L'INFERNOGIORNO III
MEDITAZIONE II.
SACRA SCRITTURA
LE COLPE DEI FARISEIAllora Gesù, volgendosi alle turbe e ai discepoli, disse: Sulla cattedra di Mosè si assisero gli Scribi e i Farisei: osservate e fate adunque tutto ciò che vi diranno; ma non vogliate imitarli, ché dicono e non fanno. Difatti, legan pesi grandi e insopportabili e ne carican le spalle della gente: ma essi non li vogliono neppure muovere con un dito. Fanno poi tutte le loro opere per essere veduti: perciò portan più larghe le filatterie, più lunghe le frange: amano i primi posti nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe, ed i saluti nelle piazze, ed essere dalla gente chiamati maestri. Ma voi non vogliate essere chiamati maestri: perché
uno solo è il vostro maestro, voi siete tutti fratelli. Né chiamate alcuno padre sulla terra perché
uno solo è il vostro Padre, quello che è nei cieli. Né fatevi chiamar guide perché
l'unica vostra guida è il Cristo. Chi è maggiore tra di voi, sarà vostro ministro.
Chi si esalta sarà umiliato, chi si umilia sarà esaltato. Ma guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perché serrate in faccia alla gente il regno dei cieli; ché né c'entrate voi, né lasciate entrar chi è alla porta.
(Matt. XXIII, 1-13).
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Meditiamo la più terribile verità di nostra santa Religione: l'inferno. Essa è un motivo formidabile per risolverci a schivare, ad ogni costo, il peccato, e a darci ad una vita santa. Risolveremo ancor più fermamente di pregare, poiché chi prega si salva dall'inferno e guadagna il cielo; mentre chi non prega si dannerà. Chi spesso considera l'inferno, lo schiverà, chi invece trascura di meditar l'inferno, è in grave pericolo di cadervi. «Descendamus in infernum viventes», col pensiero, con la meditazione, «ne descendamus morientes»! dice San Bernardo.
Quanti si sono fatti santi con questa considerazione; quanti sono risorti da una vita disordinata; quanti si sono consacrati a Dio; quanti si sono dati con tutto lo zelo ancora alla salvezza delle anime. Diceva un pio scrittore che il pensiero dell'inferno ha popolato il cielo: molti, infatti, hanno deciso di darsi a Dio ed hanno preso la buona via per timore di perdersi. «Initium sapientiae timor Domini»1; il timore del Signore è il primo dei doni dello Spirito Santo; per esso si sale alle maggiori altezze.
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Considereremo: 1) che cosa sia l'inferno; 2) le pene dell'inferno; 3) come evitare l'inferno.
I. - Che cosa è l'inferno.
È una verità della nostra fede. «Haec est autem fìdes recta ut credamus et confiteamur quia... qui bona egerunt ibunt in vitam aeternam, qui vero mala, in ignem aeternum. Haec est fides catholica, quam nisi quisque fideliter firmiterque crediderit, salvus esse non poterit». «Questa è la fede giusta: credere e confessare che... chi avrà fatto il bene, andrà alla vita eterna; chi invece avrà fatto il male, andrà nel fuoco eterno. Questa è la fede cattolica; chi non la ritiene e non crede fermamente e fedelmente, non potrà salvarsi»2.
L'inferno è il patimento eterno della privazione di Dio, nostra felicità, e del fuoco, con ogni altro male, senza alcun bene; ed è meritato dai cattivi che non servono Dio e muoiono in peccato mortale. Castigo eterno, meritato per il peccato grave. Molti peccati veniali, addizionandosi assieme, non costituiscono un peccato grave; ma anche un solo peccato
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mortale, basta per la condanna all'inferno. È questo il pensiero che ci fa vivere in continuo timore: posso peccare gravemente da un momento all'altro, se il Signore non mi tiene la sua santa mano sul capo; la morte può sorprendermi prima di aver ottenuto il perdono? Il Papa Benedetto XII, dopo aver definito la dottrina cattolica sul paradiso, aggiunge: «Parimenti definiamo che, secondo divina disposizione, le anime che partono da questa vita col peccato attuale grave, subito dopo morte discendono all'inferno, ove saranno punite con pene infernali: Definimus insuper, quod secundum Dei ordinationem communem, animae decedentium in actuali peccato mortali, mox post mortem suam, ad inferna descendunt, ubi poenis infernalibus cruciantur»3.
