Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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25.
LA TEMPERANZA

(PB 3, 1939, 322-327)

I.

1. La sapienza divina «insegna la temperanza, la prudenza, la giustizia, la fortezza» (Sp 8,7). Nella presente meditazione mi fermerò sulla temperanza, e la chiederò insistentemente a Dio.
La temperanza è virtù cardinale che modera, secondo ragione, l'appetito di quelle cose che maggiormente attirano l'uomo, specialmente nel diletto del gusto e del tatto; la virtù rattiene questo diletto nell'ambito della ragione e del fine. Pertanto questa virtù si può generalmente considerare come la moderatrice dei desideri, e si estende a tutte le parti della vita umana, ed in qualche modo entra in tutte le altre virtù. Siccome il diletto ci attira facilmente, e la carne ha sempre tendenze contrarie allo spirito, questa virtù inclina l'uomo al rinnegamento di se stesso, anche in qualche cosa di lecito. Questa virtù perciò ordina tutto l'uomo, stabilendo il dominio della fede sopra l'umana ragione, ed il dominio della ragione sui sensi. «Ciascuno è tentato, attratto, adescato dalla propria concupiscenza, la quale poi, avendo concepito, partorisce il peccato, e il peccato, consumato che sia, genera la morte» (Gc 1,14s.). «Donde procedono le guerre e le liti tra voi, se non di qui: dalle vostre concupiscenze che battagliano nelle vostre membra?» (Gc 4,1).
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L'oggetto principale della temperanza è dunque la moderazione dei diletti corporali. Essa tempera infatti e modera ciò che si riferisce alla conservazione sia dell'individuo e sia della specie umana, e che proviene dall'uso dei cibi, delle bevande e di tutto il corpo. Questa virtù tende ad un fine nobilissimo, ossia a conservare la dignità dovuta alla natura umana e ad elevare la vita cristiana: «Giacché coloro che vivono secondo la carne, tendono alle cose della carne; coloro che vivono secondo lo spirito, tendono alle cose dello spirito... E quelli che sono carnali non possono piacere a Dio...» (Rm 8, 5-8); «La legge dello spirito di vita in Cristo Gesù mi ha liberato dalla legge del peccato e dalla morte... Se voi mediante lo spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Poiché quanti sono mossi dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio» (Rm 8,2.13s.).
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2. La misura della temperanza secondo la fede e la retta ragione si deduce da due capi: dal bisogno della vita presente, e dall'indifferenza spirituale riguardo all'uso del cibo e del tatto, in modo che l'uomo liberamente elegga ciò che è mirabilmente esposto da S. Ignazio di Loyola nel suo libro degli Esercizi spirituali: «L'uomo fu creato per questo fine: perché loda il Signore Dio suo, lo riverisca, lo serva ed infine si salvi. Le varie cose che sono sulla terra furono create per l'uomo, onde aiutarlo a raggiungere il fine per cui lui stesso venne creato. Di qui ne consegue che di tali cose bisogna usare oppure da esse astenersi in quanto aiutano od impediscono il raggiungimento del fine. Perciò noi dobbiamo, senza alcuna diversità, essere indifferenti verso tutte le cose create, in quanto sono soggette al nostro libero arbitrio e non sono proibite. Così, per quanto è da noi, non dobbiamo cercare più la salute della malattia, le ricchezze più che la povertà, l'onore più che il disprezzo, vita lunga più che vita breve, ma soltanto dobbiamo tra le opposte cose scegliere quelle che ci conducono al fine, e queste sole desiderare». S. Ignazio, nelle addizioni, al numero dieci, ammonisce che ognuno si imponga qualche penitenza, anche esterna: «In primo luogo riguardo al vitto: si sottragga qualche cosa non solo del superfluo (il che sarebbe temperanza e non penitenza), ma anche dei necessari alimenti. Più si sottrae, tanto meglio; avuto però riguardo sia a non guastare il fisico, e sia alla debolezza ed alla malattia. In secondo luogo, riguardo al sonno ed al modo del riposo, sottraendo non soltanto le cose soffici e comode, ma anche quelle necessarie, in quanto si può fare senza grave pericolo per la vita o per la sanità. Nessuno deve privarsi del sonno necessario, se non per un po' di tempo soltanto, affine di moderare l'abuso che si può aver fatto del sonno».
