singole case. Ma tutto quello che il Signore ha disposto e preparato, non è capitato così a caso, perché c’è stata la tal persona
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che ci ha detto, perché abbiamo avuto l’occasione di fare quel contratto, di ottenere quel beneficio… Noi siamo piccoli esseri nelle mani di Dio. Se siamo docili e umili il Signore ci adopera per le sue meraviglie, le meraviglie della santità e per le meraviglie dell’apostolato. Le meraviglie della santità, cioè l’amore intenso di Dio nell’anima, lo spirito di fede, il vedere tutto in Dio, pensare che tutto è disposto dal Padre celeste in misericordia e in sapienza. Indirizzare tutto al Signore, anche le azioni minime fatte con grande amore. Quanto ci guadagnano in meriti!
Vedete, la SS.ma Vergine faceva delle cose nella sua vita che sembravano minime. Eccola al tempio, una fanciulla come le altre. Eccola poi in casa nella massima semplicità: una casetta povera povera, e lei occupata nel far la cucina, nel procurare le biancherie, gli abiti, nel fare la pulizia, occupata nelle sue pratiche di pietà, che non erano eccezionali, le solite. Una brava donna ebrea di quel tempo! E in che cosa si distingueva quella casa dalle altre se non per la povertà e per l’ordine, per il silenzio e per la pietà che vi regnava? Sì, sia anche questa una casa di santificazione! Semplicità, ognuna: «Attende tibi: bada a te», le tue cose, i tuoi uffici. «Hoc enim faciens, et te ipsum salvum facies, et eos qui te audiunt»21.
Noi non comprendiamo abbastanza quanto bene facciamo attendendo a noi stessi, alle nostre cose! Piccole cose, ma davanti a Dio non c’è né piccolo né grande in sé. C’è il grande amore che guida l’anima che fa le grandi cose, e fa grande lo scopare e fa grande il fare il bucato, il condurre la macchina, il fare altri servizi che sono necessari per la vita quotidiana. Il grande amore fa grande, fa grande tutto! E la mancanza di amore, di retta intenzione, di coscienza in sostanza, rende piccolo e quasi nullo, e qualche volta anche peccato quelle cose che sembrerebbero più grandi davanti agli occhi degli uomini. Riempiono gli occhi degli altri, non è vero?
Oh, quella semplicità, quella piccolezza, quel raccoglimento abituale in Dio, quella intenzione retta: tutto e solo per il Signore! Ma anche le cose più umili e più ordinarie, la stes-
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sa nostra esistenza. Voglio dire anche quello stesso prendere cibo, una medicina e altre cose che sembrerebbero ancora più umili; ma se è fatto in Dio e per Dio, allora tutto è grande. E nulla è grande se non è in questa intenzione d’amore, se non è in questa intenzione che tutto sia per la sua gloria, tutto sia per la nostra santificazione e tutto sia per il paradiso.
Dunque, pensate che in questa casa il Signore vuole delle sante, che su questa casa il Signore ha dei grandi disegni d’amore e di sapienza. Ognuna quindi contribuisca come può, nella sua piccola maniera, ciascuna porti il suo piccolo contributo alla realizzazione di questi disegni di Dio. Il piccolo contributo, il più nascosto, è il lavoro interiore, quando proprio ciascuna lavora per emendarsi e per conquistare sempre più la virtù, la pietà, la fedeltà, l’osservanza delle Costituzioni, la disposizione a fare tutto quello che viene indicato dalla Casa generalizia. Questa è vita interiore, raccolta in Dio, fatta di silenziosità. Anche S. Paolo, dopo aver fatto quei tre o quattro anni di ritiro, di esercizi, di noviziato, con tutto il desiderio e l’ardore che aveva di fare l’apostolato, è andato a Tarso a ricominciare il suo mestiere di prima: fare stuoie. Silenzio! Piacque al Signore quell’umiliazione! E quando venne suo cugino Barnaba a chiamarlo per andare ad Antiochia, si mise all’ultimo posto tra i sacerdoti e fra gli inservienti, diciamo così, i ministri di quella chiesa, tanto che gli Atti degli Apostoli enumerano tutti quelli che stavano in quella chiesa e al fondo della numerazione mettono: «E c’era anche un certo Saulo»22. Si metteva all’ultimo posto con tutta la sua sapienza e il suo ardore che poi ha mostrato nella molteplicità delle sue opere e nell’apostolato così efficace, così fruttuoso. All’ultimo posto!
II primo apostolato è la vita interiore. Poi vi è un altro apostolato: la preghiera sempre, come quello che noi abbiamo nell’orazione Cuore divino di Gesù. Questa preghiera non è solamente pratica di pietà, è unione con Dio, è abituale raccoglimento nella giornata, è un ripetersi di qualche giaculatoria, comunione spirituale. Preghiera!