Che cos'è l'inferno? L'inferno è «locus tormentorum»4, cioè è un aggregato di tormenti, così lo chiama la S. Scrittura. Vuol dire: come il luogo destinato a raccogliere i libri si chiama libreria; così il luogo destinato a raccogliere tutti i tormenti si chiama inferno. Come si chiama cantina il locale per il vino, così si dice inferno il luogo dei tormenti. Percorriamo pure colla nostra immaginazione i supplizi che l'uomo può soffrire in tutte le potenze
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dell'anima, in tutto il suo corpo, in tutti i sensi; essi sono raccolti, radunati dalla giustizia di Dio nell'inferno.
Che cos'è l'inferno? L'inferno è il luogo per i dannati. Sulla terra, spesso, Iddio manda un castigo al peccatore affinché si corregga: «ut corrigatur». Ma l'inferno non è casa di correzione; né più ivi si dà luogo a conversione o perdono. I dannati sono in statu termini. Là si raccolgono idolatri con cattivi cristiani, eretici con cattivi cattolici, scismatici con cattivi agnelli che pur vivevano nel gregge di Gesù Cristo. Vi sono bestemmiatori, spergiuri, profanatori del giorno festivo, violenti, omicidi; vi sono ladri, sacrileghi; vi è tutto ciò che il mondo ha di peggiore, disonesto, falso. È la peggiore delle carceri; è una fossa di serpenti di ogni genere; è come una compagnia a delinquere, incapace di un sentimento buono, confermata nel male. Come nella cloaca si convogliano tutti i rifiuti; così nell'inferno arrivano tutti i tristi, odiando, maledicendo, tormentandosi a vicenda.
Che cos'è l'inferno? L'inferno è l'esercizio della giustizia di Dio, la vendetta, il carcere del Signore: «Pluent super peccatores laqueos: ignis, et sulphur, et spiritus procellarum pars calicis eorum. Quoniam justus Dominus,
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et justitias dilexit»5; «Videbam satanan sicut fulgur de coelo cadentem»6. Quando Lucifero si ribellò, fu confinato nell'inferno: là pure Dio punisce gli uomini peccatori.
Come i re della terra hanno la loro legge e condannano chi la trasgredisce, così Dio ha le sue leggi, i comandamenti: chi li trasgredisce viene condannato.
Che cos'è l'inferno? L'inferno è la grande meditazione che facevano: S. Agostino, San Bernardo, S. Girolamo, S. Atanasio e tutti i Santi. A questa tremenda considerazione essi si riempivano di santo timore di Dio, e si eccitavano a quell'esercizio di opere che ammiriamo in essi. E S. Ignazio e S. Alfonso insistono tanto che si mediti l'inferno.
Chi non si lascia portare dall'amor di Dio, dal desiderio del cielo, dal pensiero della Passione di Gesù Cristo, si lasci almeno muovere dal timore dell'inferno. Dal timore poi si verrà al fervore, allo zelo, anzi, S. Agostino conchiudeva: «Domine, hic ure, hic seca, hic non parcas; dummodo in aeternum parcas». È detto: «Fac timore poenae, si non potes amore justitiae».
Che cos'è l'inferno? È il grande timore nostro.
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Non solo chi è conscio di peccato grave ha ragione di temere, ma ancora chi si è abituato al veniale. «Qui spernit modica, paulatim decidet»7; a poco a poco potrà arrivare dove non credeva.
