Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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31. UMILTÀ E CARITÀ
tratti essenziali della vita fraterna

Esercizi Spirituali, 4° giorno, II Istruzione, Castel Gandolfo, 11 agosto 19601


Va molto bene, come esercizio di lettura e di memoria, leggere pure ad alta voce le Costituzioni. Se si vuole arrivare alla santità, alla perfezione, la via di una suora è unica, cioè osservare perfettamente le Costituzioni, come sono poi spiegate e interpretate.
Continuando l’argomento dell’umiltà e carità assieme, l’articolo 184 dice: «Fra le suore vi sia mutua carità e comprensione, buon esempio vicendevole nella pietà, nella fedele osservanza, nel comune sentire e nel parlare».
Carità vuol dire bontà, e comprensione: capire anche gli altri, supponiamo le pene, i desideri; specialmente il buon esempio vicendevole, il buon esempio vicendevole che si estende dappertutto: nella preghiera, nell’osservanza, nel parlare e nell’operare, nell’apostolato e in tutto... l’esempio di vita buona. Gesù diceva agli apostoli: «Exemplum dedi vobis... - vi ho dato l’esempio, che impariate da me [cf Mt 11,29] -, ut, quemadmodum ego feci [vobis], ita et vos faciatis» [cf Gv 13,15], come avete visto che io facevo, così che facciate ancora voi. L’esempio: qui c’è sempre un bell’esame da fare.
Poi: «Si trattino con rispetto e cordialità»: trattarsi bene. Cordialità, cioè che non ci sia finzione, ma semplicità; e non ci sia affettazione, ma vero amore che nasce dal cuore. «Si
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sopportino nei difetti»: pazienza, bisogna avere, tante volte. E «si perdonino nelle offese»: perché può sempre succedere qualche piccola offesa, anche involontaria, anche involontaria. E una può aver ricevuto uno spintone da un’altra, perché l’altra non ha veduto che c’eri tu che passavi... e ha dato un piccolo spintone, ha versato tutta la minestra sull’abito appena vestito la prima volta, e può essere che [si provi] un risentimento, ma pronta la [parola]: E questo è niente, non ha importanza, e so che forse sono io che non ho preveduto abbastanza di farmi più in là. Così non si fa arrossire la sorella. «Si usino quella carità e delicatezza con cui ognuna vorrebbe venir trattata»: fare agli altri quello che vorremmo essere fatto a noi!
«Vi siano anche i comuni segni esterni di cortesia religiosa»: quindi gli auguri, ad esempio; e «di educazione»: dare il passo, che passi prima, che stia alla destra, posto d’onore, che si metta ognuna al posto che merita; e non può pretendere una di parlare sempre essa, bisogna molto stare a sentire, e quando i discorsi sono o buoni o almeno non cattivi, si può stare a udire, dando segno di compiacenza. «Vi siano anche i comuni segni esterni di cortesia religiosa, di buona educazione e cordialità con tutti, in modo particolare quei segni che convengono alle persone consecrate a Dio»: il saluto [Sia lodato] Gesù Cristo sta tanto bene; non si può far la ricreazione in modo sgarbato... la suora è sempre suora e quindi ha da rispettare il proprio abito e, più di tutto, ha da rispettare il suo corpo, che è tempio dello Spirito Santo; e poi, perché deve rispettare anche le altre, che pure sono tempio dello Spirito Santo. «Le suore però, nel comportamento tra loro e con le superiore, come anche nel trattare con gli esterni, devono essere semplici... - mica tanti complimenti, proteste, anche nelle lettere - semplici, svelte, fattive, evitando i modi artificiosi e cerimoniosi»: quello che è l’etichetta mondana, che è tutta esteriore... mentre che la suora rispetta gli altri perché son tempio dello Spirito Santo, immagine di Dio.
«[185] - Particolare esercizio di carità per le religiose è la convivenza serena, familiare, cordiale, nella vita di comunità»:
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quella convivenza continuata... i musi lunghi non ci devono essere, eh!, ma convivenza serena. Non far la particolare, la singolare negli usi, nel modo di stare a pregare, eccetera... E [una suora] si voleva mostrare mortificata, oppure parlava solamente per usare un modo e una frase mondana: E non ho più fame, eccetera... e non si saziava in sostanza; e poi mangiava da parte, nascosta! E allora non c’è convivenza serena, familiare, cordiale nella vita di comunità.
E «con tutte indistintamente»: non due a due, amiche due a due, ma con tutte indistintamente; «in modo che la vita in comune sia veramente di conforto nelle pene». Prendere anche parte alle pene delle altre, ai dispiaceri, o alle sventure. Prendere parte alle pene incoraggiando nelle difficoltà, e partecipando così alle gioie come ai dolori. Sentire che si è membri di una famiglia che è la famiglia di Dio, e come si sarebbe preso parte alla gioia o al dispiacere di una sorella in famiglia, tanto più in religione.
«Questa convivenza deve portare a vivere l’ammonimento di San Paolo: Portate gli uni i pesi degli altri - sì, ognuna i pesi degli altri: una ha un carattere, l’altra ne ha un altro - e così adempirete la legge di Cristo (Gal 6,2)».
In una comunità c’era un gruppo che avrebbe sempre voluto cantare e in ricreazione e in chiesa sempre: invece di preghiere, canti; in ricreazione c’era solo una saletta e, se un gruppo canta, le altre non possono più chiacchierare, giocare quasi: e bisogna anche lì saper adattarsi alle convenienze sociali, in maniera che tutti si comportino in modo buono. Volevano andare a passeggio e c’era quella che voleva sempre tenere quella strada di là, prendere quella meta di là nel passeggio: e qualche volta cedi anche all’altra! Diceva san Pio X che questa cortesia è una grande carità2: ci guadagna il cuore!
