Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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24-LA MORTE1*
Ieri abbiamo considerato quanta riconoscenza dobbiamo al Signore per il dono della vita e quanta responsabilità abbiamo per la creazione, cioè per i doni ricevuti da Dio, la vita stessa, e per la vita cristiana, e per la vita religiosa, e poi, responsabilità come Pie Discepole. Ma questa vita è solo il preambolo. La vita vera, interminabile è la vita celeste. Sì, quella si può chiamare davvero vita, come si chiama morte eterna l'inferno.
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Per andare, però, a quella vita, arrivare, vi sono di mezzo alcuni passaggi che noi chiamiamo i novissimi. Primo, la morte; secondo, il giudizio di Dio; terzo, la sentenza e quindi, l'entrata alla vita eterna. Poi, perché la vita celeste sia completa: la risurrezione della carne e quindi il giudizio finale e la vita eterna in cielo.
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Dipende, tuttavia, la nostra sorte eterna, cioè l'entrare in cielo o discendere nell'inferno, dipende da noi, poiché il Signore ci ha creati e ci ha data la grazia e ci offre i suoi aiuti costantemente, se preghiamo, e ci invita al cielo. Ma dopo questo egli ci lascia liberi. L'uomo è libero. E quanti prendono la via che conduce alla perdizione? «Multi intrant per eam» 1. E quanti invece prendono la via che conduce a salvezza? via che è stretta, ripida, ma che mette capo al cielo. E vi sono quelli che fanno questa strada nel modo comune, cioè come semplici cristiani e vi sono coloro che, chiamati da Dio, vogliono assicurarsi meglio il cielo e vogliono assicurarsi un bel posto in cielo.
Allora consideriamo, questa mattina, la morte.
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Ieri sera sono andato in una parrocchia e dovevo parlare o volevo parlare, meglio, al parroco. Arrivato là mi dicono: «ma è morto stamattina». Parroco giovane, all'improvviso, alle 11, in due-tre minuti, passato all'eternità.
Quello che è successo ieri a quel buon parroco religioso, può succedere a noi, qualunque istante. E allora sempre noi abbiamo da considerare quanto ci ha raccomandato il Maestro divino a riguardo alla morte: «estote parati» 1.
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La morte, primo punto, ci priva di tutto, meno che dei meriti o dei peccati. Quello che è merito ci segue, quello che è peccato, se non fu messo a posto, ci segue. Il resto si lascia tutto; ecco.
Considerare questo: «opera tua sumus, non te deseremus» 1. Le azioni fatte in vita, quasi ci dicono: siamo tue opere, non ti lasciamo, ti seguiamo. Si lascia tutto. Si lasciano i parenti e se abbiamo, nelle nostre relazioni con loro, fatto bene, ecco il merito, quello ci segue; e se nelle relazioni con loro non abbiam fatto bene, ecco il demerito, e quello ci segue. Lasciamo le persone care, quelle più vicine a noi, che magari hanno convissuto con noi e se con loro noi abbiamo fatto bene e cioè, abbiam fatto loro del bene e da loro abbiamo ricevuto del bene corrispondendovi, ecco, il bene ci segue. Ma se con loro abbiamo fatto male o abbiamo dato del male o ne abbiamo ricevuto volontariamente, ecco il male ci segue.
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Lasciamo tutta quella aureola di stima o disistima degli uomini. Cadendo la nostra bara nella fossa o chiudendosi la nostra salma fra quei marmi, chi verrà ancora a rompere il silenzio? chi verrà ancora ad adularci o chi verrà ancora a disapprovarci? condannarci? Là il silenzio è tutto. La voce degli uomini, siano di lode e siano [di] disprezzo, si disperde al vento. Non è ancora uscita dalla bocca, si può dire, che già è dispersa. Nulla contano le lodi e nulla contano i disprezzi se non quando i disprezzi sono presi bene, dalla mano di Dio, come occasione di meriti e le lodi sono prese come incoraggiamento a far meglio, ma insieme con umiltà, dando unicamente gloria a Dio.