Ancora: chi deve più temere? Chi ha obblighi più gravi. Ora i nostri obblighi sono gravissimi. Il religioso deve arrivare ad alta perfezione; il sacerdote deve pensare alla salvezza di tante anime; di esse gli verrà chiesto conto stretto. Chi ha contratto obblighi nel battesimo, divenendo cristiano, deve rispondere davanti a Dio come cristiano, deve temere l'inferno come cristiano. Chi ha contratto obblighi più sacri, nello stato religioso, deve corrispondere come religioso, deve temere l'inferno come religioso. Chi ha contratto obblighi ancora più stretti, nel sacerdozio, deve corrispondere come sacerdote; deve temere l'inferno come sacerdote. Chi poi si è assunto assieme tutti i doveri di questi tre stati deve corrispondere come cristiano, religioso e sacerdote, deve temere l'inferno come cristiano, religioso e sacerdote.
In ogni peccato vi è una certa infinità di malizia, dice S. Bernardino: «In omni peccatomortali infinita Deo contumelia irrogatur»;
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e quindi: «Infinitae autem iniuriae infinita debetur poena», perciò una pena eterna. Ma chi è più istruito, se pecca, lo fa con maggior malizia; chi fu più preferito da Dio, se pecca, dimostra maggior ingratitudine; chi vive più a contatto di Dio, se pecca, ostenta una temerità più insensata.
«Beatus homo qui semper est pavidus»8; «Beatus vir, qui timet Dominum»9; «Qui se existimat stare, videat ne cadat»10.
II. - Le pene dell'inferno.
Dice la Scrittura: «Un fuoco si è acceso nel mio furore, divamperà sino al profondo dell'inferno, divorerà la terra con tutti i suoi prodotti, consumerà le fondamenta dei monti. Accumulerò sopra di loro i mali, finirò contro di loro le mie saette: saran consumati dalla fame; li divoreranno gli uccelli coi morsi più crudeli; manderò contro di essi i denti delle fiere, col furore di quelle che strisciano e serpeggiano sulla terra. Al di fuori li strazierà la spada; al di dentro il terrore, giovani e vergini, bambini di latte e vecchi»11.
Nell'inferno si soffrono due specie di pene: la perdita di Dio, detta la pena del danno; un complesso di supplizi, detto la pena del senso.
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a) La pena del danno. L'inferno è l'esilio dal cielo, non temporale, ma definitivo, eterno.
L'anima, appena uscita dal corpo, si sente fatta per il Signore, ma intanto la mano della giustizia di Dio, la volontà e l'onnipotenza del Signore la caccerà nell'inferno. Vorrebbe veder Dio, il padre buono; vedere Gesù crocifisso per nostro amore e tante volte ricevuto nelle comunioni, adorato sugli altari; vedere lo Spirito santificatore; vedere la S. Madonna, gli Angeli, i Santi del cielo... ma il peccato la divide da Dio: «Iniquitates vestrae diviserunt vos et Deum vestrum»12. Il concerto di quel paradiso di gaudio, manda un'eco fino all'inferno, dove l'anima anela al suo Dio, assetata di Gesù, attratta verso il cielo; mentre, come in contraddizione eterna, si sentirà inchiodata al suolo, lontana lontana. Quale pena! «Vermis eorum non moritur, et ignis non extinguitur»13. Quale rimorso il peccato! Non capiamo bene che cosa sia questo, perché non conosciamo il Signore e non lo amiamo abbastanza, e perché siamo rivestiti del corpo; ma dopo la morte non sarà più così.
Dice S. Antonino: «Separata autem anima a corpore intelligit Deum summum bonum, et ad illum esse creatam». Il dannato sa tanto
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di Dio quanto gli basta per sentirsi attratto verso di lui; egli è più tormentato dal cielo che dall'inferno, cioè dal pensiero d'aver perduto Dio, che dai tormenti dell'inferno: «Plus coelo quam gehenna torquetur».
Quando Assalonne fu condannato dal padre a non vedere più la sua faccia, egli mandò a dirgli: «Obsecro ergo ut videam faciem regis: quod si memor est iniquitatis meae, interficiat me»14. Così è del dannato in quell'eterna lontananza, in quell'eterna solitudine.
