Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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ESERCIZI SPIRITUALI – ALBANO
12-18 DICEMBRE 1954


Ci sono pervenute cinque istruzioni tenute da Don Alberione in questo corso di Esercizi: una il 12 dicembre, due il 13, e due il 14. Probabilmente un altro sacerdote ha completato la predicazione. Nella cronaca del tempo non si riscontra alcun cenno a questi Esercizi. Sono indirizzati alle Figlie di San Paolo ricoverate nella clinica Regina Apostolorum di Albano, ma è probabile che vi abbiano partecipato alcune degenti di altri istituti religiosi.
Nelle meditazioni si avverte il desiderio del Fondatore di alimentare nelle suore ammalate l’adesione alla volontà di Dio, «cosa sapiente, cosa consolante, la via più breve per la santità, la cosa più facile e sicura» (I).
Perché sia compiuta bene, la volontà di Dio deve essere «fatta interiormente» (II), essere «intera», cioè coinvolgere la mente, la volontà, il cuore, il corpo (II); privilegiare la pietà eucaristica: Messa, Comunione, Visita, «i tre mezzi principali per acquistare l’uniformità alla volontà di Dio» (IV), «non solo quando si sta bene, ma anche quando non si sta bene» (V).
Giova inoltre ispirarsi alla testimonianza della Vergine Maria «sempre attenta al volere di Dio, anche quando era misterioso» (I), e trovare nella contemplazione della passione di Gesù la forza di dire «sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra» (III).
Allo scopo, possono giovare tre pensieri: «il ricordo del paradiso» (V), «il pensiero del Crocifisso» (V), «la devozione a Maria e a san Paolo».
E conclude il Primo Maestro: «Chi si piega a fare la volontà di Dio fa un atto di adorazione, un atto di riparazione, un atto di ringraziamento e un atto di domanda» (V).

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I
LA VOLONTÀ DI DIO *


Un giorno si è verificato questo episodio. In un convento fra le suore si discorreva, e anche un po’ animatamente, delle disposizioni della superiora, di una specialmente. Ciascuna giudicava a suo modo, chi trovava da rilevare qualcosa in un senso e chi in un altro. In generale s’interpretava in male e si giudicava male. Vi era una suora che stava zitta, e a un certo punto, dopo che le altre avevano già espresso lungamente i loro pensieri, fu interrogata: E tu, cosa dici?. Io non so cosa dire: io so solo obbedire; voi ne sapete di più e non vi disapprovo; ma io so solo obbedire. Ecco l’obbedienza, la volontà di Dio!
In che cosa consiste la santità? Nell’amore di Dio, cioè nell’unione con Dio, unione che s’incomincia sulla terra e si perpetua nell’eternità. Ma che cos’è questa unione? Sta precisamente nel fare la volontà di Dio, unire cioè la nostra volontà a quella di Dio. Si dirà che dobbiamo amare il Signore con tutta la mente, con tutto il cuore e con tutte le forze. È vero, ma anche i pensieri e i sentimenti del cuore dipendono dalla volontà. La nostra volontà può cambiare i pensieri, indurre la mente a pensare ad altro e il nostro cuore può essere guidato, dominato dalla volontà, amando Dio, amando le cose sante. Quindi questa unione con Dio, unione di volontà, è veramente la santità. Fare la volontà di Dio è cosa sapiente; è insieme cosa consolante, è la via
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breve per la santità, ed è la cosa più facile e sicura.
1. In primo luogo, fare la volontà di Dio è la cosa più sapiente. Perché? Perché è la sapienza di Dio che interviene a disporre di noi e delle nostre cose in ordine al cielo, in ordine alla vita eterna.
Quando uno dice: Sia fatta la volontà di Dio, fa l’atto più sapiente che possa fare, perché invece del suo sapere entra il sapere di Dio. Vi sono persone che vogliono essere sapientone. Su tutto han da dire, da giudicare, condannare, approvare: tutto deve passare sotto il loro setaccio. Orbene, queste persone in verità sono ignoranti, perché la sapienza di Dio è la vera sapienza; «la sapienza umana è stoltezza presso Dio»1, dice S. Paolo. Stoltezza! Quindi chi entra a giudicare, sentenziare in tutto e su tutti è ignorante, è stolto. Vale di più una contadinella che non sappia dire altro: Bè, è piaciuto al Signore: sia fatta la tua volontà!, che una professoressa, una teologhessa, che abbia perso di mira la sapienza di Dio, la quale sta nel fare la volontà del Signore, nel prendere le cose come le ha disposte il Signore, perché sono le più utili per l’anima nostra, per l’eternità.
Far la volontà di Dio è grande sapienza! Vi sono sante, e non solamente qualcuna, che sapevano pochissimo, avevano frequentato pochissima scuola, come S. Gemma Galgani, ma la loro volontà era quella di Dio. Quindi [sono] più sapienti di coloro che hanno molto studiato e invece di obbedire giudicano, condannano, discutono. La volontà di Dio non si discute.
Ho conosciuto un uomo, bravo operaio, che al mattino soleva spendere due ore in chiesa. Faceva la
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sua meditazione, la Comunione, ascoltava generalmente due Messe, e poi tutto il giorno lavorava per mantenere la famiglia di suo fratello (egli non aveva figli) che era malaticcio e sprecone. Gli dicevano: Ma tu lavori e l’altro spreca, tu gli dai i soldi e lui li beve. Rispondeva: Il mio dovere è solo fare la carità e se il Signore permette anche che io lavori e che la mia carità sia sfruttata malamente, mi rimane sempre il dovere di fare la carità fin che posso. E continuava il suo lavoro, sempre dicendo: Fino all’ultimo la volontà di Dio.
2. In secondo luogo, fare la volontà di Dio è cosa consolante. Dopo che avremo cercato tanti mezzi per farci santi, dopo che avremo fatto il proposito su tante cose, dopo che avremo letto tanti libri di ascetica, concluderemo questo: fare la volontà di Dio. Se non si verrà a questa conclusione, avremo imparato un bel niente. Il Signore paga le opere fatte per lui, cioè fatte secondo la sua volontà, come noi paghiamo le opere del falegname se fatte per noi, non se le ha fatte per sé; paghiamo il muratore se fabbrica per noi, non se fabbrica per sé. Quando noi facciamo le cose che vuole Dio, le facciamo per Dio; quando facciamo quello che piace a noi, fosse anche il meglio, non è meglio: facciamo la nostra volontà. Che cosa dovrà darci il Signore in ricompensa? Merces: è un pagamento, è il paradiso2. Ma [Dio] paga le cose fatte per lui.
Quali sono le cose fatte per lui? Quelle che egli ha comandato, quelle che egli vuole da te in questo giorno, in questo momento. Non sarebbe meglio far così; non sarebbe riuscito meglio in quella maniera? Ma molti dicono diverso, dicono che bisognerebbe fare in questo modo; che le suore
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dovrebbero fare così; che dovrebbero stampare quella cosa; che dovrebbero star fuori più tardi in propaganda. Il meglio, che cos’è? Se ti hanno detto che la libreria si chiude alle dodici, si chiude alle dodici. Ma verrà ancora gente. Lo lascerai giudicare alla Maestra. Meglio? No. Il meglio per la religiosa è fare quello che è disposto. Ma doveva forse disporsi diversamente. Non era meglio? Quanto è comandato è il meglio, è ciò che fa per te: non importa la conseguenza. Dopo aver fatto presente alla Maestra, sii disposta, come dicono le Costituzioni, ad accettare il comando se viene confermato.
Notar bene questo: nella vita religiosa non avete da scegliere il meglio, è già scelto nella professione. E che cosa è la professione? È donarsi a Dio perché disponga di noi come meglio gli piace; solo, sempre, in tutto come gli piace; che non abbiamo mai da fargli resistenza. Nella professione si accettano le Costituzioni, la Congregazione com’è, il suo apostolato, la sua via di spiritualità, si accettano i comandi che verranno dati, i mutamenti di casa, di ufficio, le cose che si dovranno soffrire o godere. Si accetta tutto, come verrà fatto, anche il sepolcro come verrà disposto. Tutto si accetta fino alla fine, non siamo più nostri, ma di Dio, il quale disporrà secondo la sua maggior gloria e secondo la maggior santificazione dell’anima nostra. Per questo ho detto che è sommamente meritoria l’obbedienza: fare la volontà di Dio. La meta che deve raggiungere un’anima che vuole veramente arrivare alla perfezione è la santa indifferenza, cioè né chiedere né rifiutare nulla. S. Ignazio [di Loyola] fa un paragone molto energico che qualcuno ha voluto interpretare male e che fu
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molto criticato: essere in religione come cadaveri. Il cadavere non ha più volontà propria, non sceglie una cassa piuttosto che un’altra, non sceglie il Crocifisso o la corona che gli mettono in mano, non sceglie la posizione, non si oppone se gli allungano le mani o se gliele incrociano. Ecco, allora si è nella perfetta indifferenza: non ho un gusto mio. Alcuni santi arrivarono lì: nessuno sapeva quali cibi preferivano, quali occupazioni volevano: tutto accettavano e tutto con gran piacere e con generosità. Se alle volte veniva loro qualche sentimento di ribellione, lo mettevano sotto la pisside: Signore, sia fatta la tua volontà. Mentre abbiamo un mezzo così facile per farci santi, perché ne cerchiamo tanti? E se si cercano tanti mezzi, tante vie, dovremo concludere sempre: voler fare la volontà di Dio. Allora si è sicuri che si raggiunge nella vita il più grande merito, non solo, ma anche il maggior numero di meriti.
3. Consideriamo questo nella santa Vergine, facendoci alcune domande. La santa Vergine come scelse la sua vocazione? Stette all’ordine di Dio quando apparve l’angelo. La santa Vergine fino a cinquant’anni fece la Comunione? No, fino a circa cinquant’anni no, certamente. Ma ora, perché raccomandano tanto la Comunione...? La Comunione è un mezzo non un fine, un mezzo utile, un mezzo per fare la volontà di Dio, cioè un aiuto grande che riceve l’anima per unirsi a Dio con la mente, la volontà, il cuore. Quanti santi non hanno potuto far la Comunione quotidiana! E si sono fatti santi. È un mezzo, il mezzo primo, ma è un mezzo. Tanto più lo sono le preghiere. Vale più una suora infermiera che sente al mattino la sua Messa, fa le sue pratiche di pietà come sono
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prescritte e poi fino alle dodici, alle tredici, lavora a servire, a intervenire per un bisogno, a prestarsi per un altro, invece di quella che sta ad ascoltare Messe fino a mezzogiorno, fino alle tredici. Perché? Perché è la volontà di Dio che fa i santi. Si dirà che è la pazienza. La pazienza è fare la volontà di Dio quando dobbiamo soffrire, come l’apostolato è fare la volontà di Dio quando dobbiamo fare l’apostolato, e lo stare in casa è meritorio quando l’obbedienza ti dice: Sta’ in casa. L’obbedienza può ordinarti di uscir di casa, di andare qua, di andare là, e allora la volontà di Dio è che soffriamo anche questo. Quindi, la pazienza fa i santi quando si obbedisce, ancorché costi. Si obbedisce al Signore, si fa il suo divino volere anche se costa.
Contemplare la santissima Vergine obbediente sotto la guida dei suoi genitori, pur essendo più santa di loro. Contemplarla presentata al tempio a Gerusalemme: come ascoltava tutto! Contemplarla quando l’angelo le annunzia che deve essere Madre di Dio. Che cosa risponde Maria? Il suo sì: «Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum»3. Sono la serva di Dio, non sta a me disporre, cioè volere una cosa o un’altra, ma al volere di Dio: «Secundum verbum tuum». Secondo quella parola, quell’ordine, quella disposizione che Iddio mi dà. E Maria ebbe da attraversare tante difficoltà, per esempio andare a trovare S. Elisabetta facendo tanti chilometri di strada e servirla come umile ancella. Andare a Betlemme, in circostanze difficili, a dare il suo nome. Accettare di essere ricoverata in una grotta e vedere il Bambino nascere nello squallore di tanta miseria. Recarsi in Egitto attraverso una strada lunga e pericolosa e rimanere là
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incerta del tempo dell’esilio: «Finché ti verrà detto: Usque dum dicam tibi»4. Ritornare poi in Palestina, stabilirsi a Nazaret e condurre vita umile, la vita di una donna della sua condizione in quei tempi. Si può dire che non si distingueva all’esterno per nulla, come non si distingueva Gesù che lo credevano semplicemente il falegname del paese dopo la morte di S. Giuseppe: «Nonne est hic faber?: Questo non è il falegname?»... «E come ci parla di cose così alte?»5.
Maria nelle sue virtù domestiche fu semplicissima, sempre attenta al volere di Dio, anche quando era misterioso. «Figliuolo, perché ci hai fatto così? E perché mi cercavate? Non sapevate che io debbo occuparmi delle cose che riguardano il Padre mio?... Et ipsi non intellexerunt: E non capivano»6 il perché, non capivano quella sapientissima risposta. Ma eseguivano.
Quante volte anche S. Giuseppe non capiva il perché di certi ordini, ma eseguiva e intanto Iddio lo guidava ad essere nella redenzione una parte importante: preparare all’umanità il Redentore, il Maestro divino, l’Ostia santa, il Sacerdote.
Oh, se ci lasciassimo guidare da Dio! Quando saremo arrivati a questa santa indifferenza da non mostrare preferenze, noi saremo sicuri che in ogni opera raccoglieremo meriti, ricaveremo grande pace e vivremo in continua serenità. Anche se il mondo rovinasse, noi saremo sempre uniti a Dio, abbracciati a Dio, Dio somma felicità, e saremo eternamente con lui.
Bisogna scendere alle cose particolari. Accenniamo solo a qualcosa. Anzitutto non considerare più la nostra volontà, pensare che la professione non offre a Dio solo il corpo con la
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castità e neppure soltanto i beni esterni con la povertà, ma offre a Dio la volontà con il voto di obbedienza. Anche noi dobbiamo dire. «Factus oboediens, usque ad mortem»7. Ti sei fatta obbediente, hai promesso obbedienza, ti sei obbligata all’obbedienza fino alla morte, cioè accettare quella morte che al Signore piacerà mandarti. La perfezione però sarebbe: Signore, disponete di me come vi piace: la morte quando e come vi piace, cioè secondo ne avrà maggior gloria la vostra maestà. E siccome è maggior merito per l’anima mia la morte accettata perfettamente, magari verrà l’invito di Dio mentre io facevo dei progetti e sognavo di far questo e quello. «Quando meno te l’aspetti [la morte] viene: Hora non putatis»8. «Laetatus sum in his quae dicta sunt mihi: Mi sono allietato in quello che mi è stato detto»9: preparati, perché il male è grave, il Signore ti vuole in cielo. Mi sono allietato in quello che mi è stato comunicato: «…in domum Domini ibimus:… andremo nella casa di Dio»10, in paradiso, è venuta l’ora, cambiamo la terra con il cielo. Accetto tutta l’umiliazione del sepolcro, il disfacimento del mio corpo, interamente, e se nella vita ci prepariamo bene a fare questa ultima obbedienza, con che serenità si passa all’eternità! Con che serenità si dirà con Gesù: «Pater, in manus tuas commendo spiritum meum: Padre, rimetto l’anima mia nelle tue mani!»11. Sarà perfetta l’obbedienza in punto di morte, se si avrà una perfetta carità verso Dio. «La carità coprirà anche una quantità di peccati»12 e di pene che si dovrebbero scontare in purgatorio. Chi è abituato nella sua vita a dire sempre di sì, lo dirà anche allora. La predica del sì deve essere la più frequente: [compiere] la volontà di Dio,
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qual è, senza obiezioni, come piace al Signore.
Allora esaminiamoci come stiamo riguardo al volere di Dio, sia che ci venga manifestato per mezzo dei comandamenti o per mezzo degli ordini, delle disposizioni, o per mezzo delle circostanze della nostra vita, quelle circostanze che Dio dispone. Non si muove foglia che Dio non voglia, certamente, quanto meno si muove una mano senza che Dio lo voglia, o viene una malattia o una disposizione senza che Dio lo voglia. Gran pace in punto di morte per chi fa sempre la volontà di Dio, gran pace! Ma chi, anche con sotterfugi, ha combinato i suoi voleri per aggiustare le cose come voleva, magari con ipocrisia, dicendo cose forse non vere, come si presenterà a Dio? Hai lavorato per me o hai lavorato per te? E allora da chi vorremo la ricompensa, il premio? «Jam recepisti mercedem tuam: Hai già ricevuto la tua mercede»13, hai fatto ciò che ti piace e sei già premiata in quello. Cercavi solo il tuo piacere, avevi solo da soddisfare le tue preferenze: l’hai fatto, basta. Non hai cercato il mio piacere, il mio volere, non hai cercato di soddisfare e assecondare il mio desiderio, e allora? Vediamo di non trovarci in morte con rimorsi per aver perduto meriti facendo la nostra volontà, anche buona, sempre fissare bene in mente che il meglio per il religioso, per la religiosa è fare quello che è disposto.
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II
CONDIZIONI PER FARE BENE LA VOLONTÀ DI DIO *


