Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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16. CARITÀ FRATERNA
Articoli 182-187


III Istruzione, Castel Gandolfo, 18 agosto 19581




Siamo al capitolo della carità fraterna.
Quello detto in antecedenza è specialmente per la carità verso Dio, la donazione al Signore, consecrando tutto quel che si è e quel che si ha a lui nel voto di povertà, castità, obbedienza, e accettando quelle mortificazioni e quei segni di amore che dobbiamo dare a Dio: primo, nell’esercizio della carità; secondo, nell’esercizio dell’obbedienza; e terzo, nell’apostolato, nel lavoro.
Carità e obbedienza sono sacrifici interiori in primo luogo che riguardan lo spirito; e l’apostolato riguarda il lavoro. Lavoro è tutto un apostolato: poiché vi è il lavoro manuale degli operai, quando prevale specialmente la forza fisica; e vi è il lavoro intellettuale, lo studio; e vi è il lavoro spirituale, quello di santificazione.
Carità fraterna allora. Adesso la prima [è] la carità verso Dio, la seconda verso il prossimo: Vi amo con tutto il cuore e sopra ogni cosa… e il prossimo come me stesso per amor di Dio 2.
Il segno che Dio abita nella comunità è l’unione, la carità, perché Dio è carità: «Deus caritas est» [1Gv 4,8.16], è amore il Signore. E dove vi è carità, vi è Dio: «Ubi caritas… Deus ibi
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est»3 - è chiaro -, dove è carità, lì c’è Iddio, o viene meno la presenza di Dio man mano che si rompono i vincoli della carità o [sorgono] i giudizi contrari o le critiche o le antipatie o le divisioni di pensiero e di attività. Nella unione nella carità vi è la pace e vi è la santità.
Allora il capitolo della carità fraterna - 182 - comincia così: «Le suore pratichino sinceramente la carità fraterna, senza la quale una comunità non può vivere nella pace, fiorire per l’osservanza religiosa e promuovere efficacemente le opere di apostolato». Sarebbero tre danni: mancherebbe la pace, mancherebbe l’osservanza e mancherebbe l’efficacia delle opere di apostolato.
«Sia impegno di ogni superiora e di ogni religiosa mantenere saldi i vincoli dell’unione e della carità in ogni casa e in tutta la Congregazione, secondo l’ammonimento di San Paolo: Vi scongiuro di avere una condotta degna della vocazione che avete ricevuta, con tutta umiltà, con mansuetudine, con pazienza, con carità, sopportandovi gli uni gli altri, studiandovi di conservare l’unità4 dello spirito con il vincolo della pace; un solo corpo, un solo spirito, come ad una sola speranza siete stati chiamati con la vostra vocazione [Ef 4,1-5]». La vocazione al cielo: tutti chiamati al cielo, tutte chiamate alla santità. E come c’è una sola vocazione, così un sol corpo: sentitevi un corpo morale; un solo spirito: unione di spiriti; come ad una sola speranza… E si devono sempre schivare quelle che mettessero i dissensi, perché quando si cominciassero questi dissensi o critiche l’una contro l’altra, allora chi le sente dovrebbe subito rispondere: Taci, perché queste cose non si possono dire ed io non posso sentirle, in coscienza. Quindi la condotta degna della vocazione, sì, come chiamati all’amore, e all’amore di Dio: amarvi. Noi sappiamo di essere con Dio - dice san Giovanni - perché
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amiamo i fratelli [cf 1Gv 3,14]: dunque chi non ama i fratelli, chi non ama le sorelle non è con Dio.
«183. Perciò le religiose si guardino diligentemente da tutto ciò che può offendere l’unione e la carità fraterna; specialmente rifuggendo5 da ogni critica, mormorazione, detrazione, delazione, amicizia particolare, rancore, invidia e gelosia - quante cose da evitare! -; evitino le sinistre interpretazioni e il continuato ricordo dei difetti delle sorelle. Tali mancanze devono essere corrette e represse energicamente. Si voglia invece il vero bene delle sorelle; si mostri anche all’esterno e realmente parta dal cuore la gioia e la soddisfazione per i beni che le sorelle hanno. Sia impegno di ognuna di pensare bene, parlare bene, desiderare il bene, fare del bene». Qui vi sarebbe più da meditare che da parlare, non è vero? Invece di ricordare i difetti delle sorelle, ricordare i propri; e perché stare a guardare le altre, i difetti delle altre, se ne abbiam già tanti da correggere noi e da considerare noi?
Andiamo avanti. «184. Fra le suore vi sia mutua carità e comprensione, buon esempio vicendevole nella pietà, nella fedele osservanza, nel comune sentire e nel parlare. Si trattino con rispetto e cordialità; si sopportino nei difetti, si perdonino nelle offese; si usino quelle carità e delicatezze6 con cui ognuna vorrebbe essere trattata. Vi siano anche i comuni segni esterni di cortesia religiosa, di educazione e cordialità che a tutti, ma in modo particolare convengono alle persone consacrate a Dio. Le suore però, nel comportamento tra loro e con le superiore, come anche nel trattare con gli esterni, devono essere semplici, svelte, fattive, evitando i modi artificiosi e cerimoniosi».
Sempre vigilare qui sopra… perché infine chi si acquista poi più stima è chi ha più benevolenza e carità, compatimento e longanimità.
«Particolare esercizio di carità per le religiose è la convivenza serena, familiare, cordiale, nella vita di comunità,
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con tutte indistintamente; in modo che la vita in comune sia veramente di conforto nelle pene, di incoraggiamento nelle difficoltà, di sincera partecipazione alle gioie. Questa convivenza deve portare a vivere l’ammonimento di San Paolo: Portate gli uni i pesi degli altri e così adempirete la legge di Cristo7 [Gal 6,2]».
«Pratichino sinceramente il precetto della correzione fraterna, osservando però con sollecitudine l’ordine che la carità esige e che particolarmente conviene a persone religiose. Che se in qualche caso il bene della sorella o della comunità richiede di riferire alla superiora qualche mancanza, nel fare questo le suore devono essere mosse unicamente dalla carità. Però non devono essere troppo facili a riferire alle superiore i difetti delle sorelle e devono guardarsi da qualunque passione e fine non buono che a questo potesse indurle».
E «187. Le suore ricordino gli insegnamenti8 di San Paolo: La carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non è insolente, non si gonfia, non è ambiziosa, non cerca il proprio interesse, non si irrita, non pensa male, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità; tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta [1Cor 13,4-7]; e i precetti del Signore: Imparate da me che sono mansueto ed umile di cuore [Mt 11,29]; Mettiti a sedere all’ultimo posto [Lc 14,10]; in modo che chi comanda dimostri materna e dolce sollecitudine, e chi è soggetto, filiale docilità, per unire le forze e tutto9 guidare al bene comune».