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E poi l’apostolato del buon esempio. In primavera si cercano volentieri le viole che stanno nascoste nelle siepi e ai margini dei prati. Le viole sono care a Gesù! Gesù per nascere è andato a mettersi in una grotta tra le bestie; poi è stato esiliato e trattato come un esule in terra straniera; infine ha abitato in una borgatina, a Nazaret, lontano dal rumore di tutti. Non pensate che qui ci sia per noi la lezione che dobbiamo essere viole? Certo che il primo sentimento che ci costituisce viole è quello interiore di umiltà: Da me nulla posso, non sono capace a niente. Il Signore è stato misericordioso «erigens pauperem»23 da stare con loro. Potevo essere una contadina, un contadino che magari aveva mille fastidi, occuparmi delle pecore e delle galline. Ognuna di voi deve dire: Il Signore mi ha chiamata qui, mi ha fatta sua sposa, mi ha elevato alla sua intimità e alla sua dignità che è ineffabile.
Le viole dell’esempio buono: semplicità, non fare risaltare niente, fare il bene nascostamente pensando che è meglio che nessuno lo sappia. Poi il Signore quando vuole lo manifesta lui, ed anche quando non avviene nessuna manifestazione esteriore, l’esempio profuma la casa. Quella suora portinaia che profumava la casa con il suo esempio… e quella superiora che era così audace, così prepotente, così autoritaria… Bisogna che noi stiamo nell’umiltà. L’umiltà non consiste nel non disporre, nel non fare il nostro ufficio, no, ma farlo per Dio, solo per il Signore.
Esempio buono e l’apostolato della sofferenza. A ognuno di noi il Signore dà una quantità di sofferenza, quanto è necessaria per la nostra missione. Tu sei chiamata a fare quel determinato ufficio nella Chiesa e devi occupare quel determinato posto in paradiso. Dunque, hai tanto di prove, di tentazioni, di sofferenze fisiche o morali quanto è necessario per compiere proprio quella parte. È considerando il cielo come una grande chiesa, e ognuno nella chiesa, in un tempio, ha una cosetta da fare e rappresenta una piccola parte: ci sarà chi rappresenta la lampada e chi rappresenta le fondazioni, qui è un pezzo di marmo che orna le pareti là invece un banco, e qualche volta sarà
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il pavimento su cui ognuno può camminare e quasi sputare. Nelle mani di Dio ognuno sarà felice se compirà ciò che è nei disegni di Dio. Dire sempre al Signore: Io non voglio rompere i vostri disegni, conducetemi nelle vostre vie, anche quando io sono un po’ ribelle. Quando non mi piace, fatemi piegare in qualche maniera. Tutto quel che volete, tutto solo e sempre per voi, per la vostra gloria e per la santificazione dell’anima mia e per il contributo che io devo portare alle anime con l’apostolato, contributo di bene. Sì, apostolato della sofferenza.
Gesù Cristo non fu esaltato così da stare alla destra del Padre e avere un regno: «Ut omne genu flectatur caelestium, terrestrium et infernorum»24, ma dopo che si è lasciato fare quel che volevano. [Si è lasciato] sputacchiare, schiaffeggiare, flagellare, incoronare di spine, condannare, percuotere, inchiodare, spogliare delle vesti, farne trastullo: «Indovina chi ti ha percosso»25, fino a bendargli gli occhi e schiaffeggiarlo e dire: «Se sei profeta, di’ un po’ chi ti ha schiaffeggiato?». E poi insultato, morire sulla croce. Eppure era il figlio più caro al Padre celeste, quello che egli ha chiamato: «Figlio mio diletto che mi piace»26.
Bisogna che noi facciamo l’apostolato della sofferenza, se abbiamo voglia di lamentarci, non perdiamo il merito! Abbiamo voglia di ribellarci e di prenderla con tristezza, quasi con disgusto, non perdiamo i meriti, siamo furbi, siamo santi! Perché il Signore avendoci chiamato a quel posto determinato in paradiso dà quelle occasioni, quelle prove, permette quelle tentazioni, quelle contraddizioni, quelle incomprensioni tanto quanto è necessario, perché noi andiamo ad occupare quel posto in paradiso. E dà tanta [sofferenza] anche perché evitiamo il purgatorio. Se uno fa proprio questo atto abituale e vive in questa abituale disposizione di abbandono in Dio non farà purgatorio. Apostolato della sofferenza.
E dopo aggiungete tutti gli altri apostolati. Avanti con l’apostolato del cinema! Non metterlo in secondo piano! Sta