S. Paolo parlando di nostro Signore Gesù Cristo dice: «Christus factus est pro nobis oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltavit illum et dedit illi nomen quod est super omne nomen; ut in nomine Jesu omne genu flectatur, coelestium, terrestrium et infernorum et omnis lingua confiteatur quia Dominus noster Jesus Christus in gloria est Dei Patris»1.
Quando eravamo ragazzi, ogni venerdì, alle tre, al suono della campana che ricordava la morte in croce di Gesù Cristo, recitavamo sempre questa preghiera oppure l’antifona, ricordando i dolori, le piaghe del Salvatore e soprattutto la sua obbedienza fino alla morte. «Gesù Cristo si è fatto obbediente fino alla morte di croce». Per questa sua obbedienza egli è stato esaltato, ebbe un nome, cioè un potere, una dignità o una autorità sopra ogni creatura sia del cielo, della terra, sia dell’inferno, «ut omne genu flectatur, coelestium, terrestrium et infernorum, e affinché ogni lingua confessi che Gesù Cristo è nella gloria del Padre celeste». Quanto salirai di gloria, in cielo? Quanto ti sarai umiliata sulla terra. Se sulla terra sarai obbediente in alto grado, cioè se la tua obbedienza sarà perfetta, avrai un alto grado di gloria. L’orgoglioso che ha la testa dura, non può andar molto su in paradiso.
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Consideriamo: fare la volontà di Dio; quali condizioni; come dev’essere la nostra uniformità al volere di Dio.
1. L’uniformità al volere di Dio, in primo luogo, deve essere interna: volontà di Dio interiormente. Parlando di voi, questa volontà di Dio deve essere prima nel cuore. Perché si possano accettare con gioia, con compiacenza, con letizia le disposizioni che vengono dai superiori e le vicende della vita, occorre che ci sia amore alla Congregazione, e allora s’interpreta tutto in bene. Quando invece si ama poco la vita religiosa, la Congregazione, si è portati ad interpretare tutto in male, si vede tutto male. Non tutto è male, ma avendo gli occhiali rossi o neri o verdi, le cose si interpretano rosse, nere, verdi. Verdi quando c’è l’invidia, nere quando si sospetta male e rosse quando c’è il nervoso per tutto quello che succede e viene interpretato malamente.
a) Amare la Congregazione, l’Istituto proprio. Potranno esserci altri Istituti migliori? Certamente! Ma l’Istituto ottimo non è ancora sorto sulla terra, perché dovrebbe riprodurre perfettamente la famiglia di Nazaret. Ora, quand’è che ci eleveremo alla virtù, alla pietà e all’apostolato che ebbero Gesù, Giuseppe e Maria, le tre santissime persone che erano nella casa di Nazaret? Gli Istituti approvati dalla Chiesa, tanto sono belli, quanto c’è di osservanza. Se non c’è l’osservanza niente è bello, perché l’Istituto si compone di persone. Sono i membri, non è la regola che rende l’Istituto santo: anzitutto i membri, poi la regola. In primo luogo ci vuole quel desiderio, quella compiacenza, quella riconoscenza al Signore per averci chiamati alla vita più perfetta.
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Amare nella Congregazione la propria madre. La Congregazione ci ha accolti, e siamo entrati [come] bambini riguardo alla vita spirituale. Quando si entra in Congregazione, pur essendo professoresse, o membri illustri o capi nell’Azione Cattolica, si è [come] all’asilo: si comincia la vita religiosa. Entrare quindi sempre umilmente. La Congregazione va formando gradatamente le sue persone, va formandole con l’istruzione, con i buoni esempi, con la preghiera, con gli avvisi, con la correzione. I beni che si hanno in Congregazione, sono immensamente più grandi di quelli che si avrebbero a casa, in famiglia. La Congregazione ha cura [dei membri] e il suo primo pensiero è fare le persone sante, perché è una fabbrica di santi. Li assisterà in morte, li suffragherà dopo morte.
Se anche un altro Istituto è più perfetto, il nostro va amato più degli altri. Se ci fosse una famiglia ricca con una madre molto istruita, noi ameremmo di più nostra madre sebbene sia una contadina e non molto istruita, perché l’amore alla madre è naturale. Avere la tendenza a interpretare in bene, a giudicare in bene quello che viene disposto e ad amare la Congregazione per le sue regole, per il suo apostolato, per i mezzi di santità. Amare la Congregazione, amare tutto della Congregazione, e desiderare le vocazioni e aiutare le vocazioni a farsi sante.
Se nel cuore c’è amore alla Congregazione, l’obbedienza è più facile, e tutti sono portati a vedere bene; ognuna, in qualunque ufficio venga messa, sa di compiere una parte importante nella Congregazione. Parte importante ha la portinaia, parte importante ha chi fa la pulizia, chi fa il pranzo, il bucato, chi scrive, chi fa scuola: ognuna esercita un ufficio. Non si può dire che sia migliore
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l’occhio, che sia migliore l’udito, che sia migliore la lingua, che sia migliore il cuore: ogni parte dell’organismo è nobile ed è da stimarsi quando fa bene il suo ufficio. Ma se il cuore comincia ad essere difettoso, se i polmoni non sono sani, se il sangue non circola bene, se l’occhio non ci vede più, ecc., nella Congregazione si nota un malessere. Basta che ci sia una che porti scompiglio, specialmente se le case sono piccole, e allora che avviene? Avviene che se una è di cattivo umore, se ha il veleno in cuore, lo spande proprio lì attorno, mentre se le case hanno numerose persone è come un po’ di vino messo in molt’acqua: poco si nota, sebbene lo scandalo che si dà con la disobbedienza, con l’avversione, con il vedere tutto male, sia più grave. E non è peccato il mettere nella Congregazione certi abusi, introdurre certe usanze contrarie all’Istituto, certe maniere di fare che portano il disordine? Di silenzio non ce n’è più e nessuna più può essere raccolta. Le relazioni a destra e a sinistra sono troppo abbondanti. Invece di osservare il raccoglimento del cuore si pensa cosa è avvenuto qua, cosa è avvenuto là, si fanno relazioni, si ingrandiscono le cose che non sono buone e le cose buone si tacciono. Amare la Congregazione, amare la propria vita, pensare che lì siete chiamate a farvi sante. Allora il cuore è disposto [a obbedire], diversamente, una volta data una disposizione, è come battere su una pietra, perché il cuore è duro, non è malleabile, non è nelle mani di Dio: è un cuore egoista che vede solo se stesso.
b) In secondo luogo, occorre che l’obbedienza venga compiuta anche dalla mente, cioè averne grande stima. Che cosa significa? La mente deve pensare che non solo la disposizione è stata data dalla
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tale maestra o dalla tal’altra, ma che Dio vuole questo. Il Signore ti chiede in quel momento quel sacrificio o quella consolazione, essere quindi sempre pronte a dire: Il Padre celeste non mi dimentica mai. Alle volte mi attira a sé con un dolce e alle volte mi richiama con forti rimorsi, ma in sostanza è sempre la voce del Padre celeste, il quale mi ama e mi vuole santo: «Nemo veniet ad me nisi Pater meus traxerit eum»2. Allora il Padre celeste lavora incessantemente in ogni anima. Oh, se sapessimo quali e quante cure ha il Signore per ciascuna di noi! Nel giorno del giudizio quando vedremo tutta la meravigliosa, l’amorosissima provvidenza di Dio a nostro riguardo, ci meraviglieremo e sarà spontaneo il cantare: Magnificat anima mea Dominum3. L’obbedienza deve essere quindi prima interna, cioè disporre l’animo a ricevere per amore, da Dio qualunque cosa succeda e qualunque disposizione venga data, e poi essere disposti a interpretare in bene ed elevarsi a pensieri di fede. Non sappiamo noi che un’azione minima quando si compie in obbedienza guadagna merito molto più grande che un’azione più vistosa, ma scelta da noi?
S. Francesco di Sales dice: Io preferisco accettare a tavola quello che mi portano senza desiderare né rifiutare nulla, piuttosto che anteriormente condannarmi al digiuno, perché qui entra la mia scelta e sono io che ubbidisco a me4. Ho chiesto il digiuno, ho chiesto la tal mortificazione, magari mi sono portato un po’ di amaro da mischiare nel piatto e l’ho fatto io, ma quando io obbedisco alla cuoca accettando tutto quello che viene portato, allora rinuncio alla mia volontà, alla scelta. Quando sceglie Dio e cioè Dio può fare tutto ciò che vuole di te, allora, se tu sei nell’indifferenza, guadagni
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i massimi meriti. Questa fede ci deve rimanere impressa. S. Paolo ebbe tante volte da compiere obbedienze come questa nella vita. Cominciò a predicare a Damasco e il Signore non volle, e si adattò. Andò a predicare a Gerusalemme e il Signore non volle, e si adattò. Perché? Perché il Signore voleva che prima andasse a fare un bel noviziato di tre o quattro anni nel deserto per approfondire lo spirito del Vangelo del Signore. Così, quando egli andava ad evangelizzare i popoli, alle volte si dirigeva verso una nazione e il Signore lo fermava: Non è qui che ti voglio. Allora cercava un’altra nazione: Non è ancora qui. Poi il Signore gli mandava un avviso: Passa in Macedonia5. E andò in Macedonia, a Filippi, e il suo ministero ebbe gran frutto, come risulta dalla lettera ai Filippesi che egli poi scrisse a quei cristiani che aveva convertito.