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Che cosa importa che ci abbiano una grande stima, ci credano santi o che ci credano birbanti? «Qui judicat me, Dominus est» 1. Il giudizio di noi lo farà il Signore. Quello è il giudizio vero, che non si sbaglia mai ed è un giudizio che più ancora che sulle opere è sui pensieri, è sui sentimenti, poiché la prima santificazione si opera sempre nei pensieri e nei sentimenti e la prima perversione o il primo peccato è sempre anche interno. L'esterno senza l'interno non è mai peccato e non è mai merito; ma innumerevoli volte, l'interno da solo basta a fare il peccato o fare il merito. Un atto di amor di Dio che è consumato nel nostro cuore è un gran merito ancorché nessun lo veda, nessun lo senta, nessun lo noti; e un desiderio cattivo è un peccato ancorché nessun lo veda, nessun lo senta e all'esterno si sia fatto niente. Il Signore vede nell'occulto.
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Tutto si lascia, si lasciano quelle cose alle quali si era più attaccati anche, cose che, alle volte, hanno disturbato il cuore e per cui abbiamo perso dei meriti; si lasciano quelle cose che abbiamo usato in bene, poiché tutto quel che ci ha dato il Signore può convertirsi in merito; e si lascia la cappella dove si è tanto pregato; ma chi ha usato bene della cappella per effondersi in Dio, per entrare nell'intimità di Dio, quella cappella parla al tribunale di Dio, del merito; si lasciano i predicatori, i confessori, le sorelle, l'Istituto poiché se ci accompagnano al camposanto per loro carità, dopo che hanno veduto la nostra salma scomparire dagli occhi, dallo sguardo, si ritirano, ciascheduno ritorna alle sue cose.
Ma se noi abbiamo approfittato di tutto questo, dei beni che ci son nell'Istituto, dell'apostolato, delle persone che o ci istruivano o ci correggevano o ci aiutavano con l'esempio, con la parola, se abbiamo usato in bene, ecco quello che si porta, è il bene, si porta con noi.
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Si lascia invece tutto, il corpo stesso. Il corpo ci è dato da Dio come strumento dell'anima nel bene operare. Noi facciamo il bene in quanto siamo uniti al corpo. Quando l'anima si distacca dal corpo più nessun peccato si può fare, ma anche più nessun merito. Il peccato si può solamente fare quando l'anima è unita al corpo e il merito si può solamente fare quando l'anima è unita al corpo. E beato chi avrà usato del corpo santamente. E infelice chi ne ha abusato malamente. Se si è usato bene degli occhi o se si è usato male della vista; se si è usato bene dell'udito o se si è usato male dell'udito; se si è usato bene della lingua o se si è usato male della lingua; se si è usato bene del tatto o si è usato male del tatto; se si è usato bene delle forze che c'erano o se si è usato male delle forze che c'erano.
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Se si è usato bene dei giorni che avremo avuto nella vita dall'inizio della vita cosciente, cioè dall'uso di ragione, fino all'ultima apertura di bocca, o se si è usato male del tempo della vita, dei giorni, degli anni; se si è usato bene del tempo o si è perduto; se il tempo l'abbiam fatto rendere al massimo, oppure, per la tiepidezza, ha reso poco. Il tempo è finito: «tempus non erit amplius» 1. Quindi con la morte finisce davvero tutto, meno che quello che è merito o demerito che si porta all'eternità.
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Si capisce sempre che con questo vogliamo sempre dire quando non si è riparato, perché il peccato si può confessare e la vita si può cambiare ed è appunto questo che ci dice il Salvatore, il Maestro Divino, e che forma il secondo punto di meditazione: «estote parati». Siate preparati.