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accanto all’apostolato della stampa, nel medesimo piano, notando però che quello della stampa oggi è diventato più facile più che nel 1914 e quello del cinema è diventato più difficile, perché siamo agli inizi. Poiché fare l’apostolato della stampa oggi è come camminare su una strada asfaltata, e invece fare l’apostolato del cinema oggi è come farci la strada attraverso una boscaglia e poi camminare su quella strada fatta con il sacrificio, con il lavoro. Certamente vi sarebbero tante cose da dire, ma io vi dico: Andate a dirle tutte a Gesù che sta nel tabernacolo, che sta qui in casa. I vostri fastidi prima devono finire in quella cappella che speriamo venga più grande in modo che possiate starci tutte e parlargli con confidenza. Così mi ha detto la Prima Maestra. Parlargli con confidenza tutte e qualche volta anche se avete da lamentarvi, lamentatevi e poi fate le confidenze, dite sempre: Vedi come sono povera, debole, fragile. Tu, o Signore, riempi tutti i miei vuoti. Noi facciamo tanti buchi con i nostri peccati, con i nostri difetti: un buco qui, un buco là. Gesù con la sua passione e morte, se abbiamo fiducia in lui, riempirà i buchi, ci metterà i meriti della sua passione e morte.
Fiducia, fiducia! E non pensare tanto a progetti umani, quanto pensare a parlarne con Gesù. Lui sarà la verità cioè la luce che vi guida, e sarà la via santa per cui in questo apostolato vi farete sante, e sarà la vita in quanto darà frutto alle vostre opere. Sia frutto di merito per noi, e sia frutto di apostolato per le anime. Sì, camminare in questa serenità tranquille, pacifiche.
Adesso ho perso il tempo della meditazione in questa riflessione in cui volevo solamente dire due parole. Per fermarmi ancora sulla formazione della coscienza, allora solo due avvisi. I mezzi per formarsi una coscienza retta sono tanti, ma ne indichiamo specialmente due: la devozione a Maria e la meditazione dei Novissimi. Perché la devozione a Maria? Perché la devozione a Maria porta a una delicatezza di coscienza per cui si temono anche i più piccoli difetti e si amano e si esercitano le piccole virtù. Ecco che la persona ogni giorno si purifica dai difetti un po’ di più e conquista un po’ di virtù, di amore di Dio, di spirito di fede e in sostanza di spiritualità paolina.
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Acquista un po’ di più! Le giornate sono fatte di minuti e la vita è fatta di minuti, e noi alla fine quanto abbiamo guadagnato? Quanto abbiamo santificato i minuti? Come una tela lunga lunga se è fatta con fili d’oro è una tela d’oro e se fatta con fili di cotone è una tela fatta di cotone. E invece quante vite non hanno raggiunto il fine, non hanno realizzato i disegni che il Signore aveva sopra quei determinati individui, su quelle determinate persone. Vi sono anche quelle che intessono una vita fatta di fili d’oro. Ce la facciamo noi la vita! Gesù giudicherà, ma egli è obbligato a dire: «Serve bone o serve nequam»27. Siamo noi che lo obblighiamo, perché se gli portiamo ortiche sono ortiche e se portiamo oro è oro, e deve dire la verità. Siamo noi la nostra salvezza, la nostra santificazione, e i minuti sono i fili.
Ora Maria ci dà la grazia di questa delicatezza di coscienza. Maria prima di tutto ci ha lasciato esempi di una santissima vita, poi dal cielo è tutta premurosa per ciascuna delle sue figlie, dei suoi figli, e interviene, aiuta, ispira, dà grazia. Sapessimo quanto in cielo questa madre si occupa di noi! E perciò la persona devota di Maria sia nella contemplazione delle sue virtù, dei suoi esempi, sia nella fiducia nel pregare questa madre, otterrà delicatezza di coscienza per cui si eleva subito. Questo non piace a Gesù, e non fa tanta distinzione… Questo è appena consigliato e non è un comando… Piace al Signore e non discute, piace e lo fa. Come Maria che era sempre a disposizione: «Fiat mihi secundum verbum tuum»28.
Poi bisogna meditare molto i Novissimi, le verità grandi che sono comprese nel Credo. Quanto tempo bisogna meditare i novissimi nell’anno? Vedete: circa un terzo dell’anno. L’apparecchio alla morte29 è il libro, diciamo è il re dei libri, quanto alla spiritualità per la formazione della coscienza e per intendere bene il fine per cui si è creati e come dobbiamo disporci per avere una buona fine. Ho fatto due anni di scuola
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in filosofia, poi sei in teologia, sono otto. Per otto anni abbiamo meditato da ottobre a tutto febbraio i Novissimi. Sempre e sempre tutti gli anni così, e poi si cominciava a meditare la vita di Gesù, quindi verso maggio e giugno i mezzi della grazia, specialmente l’Eucaristia, la Confessione, la devozione allo Spirito Santo e tutto quel complesso di opere di pietà. Allora non era ancora molto sviluppata la liturgia. Non stanchiamoci di meditare sui Novissimi.