Disposti a fare ciò che il Signore vuole: ci sia l’indifferenza ad adoperare la penna o il coltello per sbucciare le patate, indifferenza a vivere o a morire. Non è facile, sicuro! Quando si è fatta la prima stesura della vita del Maestro Giaccardo, si voleva far vedere che egli quasi avesse preveduto la sua morte. No, il merito sta nell’indifferenza, non nel prevedere la morte. E all’avviso che bisognava ricevere l’Olio santo: Sì, subito, rispose il Maestro Giaccardo. Aveva altri progetti a cui andava pensando, ma a questo avviso disse: Subito! Lì sta la santità, in questa santa indifferenza ad accogliere il volere di Dio.
2. Seconda condizione dell’obbedienza: deve essere intiera oltre che interna, cioè fatta con la mente, con la volontà, con il cuore e con il corpo.
a) Uniformarci alla volontà di Dio con il corpo. Questo
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non devi guardarlo: l’occhio non lo guardi; quest’altro devi guardarlo: e l’occhio lo guardi; questo non devi sentirlo: e l’udito non ascolti; e questo lo devi sentire, perché è la parola di Dio: e ascolta; e se l’avviso è duro e ti tocca sul vivo, ascolta. Obbedire con il corpo: questo è da dirsi e questo non è da dirsi: e la lingua sia regolata, e prima di parlare, si pensi ciò che si deve dire, e prima di tacere si pensi a quello che si tace. Non è bene dire una parola di conforto e di letizia? E dilla! Nella confessione, a volte, si riduce al minimo, si minimizzano anche le colpe. E no! Dichiara. Come vuoi che siano perdonate le colpe [espresse] così? Dille come sono, perché non possono essere perdonate le cose che non si ammettono.
Obbedienza con il corpo: devi andare a dormire? E va’ a dormire. Devi alzarti? Alzati. C’è da stare inginocchiati durante la Messa ai tali punti? E inginocchiati, eccetto che vi sia un vero impedimento. C’è da guardare l’Ostia? Alza lo sguardo. Obbedienza! Alle volte si sta vicino a una persona che non ci piace, alle volte sarà più simpatica la compagnia di un’altra: possiamo far la mortificazione in un caso e nell’altro. Negarci un po’ di quel che ci piace e prendere un po’ di quello che non ci piace. L’uniformità al volere di Dio: cercare il piacere di Dio, non il nostro.
b) L’obbedienza bisogna che sia fatta anche con la mente. Vuol dire: capir bene cosa vuole la Maestra chiedendomi questo sacrificio, che cosa devo fare perché la Congregazione abbia il maggior vantaggio e io contribuisca al bene della comunità nel senso più ampio.
Ho letto da poco la vita di uno degli ultimi superiori generali dell’Istituto dei Gesuiti. Aveva dovuto cambiare molti uffici. Il suo primo lavoro [ogni volta]
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era di fermarsi giorni e mesi e qualche volta anni, quando gli uffici erano difficili, per capire come erano da farsi, come egli, in quel determinato ufficio, poteva contribuire nella maniera migliore al bene del suo Istituto. Quando poi aveva capito bene, ci si metteva con tutta l’anima e con tutto il cuore specialmente a interpretare i desideri e i disegni dei superiori, a interpretare bene le Costituzioni, e come, quando era superiore generale, a farle osservare.
Sottomettere subito la mente a Dio che ci parla, che dispone per mezzo di persone. Cercare di capire il perché si debba fare così, come si può servire meglio Dio e la Congregazione in quel dato compito, in quel dato lavoro. Capire perché il Signore ha permesso questo a tuo riguardo o ha disposto altro. Interpretare bene il senso di Dio. Certamente c’è un fine recondito, ma tu abbracciando bene l’ordine che viene dato o quello che il Signore ha permesso o disposto, certamente fai cosa sapientissima. Perché? Perché viene da Dio che è infinita sapienza. La sapienza dell’uomo in che cosa sta? Nel conformarsi a Dio. Questo non è divinizzarsi? Non è diventare da uomini figli di Dio?: «Factus est Deus homo, ut homo fieret Deus»6. Vale molto di più un atto di obbedienza che mille opere compiute fuori dell’obbedienza ancorché buone. Quindi saper uniformare la nostra mente e intendere bene perché è venuta quella disposizione o il Signore ha permesso questo male o quell’altro, ha permesso questa incomprensione oppure quello stato di animo per cui quella persona soffre.
c) Perché l’obbedienza sia ben fatta bisogna ancora metterci il cuore. Quando si fa una cosa, perché siamo sicuri che viene da Dio, non pensiamo
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ad altro; non precipitiamo, ma operiamo come se non avessimo altro da fare.
Non bisogna costringere Dio a fare quel che vogliamo noi, non aggiustiamo le cose in modo tale che ci diano quella disposizione o quel permesso, ecc. Non forziamo mai la mano di Dio. Il Signore «attingit a fine usque ad finem fortiter suaviterque omnia disponens»7. Il Signore si è prefisso di farci santi, di averci con sé in paradiso, alla sua mensa celeste. Ebbene, dal momento in cui la tua anima è uscita dalle sue mani, fino al momento in cui ti presenterai a Dio per il giudizio, il Signore ti è sempre a fianco, ti ama, egli ha continuamente [presente] il progetto e lo mette in esecuzione: Voglio santificarti. Infatti: «Elegit nos ante constitutionem mundi ut essemus sancti»8. Ha scelto noi tra tutte le creature che poteva creare prima della creazione del mondo, e perché? Perché fossimo santi. In ogni minima cosa il Signore ha sempre la stessa finalità, la stessa intenzione: che ci facciamo santi. Uniformare il nostro cuore vuol dire: Anch’io voglio farmi santa come vuoi tu, una volontà sola, un cuore solo con te, Padre celeste! Tu sei mio Padre ed io sono tuo figlio; io amo questo perché lo ami tu, perché lo hai disposto tu. Quindi mettiamoci il cuore, amare proprio l’opera [richiesta]. Se facciamo una lezione di catechismo, facciamola bene; se prendiamo la medicina, prendiamola bene; se dobbiamo tacere o se invece dobbiamo parlare, se dobbiamo anche riposare e star lì fermi, perché questo è richiesto dalla cura, facciamolo bene. In casa ci sia l’ordine. Ciascuno ami quello che deve fare; quando arriva l’ora del silenzio, tutti amino il silenzio e quando è l’ora di parlare,
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amino il parlare, non facciano i musi lunghi, non abbiano la devozione della malinconia. Quando il confessore ha detto così, è così, qualunque scrupolo o disturbo interiore si senta.
d) Amare! E poi fare tutto con buona volontà, che vuol dire: con perfezione per quanto è possibile. Si ha la perfezione esterna se si fa [bene] il bucato, perché bisogna che la biancheria sia pulita; se si adoperano le forchette, i cucchiaini, i coltelli a tavola, usarli con garbo senza consumare, senza guastar tutto. Avere rispetto per le sorelle. Curare il modo di vestirsi, il modo di parlare; anche una lettera, se si è capaci, scriverla bene. Ognuno cerchi di avanzare anche in questo. In tutto metterci la volontà. Se avrete vita lunga, farete di più; se avrete vita corta, avrete fatto abbastanza se impiegherete bene il tempo che il Signore vi ha dato: andrete più presto in paradiso. Metterci la volontà, una volontà semplice. Perché questo? Perché me l’hanno detto. O come dicevo di quella suora che rispondeva: Io non so fare altro, o dire altro che obbedire. Non tante discussioni! Il Signore non richiede che siamo dei sapienti, rivela agli umili la sua volontà e manifesta a ogni anima quello che ha bisogno di sapere per diventare santa.
Quando un’anima ha imparato a obbedire è sulla via di Gesù Cristo: «Io sono la Via» perché ho obbedito fino all’ultimo respiro. Prima di spirare [infatti] piegò la testa, la piegò prima di spirare, e cioè davanti al Padre fece l’inchino alla sua volontà, poi morì, accettando in questa maniera la morte: «Et inclinato capite emisit spiritum»9. Non spirò, ma fece l’atto di obbedienza cosciente, e poi il corpo si abbandonò. Non volle bere il
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vino mirrato, perché voleva patire con coscienza. Oggi con facilità si danno i narcotici. Allora, che cosa bisogna fare? Bisogna che mettiamo la volontà [in ciò che facciamo]. Talvolta è duro, la volontà vorrebbe ribellarsi, ma allora presentiamola a Gesù e domandiamogli: Che cosa faresti al mio posto? «Quid et quomodo Jesus?: Che cosa farebbe e come lo farebbe Gesù?»10. Se Gesù veniva mandato da Maria a prendere l’acqua alla fonte con la sua brocca o con quel certo arnese che hanno in oriente, che faceva? Andava ed eseguiva. «Quid nunc et quomodo Jesus?: Che farebbe Gesù adesso e come lo farebbe se fosse al mio posto?».