Tuttavia l'anima piombata nell'inferno non cessa di volgere gli occhi al cielo; essa ci vede sempre il suo Dio, ne conosce la grandezza, ne scorge le perfezioni. Gran Dio, va gridando, non c'è dunque più riparo, io vi ho perduto e perdendo voi ho perduto tutto! Bel paradiso, per il quale io era fatta, mai, mai più non ti vedrò! O beato soggiorno, o patria di delizie, le tue porte mi stanno chiuse in faccia per sempre! Un trono di gloria mi stava in te preparato ed ora ne sono sbalzato in eterno! Cari parenti, diletti amici, che ne siete i fortunati abitatori, io vi ho dunque dato un eterno addio! non godrò mai più con voi della vista e della presenza del mio Dio! non gusterò mai di quel torrente di delizie, dal quale voi siete inondati!
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non sarò mai a parte con voi della vostra gloria! Sul vostro capo splende la corona dell'immortalità, e quella che era a me destinata l'ho lasciata cader dal mio capo per sempre! Non vi è rimedio; io ho perduto ogni cosa e la mia perdita è irreparabile!
Il dannato soffre nell'intelligenza: capisce che si è dannato proprio per colpa sua; non può attribuire la colpa né ai genitori, né agli amici, né alla Chiesa, né alla violenza della tentazione, ma solo a se stesso. Dopo aver cercato di rovesciare la responsabilità su tutti, finirà col dire: Io, io solo, ho voluto perdermi, io il perfido che ho voluto privarmi di Dio e del suo paradiso.
Il dannato soffre nella volontà. Non avrà mai più quello che cerca; avrà sempre ciò che odia. Per uno sfogo, per un capriccio, per un po' di pigrizia, per un po' di superbia, ha venduto il paradiso. Quando Esaù ebbe venduto per un po' di lenticchie la primogenitura, «irrugiit clamore magno»15.
Il dannato soffre nella memoria. Ricorda che poteva salvarsi con poca fatica. Si sono salvati altri persino selvaggi, ma lui, con tanta comodità, e con tutti i mezzi, si è dannato. «Lassati sumus in via iniquitatis et perditionis, et ambulavimus
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vias difficiles, viam autem Domini ignoravimus. Quid nobis profuit superbia? Aut divitiarum jactantia quid contulit nobis? Transierunt omnia illa tamquam umbra». Ci stancammo nella via dell'iniquità e della perdizione, camminammo per vie difficili, e non arrivammo a conoscere la via del Signore. A che ci ha servito la superbia? Qual utile ci ha portato la boria delle ricchezze? Tutte queste cose sono passate come un'ombra16.
S. Cirillo dice: «I reprobi gemono continuamente e nessuno ha pietà di loro; gridano dal fondo dell'abisso e nessuno li ode; si lagnano e nessuno li soccorre; piangono e nessuno li compassiona. O peccatori riprovati, dov'è ora la superbia del secolo? dove sono l'alterigia, le delicatezze, gli ornamenti, la potenza, il fasto, le ricchezze, la nobiltà, la forza, la seduttrice avvenenza, l'audacia altera ed insolente, la gioia nel misfatto?»17. San Efrem scrive: «I dannati versano fiumi di amaro pianto e tra gemiti, singhiozzi e strida vanno gridando: Noi infelici! come mai abbiamo potuto sciupare in tanto torpore e negligenza il nostro tempo? Perché lasciarci cogliere così goffamente dalle reti delle passioni? Oh, come lo scherno e il disprezzo che noi facevamo
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delle cose sante si è riversato sul nostro capo! Dio ci parlava e noi ci turavamo le orecchie! ora noi gridiamo ed egli è sordo. Che vantaggio abbiamo ora delle grandezze del mondo? Dov'è il padre che ci ha generati? dove la madre che ci mise alla luce? dove i figli, gli amici, le ricchezze, i poderi? dove la turba dei clienti, lo sciame dei parassiti e degli adulatori? dove i balli, i festini, le danze, i divertimenti, i conviti, le geniali conversazioni?»18.