Adesso c’è rispetto umano a meditare i Novissimi. Dicono che sono cose da vecchi e non è più moderna la meditazione lì sopra. Mi pare però che la morte sia sempre moderna. Opera ogni giorno! E il paradiso è sempre moderno e l’inferno sempre moderno! Non lasciamoci prendere da questo andazzo. Leggevo proprio ieri che negli stessi trattati di predicazione, nei libri scritti per la predicazione e poi negli stessi libri di religione per le scuole medie, queste verità si dicono ancora, perché non si può tacere, sono patrimonio del cristiano, ma se ne dà uno sguardo fuggitivo, quasi si ha paura di dire. Si vorrebbe dire e presentare la morte in maniera che non faccia spavento, e l’inferno invece fa spavento: Descendamus in infernum viventes, ne descendamus morientes30, è diventata la malattia da venti anni a questa parte. Tutte cose di spiritualità aerea: formare il carattere, formare la personalità, vantaggio per la vita presente, sarai stimata più gentile, ecc…
Vi sono tante cose buone anche lì, ma il buonissimo è l’eternità del paradiso e pensare perché siamo creati. Non si introduca tra le Figlie di San Paolo questa influenza che sarebbe deleteria. Perché non stampate più L’apparecchio alla morte, è un po’ vecchio adesso, ma i Novissimi sono sempre nuovi, anzi sono ciò che è da venire. Si chiamano Novissimi, perché saranno le ultime cose. Sì, ma si presentano diverse, perchè non facciano tanta paura, e non fanno tanta paura. Ma se facessero delle meditazioni vere sulla morte, le persone si confesserebbero molto meglio! Se facessero le meditazioni sulla
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morte, non ci sarebbero tanti peccati d’impurità. Se facessero delle meditazioni vere sopra l’inferno e sopra il paradiso non ci sarebbe tanto orgoglio. I Novissimi sono un grande mezzo pedagogico e ascetico per formare le anime. Quattro mesi su dodici mesi dell’anno. Naturalmente noi in quei quattro mesi avremo la prima settimana del mese. Quest’anno certamente, negli altri otto mesi, daremo un posto predominante alle meditazioni sulle lettere di S. Paolo, sulla vita di S. Paolo. Siate sempre la consolazione di Gesù, siate sempre la consolazione della Prima Maestra.
Vi ripeto: i disegni che Iddio ha su questa casa non sono tutti realizzati, ma andranno realizzandosi sempre più. Naturalmente potrete disporre di più locali. Venti giorni fa mi sono trovato in una casa delle Figlie e la superiora non finiva di domandarmi: Crede lei che tutti i disegni di Dio su questa nostra casa noi li realizziamo, in sostanza, corrispondiamo bene? Domandate così al Signore: Signore, noi siamo piccole, siamo nulla, operate voi anche quando non sappiamo dove andare. La mamma, perché la bambina era un po’ irrequieta non sapeva dove andare, la prendeva per un braccio e la tirava lì. È qui la strada, e se la teneva vicino. Facciamo così: facciamoci condurre da Dio, dalla Mamma celeste. Però chiedere le grazie per l’apostolato, per quel complesso di difficoltà che importa: per i locali, per la scelta dei libri, per l’efficacia delle pellicole, per la scelta di esse, per il modo di trattarle. E perché non è come per diffondere i libri dove basta il prezzo stampato dietro. Invece l’apostolato del cinema richiede molta conoscenza, molta adattabilità, molta abilità, un complesso di attenzioni per la sua efficacia31.
Lasciamoci condurre da Dio, noi stiamo piccole, piccole: Signore, siamo nelle tue mani. E che cosa vuoi? Sante, sante, in paradiso vicino a lui.
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1 Prediche tenute a Napoli nei giorni 3 e 4 febbraio 1957 in occasione del ritiro mensile. Trascrizione dattiloscritta di cui non è conservato il nastro. Comprende in un solo plico tre meditazioni: due sono dattiloscritte, carta comune, fogli 7+5 (22x31,5); la terza è trascrizione manoscritta su carta comune (fogli 10) e dattiloscritta su carta vergata, fogli 8 (22x28). Una seconda mano ha aggiunto un titolo non molto pertinente “Disposizioni per l’apostolato”. Il titolo generale è aggiunto a mano. Il Diario Sp. in data 3 febbraio annota: “Verso le 10,30 [il Primo Maestro] parte per Napoli, accompagnato da M. Ignazia Balla (1909-2003) e da sr Imelda Bianchi (1923-1987), per andare a predicare il ritiro alle Figlie di San Paolo di quella città. Nel pomeriggio verso le 16,30 inizia il ritiro e detta due meditazioni... Al mattino il Primo Maestro dopo la celebrazione della Messa... detta la meditazione” (p. 1442). In questo caso la seconda meditazione sarebbe stata tenuta il giorno 3 e non il 4 febbraio come è detto nel dattiloscritto. Esiste un dattiloscritto successivo. Contemporaneamente il Primo Maestro ha scritto un articolo sul tema della coscienza dal titolo: “Testimonium conscientiae nostrae”, pubblicato in San Paolo, marzo 1957 e in Regina Apostolorum (RA), 3 (1957) 1-6.

