A quasi mezzo secolo dalla sua prima parziale pubblicazione, questo libro, che esce in nuova edizione riveduta, giustifica sempre di più la fama acquisita e la definizione che gli è stata posta a sottotitolo: “Storia carismatica della Famiglia Paolina”. Esso infatti costituisce il documento più vibrante di una esperienza nuova nella Chiesa, originata da un carisma autentico e incarnatasi in una multiforme istituzione religiosa, la “Famiglia Paolina” appunto.
Da questo documento prendono luce tutte le vicende personali di Don Giacomo Alberione, come uomo e come Fondatore, nonché le singole opere da lui avviate ed animate. Possiamo paragonarlo a un “Libro della Genesi” emerso nel fiume della storia della Chiesa, a mezza strada fra l’agiografia e la relazione canonico-teologica di una fondazione ecclesiale. Esso comunque illumina di luce autentica le motivazioni che hanno guidato l’esistenza e le opere di uno tra i più fecondi fondatori dei tempi moderni.
1. Genesi e vicissitudini del testo
Sull’origine del testo possediamo una testimonianza di prima mano, rilasciata da Don Giovanni Roatta nel 1982:1
«Il nostro Fondatore scrisse Abundantes divitiæ, il libro-sintesi delle sue ispirazioni fondamentali, in queste circostanze.
Si avvicinava il 40 o della nostra Congregazione (1914-1954), e qualcuno di noi (D. [Valentino] Gambi, D. [Renato] Perino, D. [Giovanni] Roatta) pensò che era bene approfittare della ricorrenza per qualche approfondimento circa la nostra vocazione paolina e circa il nostro Fondatore: sia per una miglior presa di coscienza interna, sia per parlarne col pubblico. Un giorno presentai io stesso [D. Roatta] questa idea al Fondatore, che mi rispose: “Fate quello che lo Spirito Santo vi ispira. Veramente non abbiamo ancora scritto né pubblicato nulla; ma ho già avuto richiami (da Don Pettinati Guido, in Argentina e da altri) alla necessità di manifestare qualcosa di ciò che Dio ha fatto tra noi; e credo proprio che sia venuto il momento per farlo”.
Cercammo altri collaboratori, e cominciammo il lavoro, che si protrasse per alcuni mesi molto impegnati, fino all’inizio del 1954.
A un certo punto venni chiamato da Don Alberione, il quale mi disse queste poche parole: “Vorrei far sapere questo, che mi pare importante: che dopo la mia morte non si parli più di me, ma solo di san Paolo: lui è il Fondatore, il modello, il padre, l’ispiratore per noi. Bisogna che traspaia, dal lavoro a cui avete messo mano”. Accennai di sì e continuammo il nostro lavoro. Non molto tempo dopo mi chiamò di nuovo, ed ebbi un’altra sorpresa: mi mostrò, poi mi consegnò una serie di originali in formato piuttosto grande, scritti finissimi, con la sua calligrafia minuta; e mi disse: “Vedete se possono servirvi”. Erano i manoscritti di quello che fu poi il libro Abundantes divitiæ. Li leggemmo con notevole interesse; ma, a lavori già abbondantemente inoltrati, non potemmo più tenerne molto conto nei vari articoli; e nemmeno ci fu possibile cogliere immediatamente il valore essenziale dei suoi ricordi.
Quei manoscritti rimasero presso di me fino alla chiusura del nostro lavoro, quando uscì stampato il grosso volume Mi protendo in avanti (estate 1954). Allora riponemmo a posto tutto il materiale usato fino a quel giorno; e Don Maggiorino Povero, che aveva ben collaborato all’opera per la parte fotografica, chiese a me di consegnargli, per conservarli diligentemente, i manoscritti suddetti. Glieli passai volentieri. Vidi riemergere questi ricordi solo assai più avanti [nel 1969, in occasione del Capitolo generale speciale], quando furono pubblicati, la prima volta, sotto il titolo Io sono con voi, per uso interno soprattutto del Capitolo.
Rileggendo in seguito molte volte le pagine semplici e scarne di Abundantes divitiæ, mi sono sempre più accorto della importanza eccezionale di quei ricordi per la nostra storia, per il nostro carisma e per il cammino spirituale su cui Dio ha fatto sorgere e crescere la nostra Famiglia religiosa.
Casa Divin Maestro, Ariccia, 10 gennaio 1980.
