Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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6. UMILTÀ NELLA PREGHIERA1


Fra i sette doni dello Spirito Santo, quest’anno stiamo fermandoci in modo speciale sul dono della pietà. Il dono della pietà è una comunicazione amorosa con Dio e un amore grande al Signore, sia direttamente alle tre Divine Persone, sia alle cose divine, alle persone sacre e a tutti coloro che, in quanto sono immagine di Dio, in qualche maniera hanno relazioni con noi.
Tre condizioni per ottenere, non solo la fedeltà alle pratiche, ma lo spirito [di pietà], il dono dello Spirito Santo, «donum gratiae et precum»2: l’umiltà, la fede, la perseveranza.
Questa mattina cominciamo dall’umiltà. Che cosa significa pregare con umiltà? Pressappoco è quello che è indicato nella preghiera che avete recitato poco fa, l’ultima domanda3. Umiltà di mente, umiltà di cuore e umiltà di volontà. Umiltà di mente: quando pensiamo che tutto ciò che abbiamo è di Dio, che noi siamo sue creature e che nulla è da noi. Che sempre, tutto abbiamo ricevuto: l’essere, la creazione, così nulla possiamo fare da noi: «Sine me nihil potestis facere»4. E S. Agostino5 fa riflettere: Né poco né molto, ma nihil, cioè niente. Chi, se fosse possibile, lavorasse anche ventiquattro ore al giorno, non guadagnerebbe nulla, proprio nulla, se tutto non è indirizzato a Dio, solo per la sua gloria e per il bene delle anime. Infine, questo poi di nuovo per la sua gloria, poiché la gloria di Dio è il fine generale della creazione, della redenzione e della distribuzione della grazia: «Esurientes implevit bonis et divites dimisit
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inanes»6. Coloro che si sentono di essere niente, di non potere niente, sono riempiti di beni, di grazia. E quelli che già hanno fiducia nei propri doni, nelle proprie capacità: «Divites dimisit inanes», se ne vanno con le mani vuote. Sapienza di Maria! Sapienza che dipende da tutto l’insegnamento dell’Antico Testamento, dalla lettura assidua della Bibbia, specialmente dai libri sapienziali.
L’umiltà, poi ci porta a riconoscere non solo il bisogno di Dio, ossia che siamo niente, ma che siamo peccatori. Quanti torti abbiamo fatto a Dio! Come dobbiamo presentarci al Signore con il capo chino, invocando misericordia, lume, perdono e la grazia di non sprecare la vita in pensieri inutili!
L’orgoglio, la superbia costituiscono il primo nemico della preghiera, perché restringono le mani a Dio, le mani della sua misericordia e impediscono la grazia. Così uno parte dalla chiesa ricco di grazia, l’altro parte a cuore vuoto: «Humilibus dat gratias, superbis resistit»7. È come se noi ci rivolgessimo a una persona per qualche favore, per qualche dono, e questa persona, vedendo l’orgoglio con cui parliamo, si allontana, non vuol neppure sentire le domande, le preghiere che le si rivolgono.
Quante volte siamo nemici di noi stessi e operiamo contro i nostri interessi! L’uomo è tanto poco sapiente, anzi insipiente. Proprio quando si crede qualcosa, invece non vale niente! Vi sono persone che confidano in se stesse: c’è chi confida nel proprio ingegno, nel proprio sapere; chi confida nelle attività e capacità proprie. C’è chi confida nei sentimenti del suo intimo e si lascia dominare da tendenze e desideri che non sono per la gloria di Dio, ma mirano ad altro, cioè alla soddisfazione dell’amor proprio. In sostanza vivono nell’egoismo. Dubitare quindi molto riguardo la superbia dell’intelletto, della memoria, di quello che si sa. Il Signore allora non sa che cosa farsene di noi. Abbiamo visto, anche in questi ultimi due anni, che cosa e quali lezioni abbia dato la Santa Sede a chi confida in sé, sotto l’aspetto di saperne molto.
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Secondo, c’è chi confida nelle sue attività, nei suoi modi di organizzare, di fare, e pensa di muovere il mondo: Eh là, povero untorello, non sei tu che soppianti Milano!8. E c’è chi, ancora, ha la tendenza tutta rivolta a saziare e soddisfare il proprio egoismo. Allora il Signore lascia a mani vuote. L’umiltà invece attira la grazia: «Guai a chi confida in sé», disse Gesù nel Vangelo, rivolto ad alcuni che confidavano in se stessi. La parabola è proprio per chi confida in sé9. Entrò il fariseo a fare orazione. È la superbia quindi che accompagna la preghiera, quando non si sente il bisogno di Dio, quando uno non si presenta come un peccatore, come un povero mendico, bisognoso di tutto, come colui che è ignorante. E si presenta a colui che è la verità e la sapienza. È il povero davanti al ricco, il debole davanti all’onnipotente... Dunque il fariseo pregava così: «Signore, io non sono come tutti gli altri». Tutti gli altri… quindi io sono prima e sono un uomo eccezionale. Eh! qualche volta lo si pensa, e fatti i conti, alla fin fine, per qualche dono o per qualche malizia, ci crediamo più degli altri. Che povertà di spirito a volte! Che anime vuote! Che quantità di parole che non hanno senso! Leggete un po’ il libro della Sapienza.
Oh, allora: «Non sono come tutti gli altri». Quindi era un uomo eccezionale. Il pubblicano stava al fondo della chiesa e il fariseo lo disprezzava: «Io osservo la legge, in sostanza, digiuno, pago le decime», e faceva l’elenco dei suoi meriti. Allora, che cosa aspetti ancora dal Signore, se sei già così da superare tutti? Che cosa vieni ancora a chiedere a me?. Persone che non pregano, ma si lodano, dice il commento di un santo Padre. La loro non è orazione, ma è glorificazione di se stessi.
Al contrario il pubblicano. Essere pubblicani significava essere uomini che non erano sulla retta via, peccatori, in sostanza. E mentre il fariseo stava ritto davanti all’altare di Dio, e faceva l’elogio di se stesso, il pubblicano si inginocchiava, abbassava il capo e prendendo anche all’esterno un modo che rifletteva il suo interno: «Signore, abbi pietà di me che sono peccatore», e si picchiava il petto: «Mea culpa». E questo
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tornò a casa giustificato, cioè in grazia di Dio, santo nel senso comune. S. Paolo usa spesso questa parola quando dice dei fedeli che sono santi: e l’altro ritornò a casa vuoto come prima.
Questa parabola è proprio per quelli che pregano orgogliosamente. Ed è difficile convincerli, perché la cecità impedisce loro anche di approfondire le meditazioni, le letture spirituali, di applicarle a sé e portarli, ad esempio, all’esame di coscienza e quindi al Confiteor Deo omnipotenti, quia peccavi nimis, cogitatione, verbo et opere: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa10. «Et divites dimisit inanes, superbis resistit», Dio volta la faccia dall’altra parte, tanto per esprimerci in una maniera un poco umana.