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3. La misura della temperanza deve anche dedursi dalle necessità della vita presente. Questo è ben espresso da S. Agostino con le seguenti parole: «L'uomo temperante ha una regola nelle cose di questa vita,... affinché di esse niente ami, niente ritenga per sé appetibile, ma solo in ordine alle necessità della vita e dei doveri, ne usi quanto basti, con la moderazione di chi usa, non con l'attaccamento di chi ama» (De Mor. Eccl., c. 21). Sotto il nome di necessità tuttavia deve anche intendersi l'utilità o la convenienza, secondo le condizioni della persona, del suo stato di vita, ecc. «O mangiate adunque o beviate, o facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto a gloria di Dio» (1Cr 10,31). «Ma egli [Gesù] rispose: Io mi nutro d'un cibo che voi non conoscete. Si domandavano adunque fra di loro i discepoli: Forse qualcuno gli ha portato da mangiare? Gesù si spiegò, dicendo: Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato, e portare a compimento l'opera sua» (Gv 4,32-34).
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II.

1. Parti della temperanza sono la castità e la sobrietà. La castità regola i movimenti della concupiscenza della carne. È virtù angelica che rende gli uomini simili agli angeli; è virtù austera che richiede la mortificazione del corpo e dei sensi; è virtù fragile, perché facilmente si offusca; è virtù difficile perché si esercita con la continua lotta della vita militante.
La castità ha quattro gradi. Il primo consiste nel combattere e nel negare il consenso a tutti i pensieri, le fantasie, le sensualità ed azioni cattive in relazione a questa virtù. Il secondo consiste nella pronta ed energica ripulsione di ogni pensiero, fantasia, impressione che possano oscurare lo splendore di questa virtù. Il terzo grado, che si acquista dopo diuturna lotta ed ardente esercizio di amor di Dio, consiste nel pieno dominio della nostra parte inferiore; in modo che se qualche volta occorre di dover trattare per ufficio le questioni riguardanti la castità, lo si possa fare con indifferenza, come si trattasse di qualsiasi altro argomento. Il quarto grado consiste nel privilegio gratuitamente ricevuto, di non sentire più né i moti della concupiscenza, né i moti contro la virtù della castità come si narra essere avvenuto per S. Tommaso d'Aquino.
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La continenza è dovere ed ufficio perpetuo di quelli che si sono offerti a Dio nello stato religioso o sacerdotale. «Oh quanto è grande ed onorevole l'ufficio dei Sacerdoti!... Oh quanto monde esser debbono quelle mani; quanto pura la bocca; quanto santo il corpo; quanto immacolato il cuore del Sacerdote ! ... Gli occhi suoi... debbono essere semplici e pudichi. Le mani che trattano il Creatore del cielo e della terra, hanno da essere pure e levate verso il cielo» (Della Imitazione di Cristo, lib. 4, c. 11,6s.). Cristo fu vergine, Maria SS. fu vergine e consacrarono così per i due sessi l'esempio della verginità. «Gli apostoli o erano vergini, o dopo le nozze vissero in continenza» (S. Girolamo).
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2. La virtù della castità si custodisce con diversi mezzi, a tutti necessari, ma specialmente al Sacerdote: a) Fuga delle occasioni e delle cause del vizio, ossia evitare l'ozio, le letture di libri osceni e dei romanzi, evitare la familiarità con le donne; b) La continua orazione: «Questa razza di demoni non si scaccia che per mezzo della preghiera e del digiuno» (Mt 17,21); c) La frequente confessione, e presso il medesimo confessore, che così può conoscere meglio lo stato del penitente, e suggerire rimedi più efficaci. Similmente la frequente e devota sunzione della santissima eucaristia, con la quale si mangia il pane degli angeli, e si beve il vino che fa germinare la verginità; d) Il pensiero dei novissimi; e) La devozione costante e l'invocazione frequente della beata Vergine Maria; f) La custodia dei sensi, specialmente degli occhi: «I vostri occhi, anche quando guardano, non fissino nessuno» (S. Agostino, Epistola 19); g) La mortificazione della carne: la libidine si pasce nei banchetti, si nutre nelle delizie, si accende col vino, ed arde con l'ubriachezza.