G. ROATTA».
Il testo non è di facile lettura, anzitutto per il fatto che è formato da “appunti” a più strati. Il primo è costituito da un manoscritto (ms) consistente di fogli sparsi, senza numerazione fissa; il secondo è rappresentato da un dattiloscritto (ds) che in diversi punti si discosta dagli originali, ma che sicuramente ha la stessa paternità alberioniana, e rappresenta la seconda redazione, corretta.
Il ms si compone di 39 fogli: 18 in formato cm. 18x24; altri 18 in formato cm. 11,3x17; 2 di cm. 15x17,8 e 1 di cm. 9,3x14,5. Alcuni di questi fogli (4) risultano dalla giustapposizione di due fogli tagliati e incollati. Inoltre, di questi 39 fogli, 29 sono scritti su un solo verso; 7 risultano scritti su entrambi i versi; 1 reca sul verso i titoli delle entrate economiche del novembre 1952; altri 2 recano brani cancellati (forse di una prima stesura). Le facciate scritte risultano così essere 46 (più due cancellate). Ancora: dei 39 fogli, 31 recano in alto una doppia numerazione, gli altri 8 ben tre numeri distinti, scritti da varie mani, che hanno tentato di dare alle pagine un ordine logico o storico progressivo.
L’utilizzazione prima del ms era finalizzata, come si è detto, alla commemorazione del quarantennio di fondazione della Pia Società di San Paolo. Il pensiero di Don Alberione in proposito si trova espresso anche in paralleli scritti del momento, come nel bollettino interno San Paolo.2 Il ms fu quindi usato parzialmente per la redazione del volume Mi protendo in avanti (1954), e nel 1969 uscì a stampa, ampiamente ritoccato nello stile, ad uso dei partecipanti ai Capitoli Speciali della Pia Società San Paolo e delle Figlie di San Paolo, con il titolo Io sono con voi.3
Nel 1971 il nostro testo vide la luce col nuovo titolo di Abundantes divitiæ gratiæ suæ: Storia carismatica della Famiglia Paolina [sigla AD], a cura di Don Giuseppe Barbero, che ne pubblicò la prima edizione accurata, con note esplicative e a carattere storico. Nella 2a edizione di tale opera (Roma 1975, pp. 6-7), lo stesso curatore aggiunse ulteriori notizie sulla formazione di AD, in cui poneva a confronto le due redazioni dell’originale, la manoscritta cioè e la dattiloscritta, cercandone la concordanza o integrando i due testi.
Una nuova edizione critica, accresciuta di numerosi testi in appendice, fu pubblicata nel 1985 a cura di Ezechiele Pasotti e Luigi Giovannini. Questa edizione, inserita nella nuova serie dell’Opera Omnia, fu condotta sui manoscritti e dotata di un rigoroso apparato critico.
Dovendo procedere ad una ristampa, si è ritenuto opportuno adottare non il testo conforme al manoscritto, bensì quello successivo del dattiloscritto, rivisto, corretto e approvato da Don Alberione, considerato quindi più rispondente al suo pensiero definitivo. Al tempo stesso, è stato snellito l’apparato critico, escludendo dal testo i segni grafici che non siano gli esponenti numerali di nota, e conservando invece della edizione 1985 la ricchezza di note esplicative e storiche, nonché i testi aggiunti in appendice, con la sola esclusione delle minute preparatorie di alcuni di essi.
L’espressione Abundantes divitiæ gratiæ suæ è tratta dalla lettera agli Efesini (2,7) ed è stata scritta a mano dall’Autore in testa al primo foglio ds. È una espressione paolina cara a Don Alberione e, al pari di Giovanni 14,6, rappresenta uno dei cardini della sua spiritualità.
Giovanni e Paolo sono indivisibili, fin dagli inizi, nell’anima della Famiglia Paolina. I due apostoli sono citati spesso in AD, e tutto il brano di Ef 2,5-7 in particolare istituzione e quelle elargite al Fondatore, evocate nel contesto di avvenimenti e idee correnti dalla fine del 1800 fino al 1954. Di queste ricchezze diremo fra poco; intanto osserviamo che il titolo AD proietta una luce biblico-paolina su quanto l’Autore narra di sé e della sua opera, sentita e vista come un’opera di Dio.
Le citazioni scritturistiche evocano un cammino di fede, quasi un esodo biblico; e certamente interpretano lo sviluppo di un’opera voluta dall’alto per il secolo XX; un’impresa guidata dalla “Provvidenza” (cf AD 43, 45) fino alla sua maturità.
Nella sua narrazione, prima ancora che le origini umili dell’istituzione, Don Alberione ha presente se stesso, come uomo guidato («un semi-cieco, che è guidato [da Dio]; e col procedere viene di tanto in tanto illuminato, perché sempre possa avanzare»; AD 202); un “servo” in obbedienza e, insieme, un uomo consapevole di essere guida spirituale, “Maestro” per i suoi; senza inutili ripiegamenti sull’io, e senza neppure compiacersi dei propri doni.