Oh, l’umiltà! Bisogna portare nella preghiera l’umiltà di mente, di cuore, l’umiltà nell’attività, cioè di volontà. Nelle riflessioni del Servo di Dio Can. Francesco Chiesa, c’è questa frase: Quale delitto sarebbe il mio se mi servissi di quello che so e di quello che posso fare per la mia gloria, cioè servirmi dei doni di Dio contro Dio! Quale delitto sarebbe questo!. E questa era la conclusione della sua terza laurea.
Allora, umiltà di mente, di cuore e di volontà. Due cose si richiedono: primo, che la preghiera sia fatta per la gloria di Dio, per fare la sua volontà, mai per soddisfare il nostro amor proprio e per servirci dei doni di Dio a nostro comodo. Per esempio se abbiamo la salute, voler star bene, non avere da soffrire; o se noi possiamo riuscire in certe cose per essere soddisfatti in noi medesimi; o perché crediamo di far valere quello che sappiamo e lo dimostriamo. Bisogna pregare per la gloria di Dio: lì è tutto incluso. E la gloria di Dio si ottiene facendo la sua volontà: «Fiat voluntas tua, sicut in coelo et in terra»11. Che io faccia il volere di Dio, a sua gloria: «Universa propter semetipsum operatus est Dominus»12, in maniera che se la preghiera non entra in questa linea diretta non ha nessuna efficacia. Dio non opera contro se stesso, non dà i suoi doni
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a chi se ne serve contro di lui, per compiacersi, per invanirsi. Così gli ruba la gloria, questo è un furto grosso a Dio stesso, e Dio [i suoi doni] non li dà. La gloria a Dio da noi si ottiene sempre, in generale, quando il volere di Dio compiuto da noi lo glorifica. Cioè riconosciamo che tutto ci viene da lui e tutto a lui deve andare.
Tutto ci viene da lui e tutto deve finire a lui. Quindi, umiltà, cioè che [di nostro] non abbiamo niente. È invece il debito che abbiamo! Usare tutto ciò che è dato da Dio per la sua gloria. Quindi il primo fine ci fa pregare in rettitudine e permette a Dio di darci le grazie. Sì, perché Dio non può agire contrariamente alla sua gloria: «Et divites dimisit inanes». Maria aveva imparato questa grande sapienza nella preghiera, ecco, imitarla! Il Magnificat è il modello della preghiera retta che va a Dio.
Secondo: occorre presentarci con la nostra debolezza, ignoranza, incapacità, con i nostri peccati, i nostri debiti con Dio, con le imperfezioni che abbiamo commesso ieri e il ripetere continuamente le stesse imperfezioni, le stesse venialità. Carichi di grazie dal Battesimo fino ad ora, quale responsabilità se non abbiamo corrisposto a tutte! Andiamo, andiamo, siamo persone che meritano mille condanne! Nel Memorare13 diciamo: Carico di mille peccati, mi presento a voi. Quindi, abbiamo bisogno di perdono. Sempre questo atto di umiltà che fa rivolgere e ottiene che Gesù dal tabernacolo rivolga gli occhi suoi sopra questo poveretto. Pensarlo, e sia un sentimento continuo: [Sono un] poveretto, perché sono carico di debiti verso Dio e ne vado facendo altri, giorno per giorno, se voi non mi usate la vostra misericordia. Notiamo che il peccato di orgoglio, specialmente nel pregare, è il primo peccato. E se facciamo l’elenco dei vizi capitali, la superbia è la prima! È ciò che più ripugna a Dio, che proprio ostacola Dio, lo ferma nel distribuire la sua grazia. Allora, particolarmente, domandare perdono della nostra superbia.
Vedere che la mente sia illuminata, che il cuore cerchi Dio solo, la sua gloria e il bene delle anime; che non si abbia
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confidenza nell’agitarsi, correre e mostrare quello che si fa, ecc., come se noi mettessimo in moto il mondo. Il Signore allora ci mette da parte: Non imbrogliare le mie cose, non fermare la mia azione, la mia provvidenza. Non ho bisogno di te: posso suscitare santi dalle pietre, apostoli dalle pietre. Inoltre, mai confrontarsi con gli altri. Confessioni umili, non Confessioni piene di orgoglio. Comunioni umili, non Comunioni piene di orgoglio. Alcune persone quasi non sanno che cosa chiedere al Signore, perché ne hanno abbastanza. «E tu non conosci che sei misero e miserabile»14, dice là nell’Apocalisse, a quell’angelo di una delle sette Chiese. E la tua miseria più grossa è quella di non saperti misero, come dice l’Imitazione di Cristo15. Umiltà nell’ascoltare la meditazione, umiltà nel sentire la predica; umiltà nella lettura spirituale, umiltà nello stare ai piedi del Calvario, cioè quando si avvicina la consacrazione della Messa. Umiltà nel sentire interiormente e bassamente di noi.
Oh, a volte come siamo ciechi! E allora: «Fac ut videam: Signore, fa’ che io veda»16, ma non solamente con gli occhi materiali, ma con quelli dello spirito, dell’intelligenza. Per questo sto facendo le meditazioni per me e poi per i sacerdoti, sul libro della Sapienza. La sapienza celeste di fronte alla nostra ignoranza, ossia non conoscerci!
Infine i propositi. Per molte persone c’è da fare l’esame di coscienza e proposito principale sull’umiltà, cioè sulla verità, perché l’umiltà è verità. Non è torcere il collo, è quello che abbiamo in testa, che pensiamo, è quello che sentiamo nel cuore.
Da quando specialmente incomincia ad essere necessario il proposito sull’umiltà? Da quando uno si sente in forze, in salute; da quando uno ha imparato qualche cosa, ha studiato qualche cosa; da quando riesce bene in qualche cosa, e che significa, in generale, dai venticinque ai quarantacinque anni e avanti. Perché il fanciullo ha la golosità, la giovane ha la purezza, poi viene l’orgoglio e allora [ci vuole] l’umiltà. Finalmente l’attaccamento alla vita che è l’ultima tendenza a cui dobbiamo
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resistere. Ogni età, in generale, ha le proprie tentazioni. Ma vi sono anche delle eccezioni: a qualcuno che si avvilisce troppo, occorre una giusta fiducia in Dio, un sano ottimismo. Contare sulla grazia di Dio che ci porterà a utilizzare le forze, il sapere, la salute, i sentimenti, la vita religiosa, tutto per Dio e per la nostra santificazione. «Humilibus dat gratias»; «Ecce ancilla Domini»17; «Respexit humilitatem ancillae suae»18.
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1 Meditazione tenuta a Roma il 1° febbraio 1961. Trascrizione da nastro: A6/ an 92b = ac 157a.

