Roma, 22-23 giugno 1959
I
AMORE ALLA CONGREGAZIONE1
Questi sono giorni di riflessione, meditazione, poi di esame, di propositi e soprattutto giorni di preghiera. Prepararsi alla professione, rinnovare la professione, perseverare nella vocazione, ecco le grazie da chiedere con fede, con umiltà, con diffidenza di noi, ma confidenza assoluta in Dio: «Qui contra spem in spem credidit». Quando vi è l’approvazione del confessore, quando vi è l’ammissione da parte delle superiore, anche se ci sono difficoltà interiori oppure difficoltà esteriori:«Qui contra spem in spem credidit... et reputatum est illi ad justitiam»2. Sperare contro le speranze umane, cioè anche se uno si sente debole, anche se vi sono difficoltà esteriori, confidare in Dio.
La voce di Dio si è manifestata, e allora si sa con certezza che quando Dio vuole dà la grazia di corrispondere, la grazia di perfezionarsi nella corrispondenza e la grazia di chiudere la vita nella grazia di Dio per andare al cielo dove la Congregazione continua. La morte allora non sarà un tramonto, è un’alba. È sì il tramonto della vita attuale, misera, povera, incerta, mortale, ma è l’alba della vita eterna felice, dove nessun merito verrà dimenticato, nessun pensiero buono, anche soltanto concepito nell’interno, nessun desiderio buono sarà dimenticato. Tutto avrà il suo premio. Fede nell’aiuto di Dio, fede nella ricompensa eterna.
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Questa mattina volevo far riflettere sopra un punto importante. Per abbracciare la vocazione occorre amare l’Istituto, per perseverare nella vocazione occorre sempre l’amore all’Istituto e per chiudere la vita nella Congregazione occorre ancora l’amore all’Istituto. Che cosa significa l’amore all’Istituto? L’amore all’Istituto significa veramente quello che si può dire il punto essenziale, un essenziale della vocazione. Per abbracciare la vita religiosa, specialmente la vita paolina, si richiedono varie condizioni, varie qualità. Si richiede intelligenza, buon carattere, salute, si richiede volontà di lavorare nella vigna di Dio, lavorare nell’apostolato, ecc.
Ma il punto essenziale è l’amore all’Istituto. Pensare che questa vita piace, questa è la vocazione, gli altri sono requisiti necessari, questo è il requisito, cioè la sostanza, il costitutivo della vocazione: l’amore all’Istituto. Il che significa subito, che quando non si ha amore all’Istituto non c’è la vocazione. Quando cessa l’amore all’Istituto cessa la vocazione. Cioè si perde, si hanno subito i segni di chi va degradando verso la perdita della vocazione. Amore all’Istituto si esprime nel desiderio, nella compiacenza di tutto quello che c’è da fare nell’Istituto e di quello che è l’Istituto: le Costituzioni lette, rilette, meditate, l’organizzazione dell’Istituto, le sue opere, la guida cioè la direzione dell’Istituto, le sorelle, lo spirito paolino, particolarmente le tre devozioni a Gesù Maestro, alla Regina degli Apostoli, a S. Paolo.
Poi la dedizione volonterosa alla redazione, alla parte intellettuale o alla parte tecnica o alla parte di propaganda. Volonterosa dedizione, che piaccia questo, perché se una cosa non piace, una non è chiamata a farla e per quanto si sforzi non porterebbe quel frutto che deve portare. Ognuna ha da esaminarsi quindi, se nel suo animo c’è veramente questo amore, e se questo amore è conservato e cresciuto nella vocazione con il passare degli anni. È necessario questo? Certamente è necessario. Primo, perché è costitutivo. Che cosa significa costitutivo? Costitutivo significa che questo costituisce la vocazione, cioè: l’anima della vocazione è l’amore all’Istituto. E se non c’è questo amore che costituisce, non c’è la casa e non ci si può abitare.