III
LA VOLONTÀ DI DIO ALLA LUCE
DELLA PASSIONE DI GESÙ *


Fare la volontà di Dio alle volte è più difficile nelle cose ordinarie, semplici che nelle occasioni grandi, di molto sacrificio. Certamente il sacrificio di noi stessi, fatto nella professione, è un sacrificio molto maggiore della singola obbedienza. Eppure, allora, quel sacrificio si è fatto con gioia, in gran festa sentendo nel cuore una grande generosità e anche, generalmente, grande consolazione. Poi le piccole cose, come l’osservanza dell’orario, la prontezza ai segnali, le piccole disposizioni, le piccole contrarietà, ecc., alle volte ci sembrano molto gravi, eppure la pazienza si deve esercitare specialmente in queste cose. Le grandi occasioni sono grandi perché sono eccezionali, invece le piccole cose sono continue. La vita
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religiosa è un eroismo, non perché ogni giorno, ogni persona faccia l’eroina o perché vi siano grandi sacrifici da fare, ma perché ogni giorno occorre fare quella particolare volontà di Dio, quell’obbedienza, occorre sopportare quelle noie, quelle contraddizioni, quei piccoli disturbi o interni o esterni che non sono gravi, ma sono resi tali dalla continuità che costituisce precisamente l’eroismo. Aver sempre accettato con umiltà l’obbedienza, aver sempre praticato la propaganda per dieci, quindici anni facendo una quantità innumerevole di passi, dicendo tante cose, portando quella borsa pesante, procurando di persuadere i fedeli, di cercarli anche nelle case più remote e più lontane dalle strade, dai centri, casa dopo casa..., non è grande eroismo, ma la continuità sì.
Dice S. Francesco di Sales: Abitualmente, giornalmente, non facciamo delle grosse spese, ma le facciamo piccole, perché per una persona sola quotidianamente occorre spender piccole somme, così è nella vita spirituale: le grandi virtù raramente, ma le piccole virtù continuamente. E tante volte si mostra più amor di Dio guardando il cielo o posando lo sguardo sopra un Crocifisso per attingere forza in una piccola circostanza, che non in una grande occasione quando il sacrificio è come una gloria compierlo, quando ci si prepara con preghiere perché si aspetta... Invece quando si è sempre disposti ad accogliere il piccolo sacrificio, la piccola mortificazione, la piccola incomprensione, i piccoli malumori, l’anima è abbandonata in Dio e veramente dice: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra»1, sempre la volontà di Dio.
Consideriamo la passione di Gesù Cristo e vediamo come egli abbia uniformato la sua volontà
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a quella del Padre celeste. Consideriamo qualche piccolo episodio. Gesù istituì l’Eucaristia, grande sacrificio di amore. Nella chiesa Regina Apostolorum il paliotto rappresenta l’ultima Cena di Gesù con gli Apostoli. Abbiamo scelto la scena non nel tratto abituale con cui è rappresentata sotto la guida di Leonardo da Vinci, quando Gesù dice: «Uno di voi mi tradirà»2, ma quando Gesù invita: «Prendete e mangiate, prendete e bevete di questo calice», e poi: «Fate questo in memoria di me»3, cioè istituisce i due sacramenti: l’Eucaristia e l’Ordine. Questa istituzione è l’atto di amore supremo con cui Gesù donava se stesso a noi e stabiliva il sacerdozio perché ci accompagnasse [in vita e] fino al camposanto. Che cosa vide Gesù? Vide gli Apostoli che in quel momento, fervorosi, protestavano fedeltà: «Siamo pronti ad andare con te in carcere e alla morte»4; e Gesù intanto diceva: «Voi mi abbandonerete»; e a Pietro in particolare: «Tu mi rinnegherai»5. Gli atti di amore in quel momento nel loro cuore erano spontanei e le parole che dicevano [erano sincere]. Almeno credevano di parlare con sincerità, ma Gesù vedeva che fra poco lo avrebbero abbandonato e Pietro lo avrebbe rinnegato. E nella rappresentazione dell’ultima Cena gli Undici ricevono la Comunione, Giuda non sappiamo se l’abbia fatta. In ogni modo, nel momento in cui Gesù istituisce il sacerdozio, [sembra che] Giuda si discosti silenziosamente, faccia in modo che la sua lontananza non venga quasi avvertita, e vada a invitare i nemici di Gesù che vengano al Getsemani a prenderlo, legarlo e condurlo al carcere, e quindi
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alla morte. Quale pena! Sopportare! «Il vostro amore non è sincero: uno di voi mi tradirà». Alle volte, quando facciamo il massimo bene a una persona, essa ci paga con l’ingratitudine. E allora il cuore soffre. Gesù, vedendo l’ingratitudine che avrebbero mostrato gli apostoli, ha forse sospeso l’istituzione del sacrificio d’amore? E pur vedendo che lo avrebbero abbandonato, si è forse trattenuto dal consacrarli sacerdoti? Niente affatto; compì tutto secondo il volere del Padre, senza badare alla riconoscenza degli uomini.
È qui che noi spesso sbagliamo, vogliamo la riconoscenza. Perché? Non operiamo abbastanza per Dio, abbiamo ancora troppe vedute umane, non è ancora il volere di Dio, la volontà del Padre celeste che domina in noi.
Andiamo avanti. Gesù è nell’orto del Getsemani e soffre una vera agonia. Accetta il sacrificio della croce e la gran pena: Vado a patire e morire, a spargere il mio sangue e tuttavia molte anime si perderanno ugualmente. Egli, fatto obbrobrio, coperto di sputi, pensava al cumulo dei peccati degli uomini che si prendeva sulle spalle davanti al Padre celeste: «Colui che non ebbe peccato, si fece peccatore»6, secondo l’espressione energica di S. Paolo. Agonizzava, neppure un morente suda sangue generalmente. E gli Apostoli, a dormire! «Non potete vigilare un’ora con me? Alzatevi! Vigilate!»7, ecc. Se una persona sta male in un letto, è agonizzante e chiama, e gli altri se ne stanno indifferenti a scherzare, a dormire e neppure pensano a portare un po’ di soccorso, una goccia d’acqua, aiutare per facilitare la respirazione, che cosa dite voi, che avete buon cuore? E Gesù che faceva la più
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terribile agonia era trattato con indifferenza, abbandonato. E chiama tre volte: «Erant enim oculi eorum gravati»8: e continuavano a dormire. E se per un momento si alzavano, era per cascare di nuovo nel sonno. Finché Gesù conclude: «Alzatevi, ormai andiamo incontro al nemico»9. E Gesù sopporta. Vedendo che gli uomini non gli davano alcuna consolazione e sollievo, si rivolge al Padre celeste e il Padre celeste gli manda un angelo consolatore10.
Siamo noi capaci di prendere da Dio solo le consolazioni o vogliamo essere compatiti, vogliamo che tutti prendano parte ai nostri dolori, ai nostri dispiaceri, raccontando a tutti i nostri malumori e le nostre sofferenze interne? Come siamo? Rassomigliamo al Maestro divino?
Possiamo andare avanti. Ecco Gesù davanti al tribunale, il sinedrio, tribunale raccolto in fretta durante la notte. Gesù si trova in un momento di grande importanza [che avrà] grande conseguenza, lo accusano da tutte le parti, ma uno contraddice l’altro: «Non erat conveniens testimonium: Non si accordano»11. Allora il sommo Sacerdote, lui che pretendeva di essere amico di Dio, lo vuole condannare e pretende di condannarlo in nome della legge mosaica: « Adiuro te per Deum vivum ut dicas nobis si tu es Christus Filius Dei: Ti supplico, non tenerci più in sospeso: sei veramente il Figlio di Dio?»12. Gesù sapeva che dalla sua risposta dipendeva la condanna a morte. E la diede: «Tu lo dici, io lo sono. E vedrete il Figlio dell’uomo discendere sulle nubi e venire a giudicare tutti»13. Questa dichiarazione, era certo, sarebbe stata presa a pretesto di condanna. Gesù tacque? No.
Qualche volta dobbiamo dire delle cose che
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costano sacrificio, dobbiamo fare delle cose che sono male interpretate. Chi guida deve sapere che sicuramente sarà criticato e giudicato male, chiunque sia. Andate fra gli uomini più santi, fra quelli che più hanno imitato Gesù e troverete che sono stati male interpretati, condannati. Quanti hanno desiderato perfino la loro morte! Gesù più di tutti, quindi, perché era il più santo, volevano farlo morire ad ogni costo. Già prima prendendolo in parola: Se afferma che dobbiamo pagare il tributo a Cesare, diciamo che è amico di Roma e lo facciamo condannare dai farisei; se dirà che non bisogna pagare il tributo, lo accuseremo all’imperatore come un rivoluzionario che non vuole il governo di Roma. Comunque risponda, dovrà morire. Ma Gesù se la cavò bene. Gesù però sapeva che era venuto il grande momento. Prima aveva detto: «Nondum venit hora mea»14. È inutile che mi tentiate. Anche quando andarono a prenderlo per buttarlo nel precipizio, egli si dileguò inosservato15, e quando volevano lapidarlo, le pietre caddero di mano ai suoi avversari. Ma adesso sapeva che era venuta l’ora: «Haec est hora vestra»16, l’ora dei nemici. Era l’ora voluta dal Padre, quindi Gesù confessa, perché era onore di Dio dire la verità.
Quante volte chi guida deve sostenere i diritti di Dio! Deve dire, per esempio: Il Signore bisogna trattarlo un po’ meglio; essere un po’ più obbedienti al Signore; bisogna comportarci meglio in chiesa; fare meglio le pratiche di pietà; bisogna che tu osservi la vita religiosa.
A tante osservazioni, molte volte, si risponde con recriminazioni e critiche e allora nel
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cuore di chi guida avviene una lotta interna. Guai se non pensasse: voglio fare la volontà di Dio, il mio dovere, mi piaccia o non mi piaccia, piaccia o non piaccia agli altri. Non a tutti piaceva Gesù quando diceva ai suoi avversari: «Razza di vipere!»17. Lo sapeva che si irritavano e che la sua parola li avrebbe feriti profondamente. «Ipocriti, perché mi tentate?»18. Ma era il suo dovere, era il volere del Padre celeste, era la sua missione. Quindi confessa Dio davanti al sommo Pontefice, davanti al sinedrio. E allora si strappano le vesti, come se avessero sentito una bestemmia contro Dio. «Audistis blasphemiam? Quid vobis videtur? E tutti insieme: Reus est mortis»19. Reo di morte colui che è la verità? Colui che giudicherà tutti? Colui che dà la vita a tutti gli uomini? Solo Gesù dà la vita. Ma quando le passioni sono accese, non si rispetta più nessuno e tutte le ragioni paiono buone per colpire e superiori e sorelle, e vicini e lontani, e nella casa in cui si è stati e nella casa in cui si è mandati... Allora il cuore soffre, e la volontà di Dio costa. Ma Gesù l’ha fatta sapendo che da lì gli veniva la condanna.
E quel soldato, credendo di far piacere al sommo Sacerdote, con mano foderata di ferro gli lancia uno schiaffo sulla faccia e la guancia diviene livida e il sangue gli esce dai denti. E Gesù tace.
Sappiamo fare la volontà di Dio? Un soldato, uomo volgare, che percuote il suo Dio! Qualche volta noi abbiamo appena appena sentita una parola che un po’ ci punge, un po’ ci ferisce e perdiamo la serenità.
Nella notte, coloro che facevano la guardia a Gesù si burlavano sacrilegamente di lui. Gli
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velavano gli occhi, e prendevano gusto a percuoterlo con pugni, schiaffi e a lordare i suoi abiti e il suo vestito con sputi, e lo sfidavano: «Adesso, indovina un po’ chi è stato a batterti?»20. Un sacrilego disprezzo, scherno per il Figlio di Dio, Gesù benedetto. Abbiamo forse udito dalle labbra di Gesù un lamento? È uscita una parola di condanna per coloro che così lo trattavano? La volontà del Padre celeste: «Non come piace a me, ma come piace a te»21. Immaginiamo, con un po’ di fantasia, che gli angeli si coprissero per orrore la faccia nel vedere così maltrattato il loro Dio, il nostro Redentore. Ma egli, innocente agnello, è condotto al supplizio e non emette né una lacrima né un lamento. Consideriamo la flagellazione. I soldati vanno a gara nel percuoterlo più fortemente. Essi erano i meno colpevoli, perché eseguivano degli ordini, e con la scarsa scienza che avevano, non potevano decidere se si trattava di un innocente o di un malfattore. Ma quelli che aizzavano i soldati a percuoterlo così fortemente e che davano loro da bere perché, così inebriati, dessero colpi più violenti sulle spalle, sulla persona dell’adorabile Salvatore, quelli sì che lo sapevano che era innocente. L’innocente agnello non manda un lamento. Niente. Tace.
Qualche volta può accadere che siamo accusati a torto. Dobbiamo sempre difenderci? E dobbiamo farci sempre le ragioni? E dobbiamo ancora ingrandire le colpe degli altri? «Fiat voluntas tua, sicut in caelo et in terra». Come ci lamenteremo ancora dopo aver visto il Salvatore che, finita la flagellazione, cade a terra stremato di forze per il sangue perduto? E come possiamo lamentarci nel vedere che Gesù, slegato dalla
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colonna, è fatto sedere sopra una scranna e poi si aggiunge supplizio a supplizio e lo si incorona di spine? Questo era un delitto suggerito dalla malizia di quella gente inebriata di odio contro il Salvatore. L’incoronazione di spine non entrava nei castighi legali, tuttavia la corona di spine viene messa sul capo di Gesù, e i soldati percuotono con la canna perché le spine penetrino più profondamente nel capo del Salvatore. Poi, per aggiungere altro supplizio, vengono a fargli riverenza con una genuflessione di scherno e lo salutano: «Ave, rex Judeorum»22. Hai voluto farti re, ecco una corona: le spine. Hai voluto farti re, ecco la porpora: uno straccio messo sulle spalle. Hai voluto farti re… ecco una canna rotta, simbolo del comando.
Ma quale persona di questo mondo è stata ridotta in tale stato? Noi diciamo che vogliamo essere simili a Gesù, che vogliamo imitarlo, che lo amiamo, ma poi in pratica? Quando una cosa costa un po’, siamo pronti? La facciamo? E guardiamo con occhio di amore ancora? Cerchiamo di fare del bene a chi ci ha così trattato? Sì, almeno pregare.
S. Francesco di Sales un giorno ricevette un uomo al quale non aveva potuto concedere quello che pretendeva, perché sarebbe stato peccato. Quell’uomo, accecato dall’ira, disse tanti insulti contro il vescovo che potevano solo essere suggeriti dalla passione e dal demonio. S. Francesco si attaccò al tavolino con le mani e lasciò che finisse. Quando l’altro ormai non aveva più voce e non trovava più termini per insultarlo, il vescovo lo guardò e disse: Se voi mi cavaste anche un occhio, io vi guarderei con maggior affetto con l’altro. L’uomo restò colpito dalla
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bontà del santo e si ritirò confuso. Che bella vittoria riportò il santo su di sé e su quell’anima così stravolta per l’ira, così stravolta nei suoi pensieri e nei suoi sentimenti!
Stasera, ricevendo la benedizione, chiediamo questa grazia: «Fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra». Gesù, finalmente, vincete la mia testardaggine, la mia cocciutaggine, le mie idee! «Fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra»; «Non sicut ego volo, sed sicut tu»23.
Dovremo ancora umiliarci, perché non sappiamo neppure sopportare la puntura di un ago o la puntura di una parola di persona che forse non riflette o poco ci ama. Umiliamoci, perché la nostra virtù è ancora poca. Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra!