Accennavamo alla nascita di AD come scritto occasionale, sollecitato per una celebrazione di quarantennio. Ma tale circostanza lo colloca già nella categoria dei “memoriali”, e pone diverse domande: sul suo valore e sui criteri di lettura.
a) È un’autobiografia?
A definire ed esemplificare la “Autobiografia” il Dictionnaire de Spiritualité dedica un notevole studio,4 riportando autori, titoli e criteri per una interpretazione. Autobiografie celebri furono quelle di Gregorio Nazianzeno 5 e le Confessioni di Agostino, del IV secolo; la Vita di Teresa di Gesù (d’Avila) e la Storia della vocazione e della missione (o Storia di un Pellegrino) di Ignazio di Loyola,6 del sec. XVI. Più vicina a noi la notissima Storia di un’Anima di Teresa Martin (di Gesù Bambino), recentemente insignita del titolo di Dottore della Chiesa, come la sua grande Patrona, grazie al magistero spirituale contenuto nei suoi scritti autobiografici.
Ma, a preferenza di questi esempi, il modello che Don Alberione segue più da vicino è forse San Paolo, non nello stile ma nello spirito. Medesima l’umiltà del convertito; medesima la riconoscenza al Cristo che l’ha sottratto alle tenebre per far di lui uno strumento della sua Luce; medesimo l’intento finale: glorificare la divina Misericordia e fare opera di “evangelizzazione”. Anche Paolo annunciava il vangelo narrando le sue esperienze spirituali. Dovendo poi parlare di visioni, usava la terza persona (cf 2Cor 13,3-4). Certamente le “visioni”, pur minimizzate dall’Apostolo per la “debolezza” entro cui si manifesta la “potenza” del Signore (cf 1Cor 12,9), sono testimonianze di alto significato, anche se difficilmente comunicabili a quanti non ne abbiano fatto l’esperienza.
Probabilmente Don Alberione si è trovato in un problema simile a questo di Paolo. L’esperienza di doni spirituali è di per sé irripetibile: narrarla ad altri, quale effetto può mai produrre? Ciò spiega una certa ritrosia a manifestare segreti personali. A noi sembra che, a indurlo a scrivere su tali argomenti, sia stato il desiderio di lasciare ad altri il meglio di sé, cioè quanto Dio ha compiuto in lui e per mezzo di lui a favore della comunità cristiana. E se la Famiglia Paolina è destinataria di tale eredità, sarà in grado di capire ed apprezzare AD nel suo vero significato.
b) È una storia?
A questo punto ci si può chiedere se l’atteggiamento migliore per leggere l’opera AD non sia quello stesso di chi l’ha scritta. Don Alberione “racconta” una serie di ricordi, nei quali è possibile cogliere gli elementi, la direzione e il senso di una storia. Ed è una storia di Dio, più che una dottrina o una vicenda di uomini, quanto egli intende lasciare alla sua Famiglia. Una storia che è da riconoscere come guidata dall’alto – una “storia sacra” – che rimane tuttavia da sviluppare, con l’impegno di chi segue.
Da un punto di vista critico possono esservi degli interrogativi: p. es. sulla storicità non verificabile dei “sogni” o di altri particolari circa la famosa notte dal 1900 al 1901 (cf AD 13). Comunque sia, certe esperienze forti marcano tutta la vita. Forse c’è stata in Don Alberione, come in Paolo, una forte illuminazione da parte del Cristo presente, tale da cambiare il corso della sua vita. Una tale “esperienza dello Spirito” è ciò che nella teologia attuale si chiama “carisma del Fondatore”: una luce vissuta in prima persona, ma per essere partecipata. È ovvio che, anche sul piano storico, essa costituisca un dato significativo e comporti conseguenze per quanti ravvisano in tale esperienza le proprie radici carismatiche.7
Se questo è vero, quali sono i criteri per interpretare correttamente AD? Tenteremo più avanti qualche risposta in breve. Intanto ci permettiamo di sviluppare una riflessione sulla sobrietà del racconto alberioniano.
L’atteggiamento di fondo, che si può cogliere leggendo AD, ci sembra ben espresso dalla parola “distanza”. Una distanza o distacco che l’Autore prende da se stesso, per lasciar parlare i fatti; e distanza dagli eventi che egli osserva attorno a sé, e dai grandi filoni di idee e di prassi del suo tempo. Egli si distanzia per meglio vedere, cogliere e valutare la “ricchezza” di cui Dio ha gratificato la sua persona e la Famiglia da lui fondata.