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3. La sobrietà è il moderato uso del cibo e della bevanda, presi non per la sola voluttà, ma per sostentare il corpo. Si può mancare alla sobrietà in cinque maniere: mangiando prima del tempo; mangiando cibi troppo squisiti; mangiando più del necessario; mangiando con voracità, mangiando cibi troppo elegantemente conditi. La malizia del vizio della gola consiste nel sottoporre l'anima al corpo; nell'abbassare la vita intellettuale e morale; ciò dispone l'uomo a cose più gravi. Si dice ordinariamente: frena la gola e facilmente frenerai tutte le altre inclinazioni carnali. Perciò S. Gregorio, descrivendo la malizia e le conseguenze della gola, dice: «Dalla gola proviene l'ottusità della mente, la smoderata letizia, i discorsi sciocchi, la buffoneria, l'incontinenza, secondo quel detto dell'Apostolo: Non v'inebriate di vino, che è causa di dissolutezza» (Ef 5,18) (Moral. l. 31, c. 45, n. 88).
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Ordinariamente la mancanza di sobrietà costituisce solo colpa veniale, perché ciò che il più delle volte offende questa virtù non ripugna direttamente alla carità verso Dio e verso il prossimo. Qualche volta si può raggiungere la colpa grave, se per la gola qualcuno viola i digiuni prescritti dalla Chiesa, o si rende notevolmente inadatto a compiere quei doveri ai quali è tenuto sotto colpa grave, o se si danneggia gravemente la salute, o se uno beve fino alla completa ebrietà.
La sobrietà è quella virtù conforme alla quale l'uomo prende cibo e bevanda per mantenersi nel dovuto servizio di Dio. Questa virtù concorre grandemente alla perfezione dell'anima: «L'uomo animale non accoglie le cose dello Spirito di Dio» (1Cr 2,14). I rimedi della gola sono compresi nella raccomandazione di S. Paolo: «O mangiate adunque o beviate,... fate tutto a gloria di Dio» (1Cr 10,31).
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L'uomo che ha la sobrietà prende il cibo lodando Dio; in spirito di umiltà, poiché siamo soggetti alle cose materiali; ed in spirito di amore verso quel Dio, che nutre i figli suoi, fino a che li introduca alla cena della vita eterna. La sobrietà ci insegna ad astenerci, in ogni refezione, da qualche cibo, o da una parte di un cibo che ci piace molto. Chi è tentato di gola, ricorra a questi rimedi: a) evitare di stuzzicare la gola, e non frequentare i golosi; b) abituarsi ai cibi comuni, digiunare qualche volta, od almeno sottrarre dalla tavola qualche cibo voluttuario; c) meditare l'esempio di Cristo assetato sulla croce, e la miseria che porta con sé la ghiottoneria; d) pregare Dio prima di prendere cibo.
Impara perciò, o uomo, quello che S. Paolo insegna con queste parole: «Se dunque siete risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù,... aspirate alle cose di lassù, non alle cose terrene» (Cl 3, 1s.). Ogni giorno a Completorio, ciascun Sacerdote presta attenzione al monito di S. Pietro: «Siate sobrii e vegliate» (1Pt 5,8).
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III.

1. La temperanza si riduce principalmente a due specie, ossia all'astinenza ed alla sobrietà riguardo ai diletti del gusto, ed alla castità e pudicizia, come si legge anche in S. Tommaso (cf Summa, 2.a 2.ae, q. 141, a. 4). Ma la temperanza è adorna da un seguito di altre virtù, che la imitano nelle cose più facili, per cui la moderazione di ogni moto disordinato è parte potenziale della temperanza. Sette sono queste altre virtù: la continenza, la mansuetudine, la clemenza, l'umiltà, la modestia, la studiosità e la giocondità. Queste virtù, con la sobrietà e la castità, stabiliscono il dominio dell'uomo su se stesso.
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2. a) La continenza. - Contenersi equivale a mantenersi in ciò che è secondo la retta ragione (cf S. Tommaso, Summa, 2.a 2.ae, q. 155, a. 1). Per la continenza l'uomo resiste ai moti della concupiscenza. L'uomo che ha questa virtù raffrena le ribelli concupiscenze, in modo che la parte superiore dell'anima non sia vinta. La continenza è un gradino che conduce alla temperanza. Qualche volta, con il pretesto di amicizia spirituale, l'uomo passa alle cose carnali, secondo quel detto di sant'Agostino: «L'amore spirituale genera l'amore affettuoso, l'affettuoso l'ossequioso, l'ossequioso il familiare, il familiare il carnale».
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b) La mansuetudine. - «Imparate da me, perché sono dolce ed umile di cuore» (Mt 11,29), dice il Maestro divino. Questa virtù modera e tempera l'ira ed i moti di iracondia, secondo la retta ragione. Così moderato, l'uomo non si adira se non quando, quanto e nel modo conveniente. Questa virtù brillò nel nostro Salvatore, e dona all'animo una certa beatitudine: «Beati i miti, perché erediteranno la terra!» (Mt 5,5). Cf S. Alfonso, Pratica di amar Gesù Cristo, cap. 12, n. 1s.