IV
MEZZI PER FARE LA VOLONTÀ DI DIO *


Abbiamo considerato in questi giorni come la perfezione si riduca a questo: sia fatta la volontà di Dio!
Bisogna ristampare il libro, già stampato al principio dell’Istituto, libro scritto appositamente su questo argomento: compiere sempre il volere di Dio1. Sarebbe bene che una Figlia di San Paolo lo rivedesse e lo aggiornasse.
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Il libro è un po’ vecchio, ma il contenuto è di attualità e lo sarà fino alla fine del mondo, cioè è sempre giovane per quanto passino i tempi, per quante spiritualità nascano, per quanti suggerimenti diano, e non si uscirà mai da questa strada per conseguire la vera santità: fare la volontà di Dio.
L’estate scorsa sono andato nel Veneto e ho avuto di nuovo occasione di passare da Riese dove nacque S. Pio X. Con altre due persone, sono andato a vedere la casa. Dopo aver visitato tutti i ricordi che fanno rivivere bene la vita, il lavoro pastorale e i meriti del grande santo, uno di quelli che mi accompagnava disse: È proprio vero, la santità è sempre la stessa: fare la volontà di Dio. La volontà di Dio, quella che il Signore ci ha assegnato, cioè corrispondere ai disegni che il Signore ha sopra di noi.
Sopra di voi il Signore ha disegni di amore e di sapienza avendovi dato una vocazione così speciale, conforme agli attuali bisogni della Chiesa e conveniente per i tempi moderni. Corrispondere: compiere cioè la volontà di Dio. È vero che prima non si parlava di cinema, cinquant’anni fa non si parlava di radio né di televisione, ma sempre si parlava di volontà di Dio. Quindi l’oggetto può cambiare, ma rimane ciò che è essenziale e ciò che in filosofia chiamiamo informale. L’atto esterno conta poco, ciò che conta è l’amore con cui si fa, il fine per cui si opera: fare la volontà di Dio. E se un giorno dobbiamo fare la volontà di Dio girando la macchina del film e un altro giorno dobbiamo fare invece il catechismo in parrocchia, tutto questo è zelo, non cambia la santità: la santità sta nel fare
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la volontà di Dio secondo il tempo attuale, secondo la nostra vocazione.
Prendere le Costituzioni, leggerle e rileggerle. L’inconveniente attuale nelle nostre famiglie [paoline] è la devozione un po’ tiepida riguardo alle Costituzioni. Negli altri istituti si parla molto di più della santa Regola e delle Costituzioni. Forse questo dipende dalla circostanza attuale e cioè, essendo la Congregazione ancora giovane e dovendo ancora ricevere un po’ di formazione, spesso viene dato l’indirizzo, vengono scritte lettere, articoli nel periodico interno e si è molto portati ad ascoltare ciò che vien detto.
Ho saputo anche che state riprendendo certe esortazioni sopra pellicola per mandarle alle case. Non vorrei però che avvenisse un altro inconveniente: badando troppo alle cose che si dicono oggi, si rallentasse un po’ la devozione alle Costituzioni. È proprio una devozione quella delle Regole, ma non una devozione, bensì la devozione, e che è da conservarsi: compiere la volontà di Dio sopra ciascuno di noi nel momento in cui siamo nati.
Anche Maria ebbe una vocazione speciale, tanto diversa. Ella ha inaugurato la vita religiosa, e tuttavia anche per lei la santità consisteva proprio in questo: fare la volontà di Dio; era tutto lì. La sua santificazione richiedeva, come richiede per ogni altra persona, il compimento della volontà di Dio. Consideriamo i mezzi per disporre la nostra volontà alla volontà di Dio. Sono vari. Il mezzo principale è l’Eucaristia, o meglio la pietà eucaristica: la Messa, la Comunione, la Visita al santissimo Sacramento.
La Messa. Nella Messa abbiamo la rinnovazione della passione e morte di Gesù Cristo. Gesù
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che compie la volontà del Padre celeste, nella Messa comunica specialmente questa disposizione: amare il Padre, amare Dio fino a immolarsi totalmente; e amare il prossimo fino a spendersi e consumare le energie, le forze e la salute: amare le anime. La Messa ci rappresenta proprio al vivo e nel punto culminante come Gesù ha compiuto la volontà del Padre celeste: dare la sua vita per la gloria del Padre, «gloria a Dio nei cieli»; e per le anime, «e pace agli uomini di buona volontà»2.
La Comunione. Come opera la Comunione, come dispone la nostra volontà? La Comunione sta precisamente nell’unire la nostra volontà alla volontà di Dio. Vi sono persone che fanno sempre la Comunione, sono sempre in comunione con Dio tanto più nel momento in cui ricevono sacramentalmente il corpo, il sangue, l’anima, la divinità di nostro Signor Gesù Cristo. E vi sono persone che anche quando fanno la Comunione non la fanno in realtà, perché non si uniscono veramente in modo totale a Gesù.
L’Adorazione. Visita al santissimo Sacramento. La nostra Visita, come è organizzata, è proprio ordinata a uniformarci totalmente alla volontà di Dio per mezzo di Gesù Cristo. Detestare in primo luogo, per mezzo dell’esame di coscienza, quello che non è conforme a Dio, proporre, cioè uniformarsi alla volontà di Dio e pregare perché possiamo compiere veramente il volere di Dio. In ultimo ricorrere a Maria, perché con la sua intercessione ci ottenga di abbracciare e vivere totalmente il volere di Dio.
1. Primo mezzo è la santa Messa. È divisa in tre parti: la prima parte è istruttiva o
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didattica; la seconda parte è sacrificio, il centro è la Consacrazione; la terza parte è unitiva perché la Comunione ci unisce a Gesù.
La prima parte della Messa unisce la nostra mente con la mente di Gesù, perché non dobbiamo fare la volontà di Dio solo negli atti esterni, [ad esempio]: adesso hanno battuto le mani e si va in chiesa; adesso è ora del silenzio e tutti devono tacere. No, la volontà di Dio si estende anche agli atti interni, cioè unire la nostra mente alla mente di Gesù, conoscere Gesù, prestar fede alle sue parole, sentire, acconsentire e pensare secondo Gesù. Se ad esempio [una suora] ha pensieri contro la carità, non compie la volontà di Dio, ancorché all’esterno si mostri gentile con quella persona. Se internamente ha il cuore tutto in ebollizione o è mossa da invidia, o da spirito di contraddizione, o da nervoso contro quella, non vale, non compie la volontà di Dio. Ma dice: Ciò è solo interno, esternamente le porto ugualmente la minestrina... E, sì, ma il Signore vede il cuore e vede con che disposizione porti la minestrina… Qualcuno viene ad annunziare: In parlatorio c’è la tal persona che aspetta... Oh, è venuta a disturbare di nuovo! Non ha niente da fare quella… E si critica. Poi va in parlatorio malvolentieri e dice: Oh, quanto sei buona, quanto mi piace che sei venuta a trovarmi!... La volontà di Dio [così] nell’interno non si fa.
Quanti pensieri contro il volere di Dio, quanti pensieri che non sono i pensieri di Gesù, che non sono i pensieri del Vangelo! Se analizzassimo le Beatitudini3 e ci interrogassimo: Penso io come Gesù? Quale [sarebbe la] risposta? «Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli». E noi pensiamo proprio così quando ci manca
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quella cosa? «Beati i miti». E lo dici mentre hai il cuore pieno di irritazione e mentre i nervi sono tesi? Proprio stamattina ho chiesto: Come mai mangi il pane senza niente? Mangio pane e nervi quest’oggi. Ecco la risposta data. Altro che mitezza! Perché? Perché era stata dimenticata la chiave e aveva dovuto aspettare un po’ alla porta prima di entrare. «Beati quelli che soffrono». Ma dì un po’, pensi proprio così? Pensi proprio come Gesù? «Beati quelli che piangono». Ma per te sembra più beato chi ride. «Beati quelli che sono mal veduti, contro i quali si dice ogni male». Pensi proprio così quando qualcuno ha osservazione da farti, ecc.? Questa volontà di Dio interiore, di pensare come Gesù, da che cosa dipende? Dipende dalla prima parte della Messa: Epistola e Vangelo, ogni giorno una Epistola, ogni giorno un Vangelo per indurci a pensare come Gesù. E dopo aver letto che cosa c’insegna Gesù nel Vangelo, che cosa c’insegna l’Epistola, domandarci: Penso così? Quindi nella prima parte della Messa si chiede di fare la volontà di Dio interiormente: pensare come Gesù, come Dio. Viene poi la seconda parte: la parte sacrificale. I comandamenti di Dio fondamentalmente sono due: «Amerai il Signore Dio tuo con tutta la mente, con tutte le forze, con tutto il tuo cuore, amerai il prossimo come te stesso»4. Gesù ha amato il Padre con tutto se stesso e quindi lo amò fino ad immolarsi, Gesù ha amato le anime senza limiti e perciò: «Dilexit me et tradidit semetipsum pro me: Mi amò e andò a morire per me»5.
In questa parte chiedere l’amore di Dio che non si riserva nulla, quell’amore che ci
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porta ad accettare fatiche, dolori, privazioni e la morte con lo spirito di Gesù. L’assistenza migliore a una malata grave non è tanto di accumulare giaculatorie, ecc., è portare [a fare] atti di fede, speranza, carità e dolore con brevi giaculatorie, come sono nel libro delle preghiere. Poi, se il malato prolunga la sua infermità, leggere il brano del Vangelo sulla passione dolorosa di Gesù Cristo. Morire con lo spirito di Gesù, in Cristo Gesù e ugualmente amare le anime fino a sacrificarsi per loro: «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Gesù ci amò e s’immolò. La parte sacrificale della Messa ci indica, ci ricorda i due grandi precetti della carità.
Poi viene la terza parte, la parte unitiva. Ci uniamo a Gesù: uniamo la volontà, il cuore, la mente e chiediamo di stare uniti a Gesù, non soltanto in chiesa ma per tutta la giornata. La parte unitiva ha il suo centro nella Comunione. Ecco il primo mezzo: ascoltare bene la Messa per uniformarsi al volere di Dio, per compiere la volontà di Dio, sempre.
Nella vita vi sono proprio tante cose che vengono sprecate, tante grazie e tanti meriti che si lasciano sfuggire, perché non siamo sempre sereni nel volere di Dio, e non facciamo come il girasole che ha sempre il fiore rivolto al sole. Il sole della volontà di Dio risplenda sempre!
2. Secondo mezzo è la Comunione. La Comunione nostra può essere superficiale, parziale e può essere totale. Quando la Comunione è totale? Quando ci uniamo a Gesù con la mente, con la volontà, con il cuore. Può essere che si riceva l’Ostia come la riceve la pisside, la quale contiene le ostie ogni giorno e non si santifica: questo è un modo materiale di ricevere l’Ostia
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santa. E può essere che si riceva la Comunione senza preparazione e senza ringraziamento, e allora la Comunione porterà scarso, scarsissimo frutto. Se l’anima è in grazia di Dio, sempre in lei la grazia aumenta un po’, perché è Comunione e il frutto viene dal sacramento.