Questo è densissimo di concetti, questo capitolo quinto, e merita un esame lungo… non è vero? Ed è proprio su questi vari punti che l’esame di coscienza degli Esercizi deve fermarsi più a lungo.
Primo: il pensare in bene, l’interpretare in bene; carità di mente, pensare in bene. Vi sono coloro che hanno come un istinto di pensare sempre in bene, come vi sono coloro che,
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negli altri, anche quando non sono buoni, trovano ancora del buono da lodare. E vi sono persone che, anche in quelli che sono buoni, trovano delle cose da biasimare… secondo l’istinto che si ha. E quante volte, vedendo che pensiamo male degli altri - se capita -, bisogna che diciamo: Io ho degli istinti molto più cattivi.... […]10

Disse Dio, al giudizio finale, ai buoni […]: Ero affamato e mi avete dato da mangiare, eccetera… Ogni volta che l’avete fatto anche al minimo mio fratello, l’avete fatto a me... [cf Mt 25,35-40]. Eh ma ho ricevuto un torto, ho visto il male... Quanti torti abbiamo fatto a Dio! E quanti ne abbiamo fatti ai genitori alle volte! E quanti ne abbiamo fatti agli altri! Eh!!... se ci avessero sempre visto! E se leggessero alle volte nell’intimo nostro: che cosa penserebbero? Bisogna sempre i motivi riportarli a un atto di umiliazione; diversamente troviamo poi ancor sempre qualcosa per cui inorgoglirsi e non correggere il difetto. Sempre l’umiltà è fondamento di ogni ripresa, di ogni risurrezione, sì; ed è quella che ci ottiene il perdono da Dio, quella che ci ottiene il perdono dagli uomini, quella che ci concilia la misericordia del Signore, ci ottiene le grazie… Dunque l’umiltà. Il pensiero11… pensare in bene e giudicare in bene.
Ma in generale bisognerebbe anche astenersi dai giudizi sugli altri: chi può conoscere come sia un’altra anima davanti a Dio? Non vi sono delle madri di famiglia, delle buone persone, buone donne nel mondo che al giudizio di Dio, al giudizio finale faran più bella figura di noi, che pure siamo consecrate a Dio? E vi saranno! E quante volte forse si realizzerà: coloro che sembravano i primi invece saranno messi agli ultimi posti da Dio [cf Lc 13,30]. Quante volte si realizzerà questo? Si realizzerà al giudizio finale, quando Iddio confronta un’anima con l’altra, quando Iddio giudica in realtà le anime secondo i loro meriti.
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Oh, pensare in bene e giudicare in bene! E se qualcosa fosse stato fatto male, si può ancora scusare l’intenzione, si può scusare l’ignoranza, si può scusare la cattiva educazione ricevuta. Oh, vi son tanti motivi! Noi dobbiamo invece guardare che una gran quantità di grazie ci è venuta dal Signore e tuttavia stiamo ancora a quel punto, così indietro nella santificazione. E se Dio desse i posti ora, a quale luogo ci metterebbe? Qualche volta avviene che le persone che pregano un po’ - specialmente quelle che hanno una pietà non del tutto giusta -, disprezzano gli altri12, forse… ma il Signore ha raccontato la parabola del fariseo e del pubblicano: il fariseo che entra in chiesa a pregare e comincia a lodarsi, ed il pubblicano che sta in fondo alla chiesa e si picchia il petto, si confessa peccatore. E questo pubblicano va a casa santo, giustificato - che è lo stesso -. E l’altro? Come prima, con maggiori responsabilità [cf Lc 18,9-14].