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Il Papa attuale3 raccontava un giorno che, quando era appena fatto sacerdote, c’era la predica da fare - i sacerdoti giovani andavano a sentire la predica - e il predicatore non aveva potuto venire; aveva mandato a dire invece a Roncalli, che era appena sacerdote, di far lui la predica. E come faccio? Non ho mica preparato! E poi ai miei compagni, come faccio a parlare?. Fai così - gli mandò a dire -: apri L’Imitazione e il primo versetto che incontri nel libro aperto, aperto a caso... e leggi e dici due parole lì sopra. E aprì una pagina del libro terzo de L’Imitazione di Cristo: Se volete vivere nella pace, vi sono quattro mezzi, tra cui il primo: inclinate più a fare quel che piace agli altri che quel che piace a voi4. Così, se si sa che un cibo è disgustoso per qualcheduna, si può anche chiedere la mortificazione, ma almeno in certe cose e certe volte bisognerà anche sapere e comprendere i desideri.
«[186] - Pratichino le suore sinceramente il precetto della correzione fraterna, osservando però con sollecitudine l’ordine che la carità esige e che particolarmente conviene a persone religiose». Se c’è solo un difetto che capita rarissimamente, non è il caso di correggere. Se invece è un’abitudine difettosa, è utile dirlo: Questo non va bene... o questo
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andrebbe meglio fatto così... o detto così.... Ma tra te e lei fa’ la correzione: se non ti ascolta, siate in due a correggerla. Io l’ho già corretta, correggila anche tu: e allora si sa solamente da una sorella in più, o da due in più. Ma se poi fosse un difetto grave che danneggia la comunità, bisogna dirlo ai superiori. Quindi si va in ordine, e non subito si porta il difetto alle superiore, eccetto che sia una cosa grave e che spetta proprio... riservata alla superiora intervenire. «Che se in qualche caso5 il bene della sorella e della comunità richiede di riferire alla superiora qualche mancanza, nel fare questo le suore devono essere unicamente mosse6 dalla carità - cioè dalla carità verso la comunità in generale -. Però non devono essere troppo facili a riferire alle superiore i difetti delle sorelle e devono guardarsi da qualunque passione e fine non buono che a questo potesse indurle».
Sì, sempre ricordando il Vangelo: Prima di dire al fratello: hai una pagliuzza nell’occhio, aspetta che te la tolga; prima di far questo, vedi se tu stessa non hai una trave nel tuo occhio, se hai un difettaccio tu. Prima togli la trave dal tuo occhio, poi vieni e dirai al tuo fratello: Permetti? Ti tolgo la pagliuzza che ti impedisce di vedere bene [cf Mt 7,3-5; Lc 6,41-42]. Molte volte sono i più difettosi quei che criticano e mormorano di più degli altri... e tra gli altri difetti hanno anche quello di dir male.
«[187] - Le suore ricordino gli insegnamenti di san Paolo - e questo deve essere come la legge della carità, il codice della carità: dodici li dà... i caratteri della carità bisogna scriverli sopra un cartellone e che si vedano e che si leggano spesso -: La carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non è insolente, non si gonfia, non è ambiziosa, non cerca il proprio interesse, non si irrita, non pensa male, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità; e tutto scusa, e tutto crede, e tutto spera, e tutto sopporta» [1Cor 13,4-7]: sono i caratteri della vera carità fraterna, questi. Si ricordino
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anche le suore «i precetti del Signore: Imparate da me che sono mansueto ed umile di cuore [Mt 11,29] - imparare da Gesù; e l’altro precetto - Mettiti a sedere all’ultimo posto [Lc 14,10] - non pretender sempre le cose più belle, i posti più belli, e gli elogi più belli -, in modo che chi comanda dimostri materna e dolce sollecitudine, e chi è soggetto, filiale docilità, per unire le forze e tutto guidare al bene comune».
Oh! Su questo, della umiltà e carità, si possono fare le meditazioni di un anno, almeno. Quando la comunità è composta nella bontà e nell’umiltà di tutte, è sempre una comunità dove la santificazione è più facile, la vita religiosa è più lieta; si sente di amar Dio, e quindi anche le pene, le fatiche, i disagi, i sacrifici sono sopportati più facilmente. Sì.
Quanto era mansueto il Salvatore! Quanto era mite! Schiaffeggiato durante la passione, non si lagnò. Flagellato! Poteva fare quel che voleva, lui, fermare le mani di tutti, e farle, quelle mani, diventar rigide... ma si lasciò trattare come il più vile malfattore: lo hanno portato da Pilato, lo hanno condotto da Erode, lo han riportato da Pilato, lo hanno fatto condannare con delle grida e delle minacce rivolte a Pilato; e poi gli hanno posto sulle spalle la croce, e lo hanno spogliato dei suoi abiti al Calvario, e l’hanno abbeverato di fiele e di mirra, e l’hanno inchiodato... e non c’è stato un lamento! Oh, quanto siam distanti dal nostro umilissimo, amabilissimo e dolcissimo Salvatore!
Impariamo la carità in pensieri, sentimenti, parole e azioni. La carità che è paziente, che è umile, che è benigna, che ha riguardo di tutti. Non si può maltrattare uno perché è inferiore, o non si può maltrattare un bambino perché non può far le sue ragioni! Quanto più la persona è debole e incapace di difendersi o farsi le ragioni, tanto più noi dobbiamo trattarla con bontà, modestia e umiltà... sì.
Carità, poi, per gli assenti: mai dir male degli assenti!
E non gettar così facilmente la colpa addosso agli altri perché c’è stato uno sbaglio! Lo abbiamo fatto noi, forse, o ne abbiamo una parte di colpa: perché dovrebbe attribuirsi agli altri quello che invece dipendeva di noi?
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E perché farsi avanti e farsi belli dei risultati, quasi fossero tutto nostro merito e niente merito degli altri? Evitare che ci lodino, venire a tal punto di sentire come una repulsione e un disgusto di ogni parola di lode, in maniera tale che si comprenda che noi non amiamo rubar la lode a Dio, ma vogliamo che tutta e sola la gloria vada al Signore.