Alle volte la Comunione è fatta solo con il cuore, con atti di amore che sono solamente sentimentalità di cuore. Vi sono Comunioni invece, che portano all’aumento di fede, uniscono il pensiero, la mente nostra a Gesù. La Comunione ha come primo fine di unire la nostra mente a quella di Gesù, cioè di sostituirla con la mente di Gesù, lasciare che Gesù viva in noi, e produca i frutti di santità, i frutti di fede, porti in noi la sapienza celeste. Vivere Gesù non vuol dire vivere soltanto la vita vegetativa e sensitiva, ma specialmente la vita intellettiva e la vita di fede, cioè intellettiva soprannaturalmente, nelle verità, negli insegnamenti di Gesù. Perciò la Comunione deve essere fatta con la mente: Signore, cambiate la mia maniera di pensare!
I peccati di testa, di mente, possono essere tanti; si può mancare con la mente contro ogni virtù: contro la fede, la speranza, la carità; contro la povertà, la castità, l’ubbidienza, l’umiltà, contro la prudenza, la giustizia, la temperanza, la fortezza, contro le virtù morali. E possono essere compiuti con la mente atti virtuosi riguardo a tutte le virtù, cioè esercitare la mente in atti di fede, di speranza, di carità, esercitare la mente in pensieri santi, in pensieri umili, ecc. Che Gesù viva in noi, che possiamo pensare come lui. Questa è la prima parte della Comunione, non una sentimentalità vaga
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che lascia che si continui poi a vivere come prima. Ma se non ci trasformiamo a poco a poco in Gesù Cristo, la Comunione non porterà i suoi frutti. Pensare così: se c’è nell’orto una pianta selvatica, supponiamo un pero, un melo che dia frutto scarso, brutto, poco gustoso, si innesta e allora invece di dare i frutti di prima darà i frutti dell’innesto, cioè i frutti della pianta da cui si è distaccato l’innesto. «Noi siamo olive selvatiche, dice S. Paolo, l’innesto è Gesù Cristo»6. Dopo la Comunione si dovrebbero portare i frutti di Gesù. Siamo altro che olive selvatiche noi! Quante passioncelle ci sono in questo cuore! Quanti pensieri strani! Guai se prendessero la fotografia dei nostri pensieri! Che cosa ne verrebbe fuori? Qualcuno avrebbe da nascondersi: Oh, pensieri così? Ebbene, coltiviamo i pensieri di Gesù.
Comunione con la volontà così da uniformare le nostre opere alle opere di Gesù: ieri eravamo tiepidi, oggi siamo fervorosi; ieri eravamo disobbedienti, oggi diventare obbedienti; ieri amavamo poco la povertà, oggi siamo attenti a osservarla bene; ieri poca delicatezza, oggi la delicatezza di Gesù. Così della carità, della pazienza con tutti. Alla Comunione: voglio divenire come Gesù, un altro Gesù, che Gesù viva in me.
Comunione con il cuore: uniformare i nostri sentimenti ai sentimenti di Gesù, sostituire al nostro cuore il cuore di Gesù. Come era il cuore di Gesù? Il cuore di Gesù era un cuore umile: «Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore»7, era un cuore pieno di bontà, generoso, amante. Era un cuore che amava il soffrire, assetato di
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patimenti, e quanto più si avvicinava la Passione, tanto più egli ne era disposto, non solo, ma desideroso: «Devo essere battezzato di un battesimo nuovo e soffro adesso che ritarda il momento che questo si adempia»8. Ecco Gesù!
Che il cuore sia santificato, che tutto quel groviglio di passioni siano regolate. Amare, ma amare Dio, amare le anime. Odiare, ma odiare il peccato e tutto ciò che conduce al peccato. Dobbiamo togliere certi sentimenti e cambiarli in sentimenti buoni, cambiare il cuore: «Vivit vero in me Christus».
La Comunione deve portare la vita di Gesù Cristo in noi: la vita intellettuale, la vita pratica con la volontà e la vita di sentimento, in modo che poco per volta, man mano che passano gli anni acquistiamo la mentalità di Gesù, la volontà di Gesù, il cuore di Gesù. Ecco il frutto della Comunione: «Fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra»9. La volontà di Dio nell’interno: nella mente, nella volontà, nel cuore e nell’esterno, intendiamo dire anche nell’apostolato.
3. Terzo mezzo per acquistare l’uniformità alla volontà di Dio è la Visita al santissimo Sacramento. Vedere come si va alla Visita. A un certo punto siamo stanchi della giornata, l’anima nostra ha dovuto sostenere battaglie nell’interno, nel cuore, nella mente. Finalmente viene il momento di andare da Gesù e di riposare un po’ nel suo cuore e metterci in relazione diretta con lui. Come facciamo con il tubo dell’acqua potabile? Al rubinetto stiamo in comunicazione con il deposito delle acque che può essere anche molto lontano, e prendiamo l’acqua che ci serve. Nella Visita
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ci mettiamo in comunicazione spirituale con Gesù e dobbiamo attirare Gesù in noi: 1) detestando nell’esame di coscienza ciò che è contrario a Gesù; 2) abbracciando ciò che è conforme a Gesù con propositi veri; 3) domandando i suoi doni, specialmente che la Visita porti in noi la pace, e la vita nuova, e quella nuova volontà che ci uniforma alla volontà di Dio stesso. Chiediamo nella prima parte anche l’aumento di fede, l’aumento di istruzione spirituale.
Considerare: quando comincia la Visita al santissimo Sacramento? Alle otto, alle sette? Comincia quando ti sei messa in comunicazione con Gesù e cioè sei entrata nell’intimità. Alle volte comincia subito, alle volte tarda, bisogna battagliare dei quarti d’ora, delle mezze ore per allontanare gli altri pensieri. Propriamente è Visita quando riusciamo a metterci in comunicazione diretta con Gesù, dovessimo anche dire dal principio alla fine: Fatemi santa… Datemi il dolore dei peccati… Signore, abbiate misericordia di questa peccatrice… Dovessimo anche dire: Signore, vedi quanto sono debole, sii tu la mia luce, la mia forza; dovessimo anche ripetere la coroncina Vergine Maria Madre di Gesù, fatemi santa, fino alla fine. Quando entriamo nell’intimità con Gesù, realmente allora comincia la Visita.
Consideriamo che cosa avviene nella casa di Marta, Maria e Lazzaro. Mentre Marta si dà alla vita attiva per preparare il ristoro per Gesù e per gli apostoli, Maria prende Gesù da parte, lo introduce in una camera appartata dove non arrivava il rumore e il parlare degli uomini, siede ai suoi piedi e incomincia una conversazione di intimità con lui. Pensiamo che abbia parlato della sua vita
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cattiva trascorsa e che Gesù le abbia fatto vedere la bruttezza, la deformità di quella vita e nello stesso tempo le abbia comunicato un grande amore.
Amore forte che dimostrò quando ai piedi di Gesù, baciandoglieli e lavandoli con le sue lacrime li asciugò con i capelli e li profumò con l’unguento10. O più ancora, quando andò al sepolcro di Gesù tutta tesa a cercarne la salma. E senza voltarsi indietro ai passi che sentiva, rispose a colui che credeva l’ortolano, e solo quando Gesù la chiamò per nome: Maria, ella riconobbe la voce del Maestro e con grande espressione d’amore esclamò: Rabboni! che vuol dire: Maestro buono11.
Entrare nell’intimità con Gesù. La mia mente pensa come te? Io opero come tu operavi? Io sono veramente tutta tua, oppure tu vedi ancora tante fibre del mio cuore che non sono tue, tanti pensieri che non sono come i tuoi, dei modi di parlare che tu non avresti usato? E vedi in me dei sentimenti, dei movimenti, delle azioni che sono difformi da te?
[Continuare nel]l’esame di coscienza: Signore, illuminate-mi, fate che io mi conosca: «Conosca me per disprezzarmi, diceva S. Agostino, e conosca te per amarti sempre di più»12. L’esame di coscienza, il dolore, i propositi, i desideri, le suppliche, allora si succedono. Cinque minuti di questa Visita suppliscono alle volte ai cinquantacinque minuti in cui si è stentato a entrare in quella intimità. E l’anima esce rinfrancata: Voglio vivere come Gesù, mi parto da questo altare, ma il mio cuore, la mia mente
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restano qui, il mio proposito in ogni istante è ancora quello che mi hai suggerito qui.
Oh, fortunate voi! Se non avete ancora ringraziato il Signore perché non vi ha imposto altre pratiche di pietà, ma vi ha dato la Visita al santissimo Sacramento, ringraziatelo adesso. Che bel dono! Questa pratica, questa prescrizione delle Costituzioni è stata maturata per circa vent’anni. Vedete il Signore come è stato buono, come vi ha amato e come vi ha preparato le grazie prima che, almeno quasi tutte, nasceste?
Allora ecco i tre mezzi principali per acquistare l’uniformità alla volontà di Dio: Sia fatta la tua volontà, sia fatta tutta la volontà di Dio, interiormente ed esteriormente, con la volontà, con la mente, con il cuore, finché ameremo il Signore davvero con mente, volontà e cuore e il prossimo come lo ha amato Gesù. Gesù è il Figlio di Dio, «Qui propter nos homines, et propter nostram salutem, descendit de coelis. Et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine: et homo factus est. Crucifixus etiam pro nobis… »13 (liturgia romana). È morto sulla croce. Acquistare il cuore, la mente, i desideri, i disegni di Gesù. Vivere Gesù! E la vita di Gesù è questa: «Gloria a Dio, pace agli uomini», tutto il programma della sua vita.
Viene utile adesso conchiudere: preghiamo a vicenda perché con questa devozione eucaristica maturiamo la nostra santità. La devozione non produce frutto se non arriva a questo: sia fatta la volontà di Dio! Vi sono anime che hanno devozione eucaristica anche quando non possono ascoltare la Messa, forse non possono fare la Comunione e tanto meno possono fare la Visita. Si uniscono a Gesù nel tabernacolo anche di lontano,
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seguono spiritualmente la Messa e fanno la Visita a loro modo, cioè entrano in intimità con Gesù, quell’intimità in cui è entrata Maria là a Betania nella casa fortunata che spesso dava ospitalità a Gesù. Può essere che una Visita ci migliori tanto e può essere che dalla devozione eucaristica ricaviamo invece poco frutto. Vedete, Zaccheo era un uomo da soldi e non aveva tanti scrupoli di coscienza! «Ma Gesù, quando lo vide sulla pianta, gli disse: Zaccheo, presto, scendi, oggi vengo a casa tua. E Zaccheo discese in fretta e accolse Gesù con gioia. Ma Gesù di fronte a lui, gli dava certi sguardi! e intanto gli faceva fare l’esame di coscienza. A un certo punto Zaccheo non poté più trattenersi, il suo cuore era pieno: Maestro, ho rubato: restituisco quattro volte tanto; se ho rubato dei beni di fortuna e vi sono troppo attaccato, ne darò metà ai poveri. E Gesù: Oggi in questa casa si è fatta la salute, cioè è entrata la santità: Hodie huic domui salus facta est»14. Vedete un po’ se in noi le Visite producono questo effetto, se la Messa porta questi frutti, se la Comunione ha questi vantaggi. Siate sempre più eucaristiche!
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V
MALATTIA: TEMPO DI SANTIFICAZIONE *