Secondo: oltre che pensare il bene, desiderare il bene. L’invidia è contraria, la gelosia è contraria, il rancore è contrario a questo desiderio di bene; questo desiderio di bene ci porta a pregare per gli altri. L’invidia… l’invidia è qualche cosa di tremendo! E basta che ci siano due assieme perché nasca; e che cosa dire nelle comunità dove non ci sono due, ma venti, ma duecento, ma duemila persone? L’invidia, se non è ben combattuta, allora riesce13 come una erba maligna che va man mano occupando il terreno, tutto un vasto terreno. Bastarono due, Caino e Abele… ma quando son tante!? Quante volte si dice fratelli-coltelli14 perché son vicini e finiscono per avere delle gelosie, eccetera. E così contraria alla carità è la simpatia, e così contraria alla carità è l’antipatia. Vedere, vedere bene cosa ci sta in fondo al cuore: e si prega per gli altri e si desidera veramente la gioia e la pace e la santità di tutti… e si lavora per questo! C’è da piangere, alle volte, [di]
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come avviene: persone che getterebbero giù tutta la Congregazione, anche se stesse, per l’invidia che hanno: Muoia Sansone con tutti i Filistei!15, verrebbe da dire. Pregare, pregare tanto per gli altri. Si è visto un difetto, si può pregare: primo, per non commetterlo noi e perché il Signore perdoni i nostri; poi, perché anche gli altri possano emendarsi… quindi sentano… amare di cuore.
Terzo, parlare in bene… la critica è una lima che finisce con il troncare il buon spirito, sì, una lima che ha un’azione sorda, ma quanto mai pericolosa. La critica, la mormorazione, il giudizio contrario l’una all’altra, espresso con parole… Il mormoratore offende Iddio, offende le sorelle, danneggia se stesso e fa del male a coloro, a colui o a colei di cui mormora. Povere comunità quando manca l’unione: si vive tutti in orgasmo16. Quel nido e quell’oasi di pace che dovrebbe essere la vita religiosa finisce con il diventare tutta una tensione nervosa dell’una verso dell’altra.
Togliere ogni critica e mormorazione. E c’è stato qualche inconveniente… e può essere che sia uno sbaglio casuale: non se ne faccia caso! Può essere che sia un’abitudine che abbia una [sorella], un’abitudine non buona: correggerla tra te e lei; se poi non ascolta, puoi chiamare anche una persona che ti accompagni e spieghi alla sorella lo sbaglio; se poi non ascolta neppure in questo caso, dirlo alla superiora, ecco… ma quello è l’ultimo passo da farsi [cf Mt 18,15-17]. Se poi ci fosse un vero scandalo, allora ci obbliga a dire: ci fosse una persona, una sorella che si mette in pericolo grave, bisogna dirlo. Può farlo innocentemente per imprudenza, per inesperienza, per ignoranza…: ma dirlo, perché quella sorella sia illuminata e così possa togliersi da quella occasione e possa rimettersi bene sulla via.
Degli altri parlare solo in bene; di noi non parlar né in bene né in male, per quanto è possibile: perché è sempre facile che c’entri un po’ l’amor proprio, anche quando si parla in male.
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Oh! Poi far del bene a tutte… e qui avete la descrizione, no? Comprensione, sopportare gli uni gli altri… sopportarsi, correggersi, dare il buon esempio, preghiera per la comunità e per tutte le sorelle, mettersi all’ultimo posto.
C’è la sentenza di san Paolo: La carità è paziente … senza pazienza non c’è carità. Se non si soffre, non si vive in carità; è benigna nelle interpretazioni17, non ha invidie, non è insolente [cf 1Cor 13,4]. Di discussioni che irritano, che conducono al pianto, che lasciano l’amarezza e la sofferenza nel cuore, evitare… evitare!
E così Dio abiterà con voi. «Deus caritas est» [1Gv 4,8.16]. Dove c’è la carità, lì vi è Iddio: il Signore della pace e il Signore della misericordia, il Signore che ama tanto le anime consecrate a lui.