O reprobi sciagurati, voi ora vedete i vostri misfatti e ne avete orrore, ma è troppo tardi! Infelici! Nessuno vi sforzava a peccare; il mondo, il demonio, le passioni vi invitavano e sollecitavano, ma non vi violentavano. Siete voi che avete liberamente scelto la morte in cambio della vita, il demonio invece di Dio, l'inferno in luogo del cielo!...
O cristiani viventi sulla terra, fuggiamo il peccato, che è la sola causa di perdizione.
b) Pene del senso. Soffrono tutti i sensi del povero dannato.
1. Gli occhi saranno ripieni di fuoco e lacrimeranno inconsolabilmente. Sarà tormentata la vista colle tenebre. Che compassione fa il
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sentire che un povero uomo sta chiuso in una fossa oscura, mentre vive per quaranta, cinquant'anni di vita! L'inferno è una fossa chiusa da tutte le parti, dove non entrerà mai raggio di sole o di altra luce: «In aeternum non videbit lumen»19. Il fuoco che sulla terra illumina, nell'inferno sarà tutto oscuro. «Vox Domini, dice il Salmista, intercidentis flammam ignis»20. Spiega S. Basilio: il Signore dividerà il fuoco dalla luce, onde tal fuoco farà solamente l'ufficio di bruciare, ma non di illuminare, e lo spiega più in breve S. Alberto Magno: «Dividet a calore splendorem», dividerà lo splendore dal calore. Lo stesso fumo che uscirà da questo fuoco comporrà quella procella di tenebre, di cui parla l'apostolo San Giuda, che accecherà gli occhi dei dannati: «Quibus procella tenebrarum servata est in aeternum»21. Dice S. Tommaso che ai dannati è risevato soltanto di luce quanto basta a più tormentarli. Vedranno in quel barlume di luce la bruttezza degli altri reprobi e dei demoni che prenderanno forme orrende per più spaventarli.
2. Gli orecchi sentiranno maledire ed insultare e udiranno bestemmie ed urla. Sarà tormentato l'udito cogli urli continui e pianti di
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quei poveri disgraziati, disperati. I demoni faranno continui strepiti: «Sonitus terroris semper in auribus illius»22. Che pena è quando si vuol dormire e si sente un infermo che continuamente si lamenta, un cane che abbaia, o un fanciullo che piange! Miseri dannati, che han da sentire di continuo per tutta l'eternità quei rumori e le grida di quei tormentati.
3. La gola che avrà fame e sete canina, la lingua lacerata dal fuoco, il cuore roso dall'invidia e dalla rabbia contro i beati. Sarà tormentata la gola colla fame; avrà il dannato una fame canina: «Et famen patientur ut canes»23. Ma non avrà mai una briciola di pane. Avrà poi una tal sete che non gli basterebbe tutta l'acqua del mare; ma non ne avrà neppure una stilla. Una stilla ne domandava il ricco Epulone, ma questa non l'ha avuta ancora, e non l'avrà mai, mai.
4. Sarà tormentato l'odorato. Che pena sarebbe trovarsi chiuso in una stanza con un cadavere fracido! Il dannato deve stare in mezzo a tanti milioni d'altri dannati vivi alla pena, ma cadaveri alla puzza che mandano. Dice San Bonaventura che se un corpo di un dannato fosse cacciato dall'inferno, basterebbe a
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far morire per la puzza tutti gli uomini. E poi dicono alcuni pazzi: Se vado all'inferno, non sono solo. Miseri! quanti più sono all'inferno tanto più penano. Ivi, dice S. Tommaso, la compagnia dei miseri non scemerà la miseria, ma piuttosto l'accrescerà: «Ibi miserorum societas miseriam non minuet, sed augebit»24. Più penano, dico, per la puzza, per le grida e per la strettezza: poiché staranno nell'inferno l'un sopra l'altro, come pecore ammucchiate in tempo d'inverno: «Sicut oves in inferno positi sunt»25. Anzi, più, staran come uve spremute sotto il torchio dell'ira di Dio: «Et ipse calcat torcular vini furoris irae Dei omnipotentis»26.