Il Signore quando dispone qualche cosa per noi sempre ha un suo fine di amore, sempre intende che raggiungiamo la santità: «Omnes sancti per multas passiones et tentationes transierunt et proficierunt: Tutti i santi hanno avuto molte tentazioni e sofferenze e attraverso le tentazioni e le sofferenze hanno progredito»1. Si guadagna più in una tentazione vinta che in un pacifico possesso delle virtù, e se noi amiamo la lotta progrediremo più presto. Le tentazioni sono svariatissime. Il Signore le permette come le ha permesse a Gesù, suo divin Figlio. Ha permesso che il demonio s’accostasse a lui e lo tentasse con tre tentazioni: una riguarda la superbia, l’altra la concupiscenza della carne e l’altra l’avarizia2.
Il Signore permette molte tentazioni anche ai santi e perciò non c’è da stupirsi, da scoraggiarsi, se vi sentite tentati, purché noi non ne diamo volontaria occasione e ricorriamo a Dio. I santi sono passati per molte prove. Alcuni sono passati attraverso sofferenze più intime, interiori, altri attraverso sofferenze esterne, ad esempio malattie o contraddizioni o calunnie da parte degli uomini. Il Signore non ci abbandona e ci dà occasione di merito. Quando S. Antonio del deserto fu preso da tentazioni così violente che non sapeva più se avesse vinto o se avesse acconsentito, ad un certo punto venne liberato e tornò il sereno nell’anima sua. Egli allora si rivolse al Signore: Dove eravate, Signore, mentre ero così
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tentato, e mi trovavo così agitato, così assalito in tante parti?. E lui: Ero vicino a te e sono io che ti ho dato la forza, la grazia per vincere.
Il Signore permette alle volte sofferenze. Quando si ammalò Lazzaro, amico di Gesù, e lo sollecitavano a recarsi a Betania per guarirlo, Gesù disse: «Infirmitas haec non est ad mortem sed per gloriam Dei»3. Quante malattie non sono per morire, ma per la gloria di Dio! Consideriamo che la nostra salute è nelle mani di Dio, come dice l’Oremus pro infirmo: «Signore, nelle cui mani decorre la nostra vita…», e cioè: Signore, che sai come la nostra vita è nelle tue mani…
Il Signore permette malattie perché uno abbia del tempo per riflettere; è una grazia, se è guardata con fede. La malattia è un richiamo di Dio, è un’occasione di maggiori meriti, è un tempo adatto per fare gli Esercizi spirituali, cioè entrare in noi stessi e considerare il motivo per cui il Signore permette la malattia. Forse per castigare il nostro orgoglio, l’eccessiva confidenza in noi stessi, forse perché siamo troppo distratti e abbiamo bisogno di un tempo di riflessione. Per chi ha buona volontà, la malattia è un tempo di santificazione, è misericordia concessa da Dio per dare spazio di tempo per la penitenza dei peccati, per riflettere su di noi, per raccoglierci maggiormente e vivere più uniti a Dio.
Abituarci a fare la volontà di Dio non solo quando si sta bene, ma anche quando non stiamo bene. Occorre che, da una parte noi non esigiamo troppo dal corpo: quando è malato, è malato; bisogna però che non siamo troppo arrendevoli e preoccupati per la salute. Tanto tutto è nelle mani di Dio. Molti nella malattia peggiorano
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e molti, specialmente quelli che hanno fede, migliorano. Per noi che cosa ha fatto la malattia? Vi sono mali che abbiamo da cinque, dieci, trenta anni: li abbiamo santificati? Abbiamo portato la croce con Gesù? Tre pensieri ci gioveranno:
1. Il ricordo del paradiso, cioè pensare che Gesù «proposito sibi gaudio sustinuit crucem: Gesù essendosi proposto di arrivare a quella gloria, a quel posto che gli aveva destinato il Padre celeste, portò la croce»4.
Il paradiso! Ogni minima nostra sofferenza presa bene dalle mani di Dio ha un merito e una gloria eterna: «Non sunt condignae passiones huius temporis ad futuram gloriam»5. Non vi è proporzione fra il poco che si deve soffrire, fosse pure una malattia di cinquant’anni e il gran premio che è preparato in cielo, non vi è proporzione, perché il Signore pagherà con misura buona, abbondante, strabocchevole. Il primo pensiero per[ottenere] la pazienza è di pensare al paradiso. È brutta la terra, ricordiamolo sempre più, ed è bello il paradiso.
Il paradiso soddisfa tutti i nostri desideri. Quante lotte interne adesso ci fanno disperare, quante sofferenze esterne qualche volta ci sconvolgono l’anima perché siamo deboli! Ma il Signore è con noi, vede la nostra fragilità: «Signore, che sai come noi non ci teniamo in piedi per alcuna nostra forza, per la nostra virtù, ti chiediamo la grazia di soffrire con pazienza e di fare la volontà tua con fortezza, per l’intercessione del Dottore delle genti»6.
Guardiamo il paradiso. Lassù il Signore ha preparato cose che non possiamo nemmeno immaginare. Se il paradiso si potesse descrivere com’è, non sarebbe più paradiso. La nostra voce e i nostri
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pensieri sulla terra non possono salire a quel gaudio, a quella gioia nel conoscere, possedere e stare con Dio in quella patria beata, in quella celeste Gerusalemme. Sì, c’è bisogno di ricordarlo! Coraggio! Il paradiso s’avvicina. Quanto più soffriamo sulla terra, tanto più [avremo] da godere nell’eternità. Viviamo di fede, fissiamo nella mente l’articolo ultimo del Credo: Credo la vita eterna.
2. Il pensiero del Crocifisso, che ci consola nelle nostre sofferenze le quali, per quanto siano grandi, sono sempre immensamente inferiori a quelle di Gesù. Egli ha sofferto una passione interna. Pensiamo solo alla pena che deve aver provato quando egli sentì Pietro, suo vicario, dire: «Non conosco quest’uomo; giuro che non lo conosco; non so chi sia»7; tre volte rinnegato da colui in cui aveva poste le sue confidenze. Qualche volta Gesù è proprio ferito da certe nostre mancanze, perché confida in noi, ha fiducia e vuole stabilire la sua dimora, fare una santa amicizia con l’anima consacrata a Dio. Eppure quest’anima quante volte lo ferisce! Dice il salmo: «Se fosse stato il mio nemico, l’avversario a usarmi questa ingratitudine, l’avrei sopportato, ma tu che mangiavi alla mia mensa!...»8. E a noi dice: Tu che fai la Comunione, partecipi alla mensa che ho preparato per te, tu che eri mio confidente e che ti protestavi mio amico!... Gesù si lamenta: Ecco quel cuore che ha tanto amato gli uomini, e che spesso non riceve che ingratitudini e sconoscenze, e ciò che più mi dà pena è che queste mi vengono da persone a me consacrate.
Quanto fanno soffrire Gesù i nostri peccati, i peccati
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di anime consacrate a Dio! Ricordare il Crocifisso: le sue pene interne ed esterne. Ridotto allo stato di un verme: «Vermis sum et non homo, abiectio plebis»9, il disprezzo della plebe. Pensiamolo Gesù sul Calvario fra due ladroni, appeso a pochi chiodi, agonizzante, tormentato dalla sete e da una febbre altissima, insultato da chi gli sta attorno, Gesù che a un certo momento sentì quasi di essere abbandonato anche dal Padre: «Ut quid dereliquisti me?»10. Le sofferenze nostre potrebbero paragonarsi a quelle di Gesù? Guardare il Crocifisso. Pensiamo che dal cuore sacratissimo di Gesù, aperto dalla lancia, esce una forza nuova per sopportare il male. Diceva un malato: Non avrei mai pensato che si potesse soffrire tanto e che io avessi avuto la forza di sopportare con pazienza questo male così grave. Ma il Signore dà la grazia secondo il bisogno. Qualche volta, pensandoci in punto di morte, ci sembra quasi che non possiamo rassegnarci. Ora non ci è data quella grazia perché non ne abbiamo bisogno, quando verrà quel momento, il Signore ce la darà. Così non dà la forza di sopportare il male quando non si ha, ma dà la forza di sopportarlo quando se ne è colpiti.
3. Il terzo pensiero deve venirci dalla devozione a Maria e dalla devozione a S. Paolo. Dalla devozione a Maria, considerandola nel momento in cui si trova ai piedi della Croce e riceve il grande ufficio: «Donna, ecco il tuo Figlio»,11 quando Gesù la elesse Madre nostra, Regina nostra, Regina degli Apostoli. Noi siamo nati nel suo cuore, nel dolore, nel momento in cui: «Tuam ipsius animam pertransibit gladius»12, una spada di dolore trapassava il cuore di Maria. È nel dolore
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che ci vengono donate le maggiori grazie. In seguito a quella sofferenza, a quella ingratitudine, a quella dimenticanza, a quella incomprensione, ci sta la grazia; sappi sopportare e vedrai quanto bene ti apporterà la sofferenza. Nel dolore Maria riceve l’incarico di Regina e Madre di tutte le vocazioni, Regina e Madre di tutti gli apostolati.
Ora domandiamoci: Amo davvero le anime? Si possono amare le anime ed esercitare l’apostolato del buon esempio, l’apostolato della parola, l’apostolato delle edizioni, l’apostolato della preghiera, ma dove si conosce se noi amiamo davvero le anime? È nel dolore, se esercitiamo cioè anche l’apostolato della sofferenza: la passione nostra unita alla passione di Gesù Cristo. Egli salì al Calvario. Là Maria Addolorata per i suoi dolori diviene Madre di tante anime e di tante vocazioni.
Non lamentarsi: Non posso più fare l’apostolato, non posso più essere nei doveri comuni. È vero, ma puoi esercitare l’apostolato della sofferenza. Quando si arriva ad esercitare questo apostolato con rassegnazione, in pace: «Ecce in pace amaritudo mea amarissima»13, allora è segno che vogliamo proprio bene alle anime. Solo dire delle parole non è il più: può essere dimostrazione di affetto o anche zelo, ma non si può dubitare se veramente amiamo le anime, quando sappiamo soffrire per loro. Non puoi più fare quest’opera di zelo o quell’altra, ma puoi offrire le tue sofferenze in unione alle intenzioni che Gesù ha nell’immolarsi sull’altare nella Messa. Ecco il tuo apostolato! Offri anche le tue sofferenze per le sorelle che stanno lavorando affinché il Signore le protegga dal
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male, le santifichi e dia frutti nel lavoro di apostolato che compiono.
Pensare a Maria e pensare a S. Paolo. S. Paolo è veramente un martire. Chi può contare le sue sofferenze? Le racconta egli stesso: fu contraddetto, flagellato, ricevette battiture, fu cercato a morte; quante volte fu mal interpretato, tradito, anche dagli amici; malato, fu dimenticato da tutti, tanto che soffriva il freddo e neppure aveva chi gli portasse una coperta, un vestito un po’ più pesante. E dopo aver lavorato tanto e aver corso in tante parti del mondo, ed aver fondato tante chiese, e santificato tanti discepoli, eccolo abbandonato: «Mi hanno lasciato tutti meno uno»14.
Pensiamo che cosa vuol dire questo? Voi avete una casa di benedizione15. Che cosa si poteva fare di più per alleviare i vostri mali sia interni, sia spirituali e fisici? Quale benedizione e quale nido caldo avete trovato qui! Pensiamo a S. Paolo in carcere, al freddo, privo del necessario; quando non ci vedeva quasi più, quando aveva un tremito continuo per il suo esaurimento, a quella età, date le fatiche che aveva compiuto e le sofferenze sostenute! Oh, sta bene la preghiera a S. Paolo per la pazienza16! La pazienza quotidiana più con noi che non con gli altri, ed è la più difficile; avere pazienza con noi e sopportare anche i nostri difetti oltre che le malattie fisiche; sopportare le punture più intime che vanno a ferire il nostro cuore e nessuno vede o comprende e nessuno lenisce fuori che Gesù. Uniamoci a Gesù nel Getsemani, quando sudava sangue e offriamo le nostre pene:
a) In isconto dei peccati. Meritavo molto di più! Signore,
se basta questo per scancellare il purgatorio, faccio ora questo
patto, pur di evitare quelle fiamme.
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b) Per operare più efficacemente nella Chiesa, nello spirito di S. Paolo: «Adimpleo ea quae desunt passionum Christi… pro corpore ejus quod est Ecclesia: Io compio nel mio corpo ciò che manca alla passione di Gesù Cristo per le anime che costituiscono la Chiesa»17.
c) Per aumentare i nostri meriti per la vita eterna. A ogni goccia di dolore corrisponde una gemma più bella nella nostra corona.
d) Porto la croce, ma non sono solo, c’è Gesù con me. Egli è colui che porta la parte più pesante con me. Non guardare a destra e a sinistra, non cercare consolazioni umane, guarda a Gesù che si è caricato della parte maggiore delle tue sofferenze e ti dà forza.
e) Pensa ai dolori della tua Madre celeste, Maria. Vogliamo noi trovare una strada per entrare in paradiso, una strada diversa da quella percorsa da Gesù, da Maria e dai santi?
Il Signore ci dia la grazia della croce. È una grande scienza quella della croce; vi sono anime che non l’imparano mai, mentre sanno tante altre cose, tante notizie e magari sono capaci di parlare di molte cose e di avere anche studiato molto. La scienza della croce viene dal Crocifisso, dal tabernacolo, dall’Addolorata nostra Madre e Regina, da S. Paolo.
Fare la volontà di Dio: ecco tutto quello che abbiamo cercato di meditare. Ora ciò che è suonato all’orecchio, Gesù ce lo faccia penetrare nell’anima e ce lo converta in buoni propositi, in santa volontà. Che alla fine siamo trovati simili a Gesù crocifisso: «Conformes fieri imagini Filii sui»18. Si salvano le anime che si presentano al Padre19 segnate dalla croce, perché
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portano il segno del Figlio suo. Il segno del Figlio di Dio è la croce.
Veniamo anche a dolerci se non abbiamo ancora avuto parte alle sofferenze di Gesù, se non abbiamo ancora ricevuto da Gesù il segno della croce nella nostra carne, nel nostro spirito; temiamo di essere abbandonati da Dio, perché il Padre che ama suo Figlio, lo amò così da dargli la croce e lasciarlo morire sulla croce. Temo che mi abbiate abbandonato, diceva quel santo quando alla sera, ripensando alla giornata, non aveva sofferto, vi siete dimenticato di me?.
Prendiamo la croce come segno del suo amore, un segno che Gesù è con noi e ci aspetta in paradiso. Là, sono tutti crociati i santi e i beati, tutti segnati dalla croce: sulla fronte, perché hanno fatto la volontà di Dio con la mente; nel cuore, perché hanno fatto la volontà di Dio con il cuore; su tutta la persona, perché hanno fatto la volontà di Dio con la loro volontà.
Adoriamo sempre la volontà di Dio. Chi si piega a fare la volontà di Dio, fa un atto di adorazione, riconosce Dio suo supremo padrone, e padrone di disporre di noi sia per la vita sia per la morte. È un atto di adorazione che può essere fatto anche lontano dalla chiesa. È un atto di riparazione per i nostri peccati. È un atto di ringraziamento perché Gesù ha sofferto per noi. È un atto di domanda: compiere solo la volontà di Dio.
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* Albano, 12 dicembre 1954.