Nota un dottore della Chiesa che il Signore non ci dice: «quando vi accorgete che la morte si avvicina, preparatevi», ma ci dice: «siate preparati». Ecco la diversità. Poiché le vergini prudenti stavano preparate alla venuta dello Sposo, avevano rifornito bene d'olio le lampade e attendevano. E appena il rumore che accompagnava la venuta degli sposi giunse al loro orecchio, ecco subito si levarono, accesero le lampade. Ma le cinque vergini stolte? Ricorsero alle vergini prudenti: «Date nobis de oleo vestro» 1. Donateci un po' del vostro olio.
- «Eh, no, se diamo a voi non ce ne sarà poi più né per voi né per noi, dividendolo in due. Andate piuttosto a comprarne dai venditori». E andarono. Ma la notte era oscura, dovettero aspettare e quando giunsero, videro la porta chiusa e chi rispose di dentro, chi rispose al loro bussare, disse: «Non vi conosco» 1.
In morte si cercheranno i meriti, la lampada accesa e, come dice il Signore, ancora provvisti: «i lombi precinti, pronti per il viaggio» 2.
Ma vediamo. Quando arriva la morte, ecco il turbamento. Chi non ha fatto bene, ecco si trova agitato, in pena e vorrebbe ritardare quanto è possibile il passaggio all'eternità, sì; mentre che chi è preparato, «de gloria retributionis ilarescit», dice san Gregorio Magno. Si allieta perché il premio è vicino.
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La morte, però, ha sempre della ripugnanza, si capisce, noi tendiamo a vivere e quindi anche il Salvatore Gesù volle sentire la pena che porta il pensiero della morte vicina. Ma chi è ben preparato si fa gli ultimi meriti accettando la morte e proprio con la morte si fa i maggiori meriti accettandola dalla mano di Dio, offrendola in adorazione al Signore, a Dio, Padrone della vita o della morte; accettandola in isconto dei peccati, per il bene della Congregazione, per la santificazione di tutte le sorelle, ecc. Con quello che sta per venire raccoglie ancora gli ultimi e più preziosi meriti, chi è preparato.
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Ma chi è che è preparato? Preparato a ricevere bene la morte è chi ha fatto una santa vita. Nessun altro. Ma domanderà perdono. Tanto bene. E dobbiamo esortare tutti a riconciliarsi con Dio in quel grande momento, ancorché nella vita abbiano commessi peccati. Ma i meriti si conquistano? No, se non furono fatti non ci sono. Supponete che uno arrivi anche a cento anni e si converta all'ultimo giorno. Al suo attivo ha l'ultimo giorno se veramente, in quel momento, ha domandato sinceramente perdono dei peccati. Ma dai sette anni andare a cento anni? Se le sue giornate sono state vuote di merito? egli cercava altre cose, l'amor proprio trionfava in lui. Che cosa potrà raccogliere? Si raccoglie quel che si semina1. Ma se ha seminato semenza di ortiche, che cosa troverà? punture da tutte le parti in cui sta rivoltandosi nel letto, ripensando, cioè, agli anni della vita dai sette ai dieci anni, dai dieci ai quindici, ai venti e poi avanti successivamente.
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I meriti occorre farseli. Altro è ottenere poi il perdono, se veramente c'è un dolore buono, altro è trovare i meriti. Se non ci sono, non si faranno in eterno. Quindi: «E' morto riconciliato con Dio». Deo gratias! Ma è morto dopo una vita santa e quindi è passato all'eternità carico di meriti? Oh, no, un'altra cosa, questa. Se la vita fu vuota o peggio se è stata macchiata dai vizi capitali, da qualche vizio capitale o l'orgoglio o gli attaccamenti o l'invidia o l'ira o la lussuria o la pigrizia o la gola, lo spirito di comodità, la curiosità, lo spirito di vendetta, di rancore, che cosa troverà? forse l'indulgenza?