Sia lodato Gesù Cristo.
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1 Nastro originale 77/60 (Nastro archivio 74a. Cassetta 74, lato 1. File audio AP 074a). Titolo Cassetta: “Umiltà e carità: art. 184 delle Costit.”.

2 Pio X, Giuseppe Melchiorre Sarto (1835-1914), Papa dal 4 agosto 1903 al 20 agosto 1914. Cf PIO X, Lettera Enciclica E supremi apostolatus [Acta, vol. I, pp. 1-16; ASS, 36(1903-1904), pp. 129-139], Programma del pontificato: “Restaurare ogni cosa in Cristo”, 4 ottobre 1903, in EnchEnc 4, Bologna 1999

2 , 13. La carità pastorale, vissuta con mansuetudine e tolleranza, è stato l’elemento caratteristico della personalità, dell’azione e della predicazione di Papa Sarto.

3 Giovanni XXIII, Angelo Giuseppe Roncalli (1881–1963), Papa dal 28 ottobre 1958 al 3 giugno 1963.

4 Cf L’Imitazione di Cristo, III, XXIII: Le quattro cose che recano una vera grande pace, 1. Questo fatto fu raccontato in più occasioni dal Papa. La “prima versione” risale probabilmente al dicembre del 1922, in occasione della testimonianza che egli rese alla morte del redentorista Francesco Pitocchi, suo padre spirituale nel Seminario Romano. Come ultimo pensiero della sua ampia prolusione, don Angelo Roncalli racconta questo episodio: «Nelle vacanze del 1904 - le ultime ch’io passai in seminario - p. Francesco villeggiava con noi a Roccantica. Egli era solito raccoglierci una volta alla settimana ad una piacevole ed utile esercitazione [...]; poi uno di noi recitava un fervorino spirituale, ed egli chiudeva con brevi parole [...]. Una volta volle che il sermoncino lo facessi io [...] sostituendo lì per lì un altro che non aveva potuto tenere l’impegno. Resistetti un poco, forse un po’ troppo: al fine mi convenne cedere. Non sapendo qualcosa dire di mio, e sembrandomi pretesa improvvisare, ripetei con semplicità il capo XXIII, libro III della Imitazione di Cristo: “De quattuor magnam importantibus pacem”, aggiungendovi alcune brevi parole di commento». GIOVANNI XXIII, Il giornale dell’anima e altri scritti di pietà, Roma 1964

3 , pp. 475-476. Vedi anche la testimonianza riportata da Albino Luciani su una confidenza ricevuta dal Papa stesso nel 1958: LORIS FRANCESCO CAPOVILLA, Giovanni XXIII papa di transizione, Roma 1979, p. 79.

5 Il PM legge erroneamente: cosa.

6 Il testo dice: mosse unicamente.