Sia lodato Gesù Cristo.
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1 Nastro originale 35/58 (Nastro archivio 39a. Cassetta 39, lato 1. File audio AP 039a). Titolo Cassetta: “Art. 183ss. La carità fraterna”.

2 Cf Le Preghiere del Cristiano, Atto di carità.

3 Cf Missale Romanum, De Missa Solemni Vespertina in Cena Domini, De lotione pedum, Antiphona 8. Anche oggi questo antico inno, attribuito a Paolino di Aquileia (VIII-IX sec.), continua ad essere cantato nella Messa del Giovedì Santo e in altre liturgie eucaristiche.

4 Il PM dice: umiltà.

5 Il Ds porta: rifuggano.

6 Il Ds porta: quella carità e delicatezza.

7 Il PM dice: del Signore.

8 Il Ds porta: l’insegnamento.

9 Il PM dice: tutti.

10 Interruzione per cambio del nastro magnetico sul lato 2 della stessa bobina.

11 Parola incerta.

12 A causa dell’interruzione del nastro magnetico, la parola è dedotta.

13 Sta per: spunta o cresce di nuovo.

14 Questa espressione, che avvicina parole di suono uguale o simile per suggerirne un’affinità di senso, viene espressa anche con l’altro motto popolare: “Amore di fratelli, amore di coltelli”.

15 Celebre detto popolare dalla frase biblica pronunciata da Sansone in Gdc 16,30.

16 La parola è usata nel senso classico del tempo: essere in agitazione, in forte ansia.

17 Parola incerta.