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È necessario questo amore? È necessario, perché è il segno della volontà di Dio, il segno che il Signore ci vuole lì. Ora, nella vita se ognuna non segue la strada segnatale da Dio è sempre contro la volontà di Dio. Farà anche delle opere buone, ma non sono quelle che vuole il Signore, non sono quelle che il Signore premierà. D’altra parte oltre a non essere nella volontà di Dio, non si avranno gli aiuti, le grazie per compiere quello che vuole il Signore, per rimanere in quella vocazione e compiere le opere che sono da compiersi nell’Istituto. Perciò è necessaria questa tendenza, questo desiderio, è necessario questo amore alla Congregazione, all’Istituto.
Ognuna all’Istituto potrà portare quello che ha. Vi saranno persone che entreranno nell’Istituto con una bella dote, e vi saranno persone che entreranno nell’Istituto con delle belle doti e cioè intelligenza, salute distinta, capacità, spirito di intraprendenza, volontà energica, ecc. Vi sono persone che porteranno, invece, contributi minori, doni minori, non vi sarà la capacità di studiare e cioè di compiere certi studi, ma vi sarà la capacità di fare la propaganda, vi sarà la capacità di prendere uno degli uffici che ci sono in Congregazione, che possono essere anche gli uffici più umili, e dove è ancor più facile farsi santi. Si porta all’Istituto, si dà all’Istituto quello che si ha allora. Ognuno, amando l’Istituto, si dà all’Istituto. Se invece non si ama l’Istituto, lo si giudica, lo si critica, o nelle disposizioni e nelle persone che lo costituiscono, che compongono l’Istituto oppure in quello che è lo spirito stesso, con tendenze ad altre spiritualità. Quindi, è uscire realmente, diciamo spiritualmente dall’Istituto, pur rimanendoci corporalmente, fisicamente.
Ora che cosa bisogna dire riguardo all’acquisto e soprattutto alla conservazione di questo amore alla Congregazione. Prima gli impedimenti. Quali sono gli impedimenti? Gli impedimenti possono essere esterni ed interni. Gli interni sono particolarmente l’orgoglio e la tiepidezza. L’orgoglio impedisce l’amor di Dio, perché è tutto un egoismo. Ora la vocazione religiosa invece è proprio amore di Dio intenso e un amore al prossimo intenso per chi fa l’apostolato. L’orgoglio, invece, porta sempre a stimare noi stessi, a volere far valere le nostre ragioni, a dare i nostri giudizi su tutto e su tutti ancorché non si
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sia competenti. L’orgoglio tende a distinguerci cioè ad attirare gli occhi sulla nostra persona. L’orgoglio impedisce l’obbedienza, mette in pericolo la castità, l’orgoglio fa o causa dei buchi nella povertà. Si voleva quel posto… Sembrava di non essere stimati abbastanza… e a volte non ci sono le grazie, non ci sono le capacità.
Volere certe distinzioni è già un segno di non meritarle. Allora bisogna sempre pensare che la stima degli uomini è come l’ombra: se uno corre appresso all’ombra, l’ombra fugge, si allontana, e se invece non si corre dietro all’ombra, ecco che l’ombra si ferma e la stima degli uomini verrà. E se non verrà, verrà la stima di Dio, Dio sarà contento di noi.
L’orgoglio. Questo ufficio sembra meno soddisfacente e quell’ufficio si pretende di farlo in questa o in quella maniera, e si passa allora sopra i diritti e il rispetto che si deve alle sorelle. L’orgoglio è la prima causa della perdita della vocazione. Oh, vorrei.... Alcuni vorrei sono sotto un pretesto spirituale, un pretesto che inganna, una spiritualità nuova, una spiritualità diversa. Disporre così, fare così. È allora che c’è l’inganno. E potrebbero anche esserci dei buoni passi ma fuori strada che non sono quelli che sono segnati da Dio. L’orgoglio!