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Per esser preparati alla morte, in secondo luogo, occorre avere scancellato quel tanto di pena che avevam meritato coi peccati perché diversamente ci sarebbe il purgatorio; aver fatto la penitenza dei nostri peccati che si fa in due maniere: primo, acquistando bene le indulgenze, ma con buone disposizioni, buone disposizioni; e secondo, con mortificazioni, perché la penitenza maggiore si fa in questa maniera: operando all'opposto di quello che si era operato prima; se prima si era operato per orgoglio, dopo operar nell'umiltà; se prima si era operato nell'avarizia, attaccamento a qualche cosa, dopo nel distacco; se prima si era operato nell'invidia, dopo si opera, si fa la penitenza operando per bontà, per carità, per benevolenza. Ugualmente si deve dire della ira o dell'accidia, della curiosità, ecc. Facendo l'opposto di quello che si è fatto quando si è peccato, allora c'è la vera riparazione.
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Dunque, per morir bene son due le condizioni: aver fatto una vita santa; e secondo, aver riparato il peccato commesso; a cui si aggiungono due altre disposizioni, che è più difficile poi avere: lo stato di fervore: il Signore ci sorprenda, che la morte venga in momento in cui c'è il fervore. E secondo, che ci sia il cuore distaccato da tutto; quindi che non si viva in tiepidezza; e secondo che ci sia il distacco dalla terra e l'attaccamento a Dio, l'unione a Dio, in carità, quando cioè si può dire davvero: vi amo con tutto il cuore, vi amo sopra ogni cosa, specialmente sopra di me, sopra il mio orgoglio e il mio egoismo; e amo il prossimo come me stesso, per amore di Dio, quando cioè si è in queste disposizioni. Allora sciolti da questi attaccamenti, da questi vincoli, che cosa avverrà? Che se l'anima si è andata distaccando, ha operato il distacco man mano nella sua vita, può lanciarsi libera verso il Sommo Bene, l'eterna felicità che è Dio. Diversamente vi è da temere che si debba ancora sospirare per tempo più o meno lungo, l'ingresso al cielo.
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Dunque: «estote parati», perché nell'ora in cui meno ce la pensiamo, magari quando ci crediamo più in salute e che tutto vada bene: «hac nocte morieris»: «morirai questa notte», si sentì dire quel tale di cui parla il Vangelo il quale si credeva nella sua buona salute e nel cumulo di beni di denaro e di prodotti che aveva radunati, di poter vivere a lungo: «ne hai per molti anni, aveva conchiuso, riposa tranquillo, mangia e bevi, ne hai per molti anni». Chi sa cosa ne abbia avuto per l'eternità? «Stulte, hac nocte morieris» 1, fu la risposta del cielo. Stolto.
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E delle vergini stolte ce ne sono? E si è tutti nel numero delle vergini prudenti? Adagio! Giacché si è abbracciata la vita religiosa e nella vita religiosa vogliamo attendere al meglio, cioè anche a quello che è di consiglio, avanti, con coraggio. Seguiamola bene la vocazione. Partir dalla terra ricchi di meriti come è partita ricca di meriti la Vergine e tante sante. Come son partite ricche di meriti! Vergini prudenti.
Sia lodato Gesù Cristo.
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1 Esercizi Spirituali (14-21 giugno 1956) alle Superiore Pie Discepole del Divin Maestro Roma, Via Portuense 739, 16 giugno 1956 *
* (1) Nastro 5/d (= cassetta 12/b). - Per la datazione, cfr. PM: «Ieri abbiamo considerato... il dono della vita» (cfr. PM in c311); «...i novissimi: primo, la morte...» (cfr. PM in c381) - dAS, 16/6/1956: «Alle 5,30 [il PM] va a predicare gli Esercizi SS. alle Madri PD di via Portuense» (cfr. PM in c500). - dAC: «Secondo giorno: 1a meditazione: La morte; 2a meditazione: Il giudizio di Dio» .

1 Mt 7,13.

1 Lc 12,40.

1 S. BERNARDO, De cognitione humanae conditionis, II, 5, in PL 184,488.

1 1 Cor 4,4.

1 Ap 10,6.

1 Mt 25, 1-13.

2 Cfr. Lc 12,35.

1 Cfr. Gal 6,8; 2 Cor 9,6.

1 Cfr. Lc 12,20.