2 Cf Zc 12,10: «Spiritum gratiae et precum: Uno spirito di grazia e di consolazione».

3 Cf Per chi ha sete di anime o Offertorio paolino. Cf LP, ed. 2011, p. 40.

4 Cf Gv 15,5: «Senza di me non potete fare nulla».

5 Agostino di Ippona (354-430), nato a Tagaste (Tunisia), monaco, vescovo d’Ippona e Dottore della Chiesa.

6 Cf Lc 1,53: «Ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote».

7 Cf Gc 4,6: «Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia».

8 Cf Alessandro Manzoni, I promessi sposi, cap. XXXIV.

9 Cf Lc 18,9-14.

10 Atto penitenziale all’inizio della Celebrazione eucaristica: Confesso a Dio onnipotente e a voi, fratelli, che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa.

11 Cf Mt 6,10: «Sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra».

12 Cf Pr 16,4: «Il Signore ha fatto ogni cosa per il suo fine».

13 Ricordati. Preghiera mariana attribuita a S. Bernardo di Chiaravalle (10901153) monaco cistercense e dottore della Chiesa. Cf LP, ed. 2011, p. 209.

14 Cf Ap 3,17.

15 Cf Imitazione di Cristo, I, XXII, 2.

16 Cf Lc 18,41.

17 Cf Lc 1,38: «Ecco la serva del Signore».

18 Cf Lc 1,48: «Ha guardato l’umiltà della sua serva».