Poi viene la tiepidezza. La tiepidezza, così si perde l’amore al Signore. Ora se la vocazione è un amore più forte al Signore, un amore di tutta la mente, di tutto il cuore, di tutte le forze, di tutta la volontà, la tiepidezza invece è proprio all’opposto. È freddezza con Dio. Allora la povertà non è amata, la castità non è ben conservata, perché da una parte la povertà non porta al desiderio dei beni spirituali, invece quando c’è l’amore alla povertà si ha desiderio dei beni eterni, dei meriti. Quando c’è la castità, nasce l’amore di Dio, un altro amore, il cuore non è solitario, è unito allo sposo celeste. E quando c’è l’amore di Dio allora si è disposti a compiere la volontà di Dio. Sempre nel sì, sia fatta la volontà del Signore: «Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum»3.
Cominciando relazioni esterne che non sono approvate dalla Congregazione c’è il pericolo di perdere la vocazione e
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l’amore all’Istituto. Vi sono a volte dei pretesti, ma sono pretesti diabolici. Il demonio quando tenta la religiosa non le propone subito qualche cosa di grave, un eccesso di male, ma si insinua gradatamente, e magari fa vedere che questa è un’opera buona che si deve fare, che quello è osservare il galateo, è trattare bene. Il cuore in casa! Ma non voglio dire: il cuore alle persone della casa in maniera umana. Il cuore in casa vuol dire nel tabernacolo, è lì il centro della casa in ogni casa, lì Gesù. Offerto il cuore, conservato il cuore a Gesù per mezzo di Maria e per mezzo di S. Paolo. Badare alle relazioni.
Terzo ostacolo all’amore all’Istituto, sono le critiche, i giudizi contrari. A fare le case lavorano i muratori e a distruggere le case invece possono lavorare tutti, anche quelli che non sono muratori. E parlando spiritualmente: a costituire l’Istituto, e cioè a portare le aspiranti alla professione, prima temporanea poi perpetua, a portare le aspiranti all’amore all’apostolato vi sono le persone destinate, vi sono le Maestre delle aspiranti, vi sono le Maestre dei noviziati, vi sono tutte le persone che in casa hanno l’ufficio di insegnare, di guidare, particolarmente coloro che attendono al ministero spirituale, i sacerdoti. Ma a distruggere tutte possono lavorare. Pochi a costruire, mentre possono essere molti quelli che distruggono la casa, cioè con le critiche, le disapprovazioni, le lamentele, osservando quello che fanno le altre senza guardare sé medesimi, stare a giudicare e non giudicare sé stessi, conoscere gli altri e non conoscere sé medesimi. Il cuore allora è vuoto, la persona si svuota spiritualmente, ancorché da principio avesse un certo fervore.
Un altro punto: come conservare l’amore all’Istituto? L’amore all’Istituto si conserva e si accresce chiedendolo ogni giorno al Signore con la preghiera. Vedete, è certo, certissimo, anche dalla teologia, che senza il dono di Dio non c’è perseveranza. Se ci fosse anche un gran santo, un santo come S. Luigi4 supponiamo, se cessa di domandare la grazia di perseverare fino alla fine, perde. Non è sicuro del cielo e non è si-
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curo di morire nella sua vocazione. Il dono della perseveranza non è promesso quando si fa la professione. Il dono della perseveranza si merita chiedendolo ogni giorno. Tutte le mattine fare le pratiche di pietà in umiltà: Signore, da me nulla posso, con voi posso tutto. È tutto lì. E allora supplicare il Signore che non solo conservi a noi la grazia, ma l’accresca e accresca quindi sempre più l’amore all’Istituto in cui si cammina secondo la volontà di Dio.
Alla fine, presentandosi al Signore, la conclusione sarà: Ho sempre fatto la vostra volontà. E che cosa risponderà il Signore? È l’ultima volontà che adesso ti viene comunicata: «Entra nel gaudio del tuo Signore»5, in cielo. L’ultima volontà di Dio: il premio eterno. Ma se si smette di domandare la perseveranza si può finire a casa del diavolo, nell’abisso. Non basta essere intelligenti, non basta godere la stima delle sorelle, non basta avere l’ufficio distinto, non può bastare il desiderio, ci vuole proprio la preghiera, la grazia di Dio. La perseveranza è un dono di Dio.