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c) La clemenza. - Mitiga le pene da infliggersi, per quanto è consentito dalla retta ragione: è la lenità del superiore verso i sudditi. Per questa virtù viene rimessa una parte della pena dovuta, salva sempre la giustizia, la buona disciplina, la salvezza del colpevole e la pubblica edificazione.
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d) L'umiltà. - È virtù soprannaturale, mediante la quale l'uomo, conoscendosi perfettamente, si abbassa davanti a se stesso, dice S. Bernardo (De Grad. hum., c. l, n. 2). Con questa virtù l'uomo tempera il disordinato amore alla gloria umana e ad eccellere. L'umiltà è duplice: l'umiltà di giudizio o di cognizione, con la quale conosciamo che di fronte a Dio siamo nulla; e l'umiltà di affetto ossia di cuore, per cui calpestiamo la gloria del mondo. Su questo punto sentiamo S. Tommaso: «L'umiltà, dice, essenzialmente consiste nell'appetito, secondo cui si raffrena l'impeto dell'animo, affinché non tenda in modo disordinato a cose grandi; affinché cioè uno non si stimi da più di quello che è. Principio e radice di queste due cose è la riverenza che si deve a Dio» (Summa, 2.a 2.ae, q. 161, a. 6). L'umiltà piace sommamente a Dio; è una confessione di verità, che torna massimamente ad onore di Dio. Quanto l'umiltà sia necessaria all'uomo per raggiungere la salvezza eterna, si ricava dalle parole di Cristo Signore, che disse: «Se voi non vi convertite e non diventate come i fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). Perciò S. Agostino: «La prima virtù, disse, è l'umiltà; la seconda è l'umiltà; la terza è l'umiltà; e quante volte mi interrogherai ti risponderò sempre così» (Ep. ad Dioscorum).
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e) La modestia. - È virtù generale per cui uno si mantiene nei limiti convenienti, tanto esternamente che internamente. Dice S. Ambrogio: «Ricca è la modestia, ricca è la modestia presso Dio». La modestia è duplice: la modestia dei movimenti, che compone gli atti del corpo, sia nel parlare come nell'agire; e la modestia del comportamento che regola l'apparato esterno delle vesti, dei banchetti, delle suppellettili, in modo che siano adatte alle condizioni delle persone, al tempo ed al luogo. L'esteriore dell'uomo è indice del suo interiore; la modestia manifesta perciò come sia l'uomo nel suo interno, e chi si diporta bene esternamente dimostra la virtù dell'animo. L'esercizio della modestia molto giova all'acquisto, alla conservazione, e all'aumento delle altre virtù.
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f) La studiosità. - Questa virtù modera la brama di sapere e la preoccupazione di imparare. Ufficio di questa virtù è di frenare la troppa curiosità di conoscere, e di eccitare a diligentemente imparare quelle nozioni convenienti alla condizione ed alla capacità di ognuno; di riferire lo studio e la scienza al debito fine, ossia all'utilità propria ed altrui, ed alla gloria di Dio.
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g) La giocondità. - È virtù moderativa dei sollazzi e divertimenti; regola le parole e le azioni che hanno lo scopo di ricreare. S. Agostino dice: «Voglio infine che tu ti dia sollievo; infatti conviene che il sapiente qualche volta interrompa alquanto le sue occupazioni ordinarie» (De musica, 1. 2, in fine).
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3. A queste virtù si oppongono vizi per difetto e per eccesso. Alla continenza si oppone la lussuria. Alla mansuetudine si oppongono l'iracondia e la troppa indulgenza. La clemenza tiene il mezzo tra la crudeltà e la lenità eccessiva. All'umiltà si oppone la disordinata abbiezione di se stesso... e la superbia della vita. Alla modestia si oppone il lusso eccessivo, e la rusticità che trascura la persona e le vesti. La studiosità è in mezzo fra la curiosità e la negligenza nell'imparare. La giocondità è tra la musoneria e la scurrilità.
«Fornicazione e qualsiasi altra impurità o bassa cupidigia, neppure si nomini tra voi, come si addice a santi; né parole disoneste, e discorsi vani, o facezie grossolane, cose tutte indecenti; ma piuttosto ringraziamenti a Dio» (Ef 5,3s.).
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