I dannati piangeranno e malediranno incessantemente senza aver riposo, perché ormai sono sotto l'onnipotenza e giustizia di Dio. Dunque questo fuoco della giustizia di Dio sarà sapiente, perché brucerà quella parte che più avrà peccato; sarà inestinguibile, perché brucierà senza consumare; sarà accesissimo, perché non è dato per misericordia di Dio, per gli usi umani, ma solo per castigare. «Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante? quis habitabit ex vobis cum ardoribus sempiternis?»27,
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tu che non puoi sopportare, sottometterti ad una piccola pena, ad una piccola mortificazione?
III. - Come evitare l'inferno.
Sempre ci è presente la massima: chi non prega, si danna. Occorre che ci raccomandiamo a Dio con tutto il cuore, specialmente nelle tentazioni, sia per evitare il peccato di commissione, che per evitare il peccato di omissione. Vi sono casi in cui il dovere di stato è assai difficile: siamo allora tentati di lasciarlo. Altre volte il demonio, il mondo, la carne ci propongono il male, come ad Eva, come a Caino, come a Salomone, come a Pietro. Occorre pregare: chi si salva dal peccato, si salva dall'inferno.
Consideriamo una delle preghiere dirette contro il peccato. Sarebbero diverse: la confessione, la meditazione, l'esame di coscienza; ma questa volta ci basterà considerare la terza: l'esame di coscienza.
a) Che cosa sia l'esame di coscienza. È il diligente studio di un'anima che vuol salvarsi, togliendo ogni giorno più il male e mettendo ogni giorno più il bene nelle sue giornate.
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Uno studio: e significa impegno, volontà, desiderio di bene, applicazione. Lo scrittore studia, si applica a ripulire sempre meglio la sua lingua, a renderla anzi sempre più compita: arte del bello scrivere. Così chi vuol riuscire buon medico, buon legale, buon maestro. Per svestire l'uomo vecchio e le sue tendenze, per vestire l'uomo nuovo e le sue virtù, vi è un grande lavoro, un profondo studio da compiere, un costante impegno da mettere.
Il conoscere noi stessi era già detto l'apice della sapienza dagli antichi. Si tratta di conoscere le tendenze del cuore, le passioni, la mentalità che abbiamo, la debolezza della volontà, i difetti della vita scorsa, i doveri dello stato. Inoltre, le grazie e le possibilità che il Signore ci offre, le occasioni di bene, i lumi dello Spirito Santo, i singoli mezzi particolari nella vita d'ognuno. Si tratta di conoscere ancora: le occasioni di peccato, le persone che ci circondano, la passione predominante con tutti gli artifizi del male e le industrie sante da adoperarsi nella vita.
Tale studio deve essere diligente: perciò i santi: S. Ignazio, S. Alfonso, S. Bernardo tanto insistono sul dovere di attendere a noi; di raccoglierci nel silenzio; di conservare come una continua ed abituale riflessione su tutto il nostro essere. Vi sono poi tempi in cui più
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di proposito dobbiamo metterci innanzi a Dio, erigerci come giudici della vita, vedere quanto essa abbia di bene, di male, di aiuti.
Per potersi dire diligente questo studio deve aver due condizioni: essere quotidiano e diretto al progresso continuo. Ogni giorno si deve operare: i pericoli di cadere e le virtù da esercitare sono cosa d'ogni giorno: dunque ogni giorno vigiliamo su di noi; in questa vigilanza sta l'esame di coscienza. Ogni giorno si deve crescere in sapienza, età, grazia sino a formare l'uomo nuovo e compito: l'esame di coscienza è il lume dei passi da darsi ed è il controllo dei passi fatti.