1 1Cor 3,19.

2 Cf Mt 6,16.

3 Cf Lc 1, 38: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto».

4 Cf Mt 2,13.

5 Cf Mc 6,2-3.

6 Cf Lc 2,48-50.

7 Cf Fil 2,8: «…facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce».

8 Cf Lc 12,40.

9 Cf Sal 122,1.

10 Ibid.

11 Cf Lc 23,46.

12 Cf 1Pt 4,8.

13 Cf Mt 6,16.

* Albano, 13 dicembre 1954.

1 Cf Fil 2,8-11: «Cristo si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sottoterra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre».

2 Cf Gv 6,44: «Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato».

3 Cf Lc 1,46: «L’anima mia magnifica il Signore».

4 Cf S. Francesco di Sales (1567-1622), vescovo e Dottore della Chiesa, in Filotea o Introduzione alla Vita devota, III, 23.

5 Cf At 16,9.

6 «Dio si è fatto uomo, affinché l’uomo divenisse Dio». Cf S. Ireneo, Adversus Haereses, III, 19,1.

7 Cf Sap 8,1: «Essa si estende da un confine all’altro con forza, governa con bontà eccellente ogni cosa».

8 Cf Ef 1,4: «In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità».

9 Cf Gv. 19, 30: «E, chinato il capo, spirò».

10 Questa massima può considerarsi la sintesi della dottrina spirituale contenuta nell’Imitazione di Cristo. Molti santi l’assunsero come regola di vita.
* Albano, 13 dicembre 1954.

1 Cf Mt 6,10.

2 Cf Mt 26,21.

3 Cf Lc 22,19-20.

4 Cf Mc 14,31.

5 Cf Mt 26,34.

6 Cf 2Cor 5,21.

7 Cf Mt 26,40-41.

8 Cf Mc 14,40: «Perché i loro occhi si erano appesantiti».

9 Cf Mc 14,42.

10 Cf Lc 22,43.

11 Cf Mc 14,59.

12 Cf Mt 26,63.

13 Cf Mt 26,64.

14 Cf Gv 2,4: «Non è ancora giunta la mia ora».

15 Cf Lc 4,28-30.

16 Cf Lc 22,53: «Questa è la vostra ora».

17 Cf Mt 12,34.

18 Cf Mt 22,18.

19 Cf Mc 14,64: «Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?... È reo di morte».

20 Cf Mc 14,65.

21 Cf Mt 26,39.

22 Cf Mc 15,18: «Salve, re dei Giudei».

23 Cf Mc 14,36: «Non come voglio io, ma come vuoi tu».
* Albano, 14 dicembre 1954.

1 Don Alberione rinnova, probabilmente, l’invito a ristampare il libro Il girasole di cui parla nella meditazione n. 32, nota 13.

2 Cf Lc 2,14.

3 Cf Mt 5,3-10.

4 Cf Lc 10,27.

5 Cf Gal 2,20.

6 Cf Rm 11,17.

7 Cf Mt 11,29.

8 Cf Lc 12,50.

9 Cf Mt 6,10: «Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra».

10 Cf Gv 12,1-3. La figura di Maria di Betania e di Maria Maddalena sembrano sovrapporsi in questa esposizione.

11 Cf Gv 20,11-16.

12 Cf S. Agostino, Soliloqui 1,2.

13 Dal Credo Niceno-Costantinopolitano: «Per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi».

14 Lc 19,1-10.

* Albano, 14 dicembre 1954.

1 Imitazione di Cristo, I, XIII, 1.

2 Cf Lc 4,1-13.

3 Cf Gv. 11,4: «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio».

4 Cf Eb 12,2.

5 Cf Rm 8,18: «Le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi».

6 Cf Le preghiere della Famiglia Paolina, ed. 1996, pp. 24 e 213.

7 Cf Mt 26,72.

8 Cf Sal 55,13.

9 Cf Sal 22,7: «Ma io sono verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo».

10 Cf Mt 27,46: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

11 Cf Gv 19,26.

12 Cf Lc 2,35: «E anche a te una spada trafiggerà l’anima».

13 Cf Is 38,15: «Ecco, si cambia in pace la mia più grande amarezza» (Volgata).

14 Cf 2Tm 4,16.

15 Don Alberione volle che si realizzasse in Albano Laziale nel 1948 «una struttura apposita, l’ospedale Regina Apostolorum, atta a curare le sorelle inferme e a orientarle ad offrire la loro sofferenza per la santificazione dei membri, per l’efficacia dell’apostolato e in riparazione del male commesso con gli strumenti della comunicazione sociale». Cf Costituzioni e Direttorio, Pia Società delle Figlie di San Paolo, ed. 1984, n. 65, nota 1.

16 Cf Le preghiere della Famiglia Paolina, ed. 1996, p. 213.

17 Cf Col 1,24.

18 Rm 8,29: «Conformi all’immagine del Figlio suo».

19 Originale: Gesù.