2 Cf Gv 1,12: «A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli

di Dio: a quelli che credono nel suo nome».

3 Cf Mt 5,3.

4 Cf Gv 1,11: «I suoi non l’hanno accolto».

5 Cf Mt 11,25: «… le hai rivelate ai piccoli».

6 Cf Mt 18,3.

7 Cf Rm 1,17: «… per fede».

8 Cf 2Cor 1,12: «… la testimonianza della nostra coscienza».

9 Cf med. 1, nota 2.

10 Cf 1Sam 16,7: «Il Signore vede il cuore».

11 Cf 2Cor 1,12: «Questo è il nostro vanto: la testimonianza della nostra coscienza».

12 Cf At 24,16.

13 Si riferisce al V Consiglio Nazionale delle Madri Generali tenuto a Roma il 16 novembre 1956. La relazione è riportata in FSP56, pp. 360-372.

14 Cf 1Cor 1,12.

15 Cf 1Cor 4,15.

16 Cf Gv 14,15.

17 Cf med. 1, nota 2.

18 Cf Ef 6,6: “Non servendo per farvi vedere”.

19 Cf Rm 13,5.

20 Cf Merlo T., Vi porto nel cuore (VPC), Figlie di San Paolo, Roma 1989, n. 132, pp. 253-254.

21 Cf 1Tm 4,16: «… così facendo, salverai te stesso e quelli che ti ascoltano».

22 Cf At 13,1.

23 Cf Sal 113,7: «… rialza il povero».

24 Cf Fil 2,10: «Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra».

25 Cf Mt 26,68.

26 Cf Mt 17,5.

27 Cf Mt 25,23.26: «Servo buono… servo malvagio».

28 Cf Lc 1,38: «…avvenga per me secondo la tua parola».

29 Cf Alfonso M. de’ Liguori, Apparecchio alla morte, San Paolo, Cinisello Balsamo 2011, 15a ed. Alfonso M. de’ Liguori (1696-1787), scrittore di teologia morale e spirituale, Dottore della Chiesa, fondatore dei Padri Redentoristi.

30 «Scendiamo all’inferno da vivi, per non scendervi dopo la morte». Frase attribuita a S. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), molto utilizzata nella predicazione del tempo.

31 Nel testo le curatrici hanno sentito il dovere di interpretare le parole di Don Alberione. Riportiamo l’originale: “Però le grazie per l’apostolato, per i locali, per la scelta dei libri, per l’efficacia delle pellicole, la scelta di esse, il modo di trattarle e quel complesso di difficoltà che importa perché non è dire che stampato di dietro il prezzo di un libro e si da su questo ma l’apostolato del cinema richiede molta conoscenza, molta adattabilità, molta abilità, un complesso di efficacia”.