Non deve però essere diligentissimo come sarebbe negli scrupolosi, i quali non sono mai soddisfatti e vogliono fare quel che Dio non comanda, mentre poi lasciano ciò che Dio comanda. Infatti l'esame di coscienza dello scrupoloso per lo più si rivolge al passato quasi esclusivamente: occorre, invece, per progredire, che si rivolga decisamente al futuro.
b) Necessità. L'esame di coscienza è necessario, per togliere il male. Chi riflette su di sé scopre anche i piccoli difetti e li combatte: chi non riflette li lascia moltiplicare e crescere ed infine prepara una medicina tardiva. Facile è sradicare una pianticella tenera, difficilissimo
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sradicarla allorché sarà divenuta un robusto albero.
Per l'esame di coscienza ogni giorno scopriamo virtù da esercitare, occasioni di bene, mezzi naturali e soprannaturali da impiegarvi.
Il campo del pigro, dice la Scrittura, si riempie di ortiche ed erbacce, la vigna dell'ozioso deperisce rapidamente. Mentre il campo dell'agricoltore attento e la vigna del contadino attento e il giardino dell'uomo operoso hanno piante vigorose, frutti abbondanti, un aspetto e ordine che vi dice quale sia il coltivatore. «Dei agricultura estis»28, ognuno di noi è come si forma.
c) Come fare l'esame di coscienza. Vi è l'esame di coscienza degli Esercizi Sp.: esso si estende da gli ultimi Esercizi Sp. ben fatti, sino ai prossimi Esercizi.
Vi è l'esame di coscienza del Ritiro mensile: esso si estende a tutto il mese che è passato, e a tutto il mese che si incomincia.
Vi è l'esame di coscienza per la confessione settimanale: esso comprende e la settimana che termina e la settimana che ci sta innanzi.
Vi è l'esame di coscienza quotidiano: esso guarda al giorno che si principia, al giorno in corso, al giorno che finisce. Infatti è un esame
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preventivo al mattino per fissare i propositi prevedendo ciò che occorrerà nella giornata; è un esame a mezzo il cammino della giornata per controllare come essa passi; è un esame consultivo alla sera per chiudere la giornata nel dolore e nell'amore.
Sempre il nostro esame ha due scopi: rimediare al male commesso; e preparare un anno, un mese, una settimana, un giorno più santo, virtuoso.
Il nostro esame sia completo; si estenda cioè: alla mente per conoscere i nostri pensieri e rendere sempre più sapienti i nostri giudizi, ragionamenti, principii di vita. Si estenda alla volontà per conoscere sempre meglio le virtù che già vi sono, quelle che mancano, come acquistarle. Si estenda al cuore per scrutare lo stato di unione con Dio, lo spirito di preghiera, l'elevazione graduale della vita per vivere in Cristo.
Bene a proposito, tutti i libri di pietà, i maestri di spirito, il Diritto Canonico raccomandano l'esame di coscienza. Pio X nella sua «Exortatio ad Clerum» tanto vi insiste.
«Vigilate et orate»: esame su di noi e preghiera fervente a Dio.
Sia lodato Gesù Cristo.
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1 Ps. XV, 10.
2 Symb. Athan.
3 Enchyr. 531.
4 Luc. XVI, 28.
5 Ps. X, 7-8.
6 Luc. X, 18.
7 Eccli. XIX, 1.
8 Prov. XXVIII, 14
9 Ps. CXI, 1.
10 I Cor. X, 12.
11 Deut. XXXII, 22-25.
12 Is. LIX, 2.
13 Marc. IX, 43.
14 II Reg. XIV, 32.
15 Gen. XXVII, 34.
16 Sap. V, 7-9.
17 De exitu animae.
18 Serm.
19 Ps. XLVIII, 20.
20 Ps. XXVIII, 7.
21 Juda I, 13.
22 Job. XV, 21.
23 Ps. LVIII, 7.
24 S. Thom. Suppl. q. 86, a. 1.
25 Ps. XLVIII, 15.
26 Apoc. XIX, 15.
27 Is. XXXIII, 14.
28 I Cor. III, 9.