Ricordo bene, quando ero chierico ho sentito una predica che ci è stata fatta sulla perseveranza. Il predicatore diceva: A chi comincia si promette il premio, ma lo si dà a chi persevera. E proprio colui che ci ha fatto la predica, di lì a tre mesi ha lasciato la sua vocazione. Perché? Avrà detto bene, predicando, che ci vuole la perseveranza, ma ognuno deve chiederla. E non si pensi che uno possa dire: Ho trentacinque anni, ho quaranta anni, ho sessanta anni. Il diavolo ci accompagna fino al punto di morte, sul letto o tentandoci di disperazione o di presunzione, magari di impazienza o con altre tentazioni. Quindi, sempre chiedere la grazia di perseverare. Signore, che io non commetta mai peccato. Signore, aumenta in me la grazia. Signore, aumenta in me lo spirito paolino.
Bisogna dire, poi, che per essere sicuri della perseveranza ci vuole il progresso. Chi va avanti, non va indietro, chiaro. Se uno va avanti nel santificarsi: più umiltà, più fervore, più fede, più carità, più zelo nell’apostolato, è chiaro che va avanti, non va indietro, cioè non perde l’amore all’Istituto, al suo apostola-
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to, non perde l’amore a Dio, anzi va crescendo. Bisogna andare avanti. Chi non va avanti, va indietro. Ognuna negli Esercizi deve fare l’esame: Ho progredito quest’anno? Se non ho progredito, sono certamente andato indietro, perché mi sono reso colpevole davanti a Dio della incorrispondenza alle grazie che quest’anno ho ricevuto. E allora? Allora detestare questa incorrispondenza e promettere, impegnarsi: Non progredi est regredi6. Poi: «Chi mette mano all’aratro e volge l’occhio indietro non è degno del regno dei cieli»7. Ma si salverà chi ha volto l’occhio indietro? Può essere che un giorno si penta, ma intanto se ha perduto un complesso di tante grazie, quante ne avrà ancora da ricevere? E sarà già fortunato se avrà due occhi per piangere la sua disgrazia e ottenere così la misericordia di Dio.
Quindi, dobbiamo chiedere ogni giorno l’amore alla Congregazione e tenere come nemici della Congregazione, chi esce in mormorazione e fuggirla. S. Giovanni dice in una delle sue lettere: «Nec ave ei dixeritis»8. A certuni che non hanno fede,S. Giovanni dice pure: «Non rispondete neppure al saluto».
Ora invece, nella Famiglia delle Figlie di San Paolo, in generale, c’è un grande amore all’Istituto. Un grande amore e anche un entusiasmo pio, costante. Questo indica che l’Istituto progredisce, e anche qualcuna che non avrebbe voglia di progredire è un po’ trascinata dalla corrente. Costituiamo la corrente, una corrente forte di quelli che camminano avanti nella strada di Dio, nello spirito della propria vocazione.
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1 Meditazione tenuta a Roma il 22 giugno 1959 durante il corso di Esercizi spirituali alle novizie che si preparano alla professione e alle suore professe temporanee che rinnovano i voti. Trascrizione da nastro: A6/an 66a = ac 113a. Stampata in un trentaduesimo con altre meditazioni del medesimo corso di Esercizi e una meditazione del 31 luglio 1959.
2 Cf Rm 4,18.22: «Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza… gli fu accreditato come giustizia».
3 Cf Lc 1,38: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».
4 Luigi Gonzaga (1568-1591) di Mantova. All’età di 17 anni rinunciò al principato ed entrò nella Compagnia di Gesù dove si distinse per fervore, umiltà e carità. Morì di peste contratta nel servizio ai malati a Roma.
5 Cf Mt 25,23.
6 “Non avanzare è retrocedere” Locuzione latina assunta da molti autori di spiritualità.
7 Cf Lc 9,62.
8 Cf 2Gv 1,10: «…non ricevetelo in casa e non salutatelo».