La storia vissuta da Don Alberione si capisce da noi per immedesimazione o “empatia”. Dovremmo imparare a “leggere” la realtà con i suoi stessi occhi, senza alcun velo che non sia quello dell’umiltà, proprio di quei contadini piemontesi, alla cui categoria Don Alberione era orgoglioso di appartenere (cf AD 125): persone semplici, instancabili nel lavoro, dalla percezione immediata, perché sempre fissa sul reale quotidiano.
Allora AD ci appare come un vasto paesaggio, non solo da contemplare ma da percorrere, lungo itinerari antichi e nuovi, oltre il filo dell’orizzonte, nella prospettiva dell’eternità.
L’eternità! Una «visione di tutto in Dio, nell’eterna vita, per il lume della gloria» (AD 194). È il punto di osservazione più alto e comprensivo.
Da tale prospettiva, la narrazione delle «abbondanti ricchezze di grazia... da rivelarsi nei secoli futuri per mezzo dei novelli angeli della terra, i religiosi» (AD 4), acquista il carattere di un manuale di preghiera e di meditazione, come un testo ispirato. Leggere AD è un po’ come leggere San Paolo: si è ammessi a contemplare la realtà di Dio e del mondo in una “maggior luce”, quella irradiata dal Maestro (AD 153): luce di Gesù risorto, la stessa che illuminò Saulo (AD 159) in viaggio di conversione da Gerusalemme a Damasco, dall’Antico al Nuovo Testamento.
In breve, il nostro approccio di lettura ad AD sarà obiettivo e fecondo nella misura in cui ci porremo in una prospettiva non solo storica, ma anche biblica e carismatica. Solo così potremo cogliere tutta la “ricchezza” di doni o di “grazia” che ci viene qui offerta.
Don Alberione in AD appare un uomo ispirato, come San Paolo allorché narra ai suoi lettori le proprie esperienze. Sia Paolo che Don Alberione comunicano la charis, il dono e il profumo della loro “consacrazione”, che li ha resi apostoli e profeti di Cristo.
Ecco: “profeta” potrebbe essere l’appellativo che meglio qualifica Don Alberione. Tale infatti egli si sente – e lo espliciterà più tardi – quando “sotto la mano di Dio” evoca la propria missione particolare e quella della sua Famiglia nel mondo di oggi. La “profezia” consiste qui, per noi, nella testimonianza delle tante ricchezze, che queste pagine ci aiutano a riscoprire e a rivalutare.
a) Ricchezze di natura e di grazia
Don Alberione utilizza nel nostro dattiloscritto le parole “grazia”, “soprannaturalità”, “santità”, “missione” per indicare il passaggio alla completezza: dalla natura alla grazia, dalla ragione alla fede. È necessario “elevarsi”, accogliendo la chiamata di Dio a una missione particolare, per poter “elevare” tutti e tutto; per portare a tutti la verità del Vangelo.
Questo ministero di “verità” e di “grazia” viene potenziato dalla personale elevazione mediante la vita consacrata, il vero arricchimento di quanti si fanno “religiosi e religiose” per tendere alla «più alta perfezione, quella di chi pratica anche i consigli evangelici, ed al merito della vita apostolica... [e per] dare più unità, più stabilità, più continuità, più soprannaturalità all’apostolato» (AD 24).
Il punto di partenza di ogni vocazione apostolica è, per Don Alberione, avvertire in clima di fede e di “zelo” l’assillo che fu di Paolo: portare gli uomini a Dio e Dio agli uomini. Ed è la “pietà” che apre gli occhi e il cuore dell’apostolo, e gli fa percepire – come alla Vergine della Pentecoste, la Regina degli Apostoli, – che «il mondo ha bisogno di Gesù Cristo Via Verità e Vita» (AD 182).
Anche la missione specifica è “grazia”, comunicazione delle ricchezze di Dio per la salvezza del mondo; ed è questa “grazia” che illumina di un significato teologale i regolamenti apostolici e formativi, le stesse Costituzioni dei singoli Istituti paolini.
Del primato della “grazia” o della “santità”, altra parola che esprime la stessa realtà, Don Alberione è indotto a fare il suo programma di vita. «Nel sogno... gli parve di avere una risposta. Gesù Maestro infatti diceva: “Non temete, io sono con voi. Di qui voglio illuminare. Abbiate dolore dei peccati”. Ne parlò col Direttore Spirituale, notando in quale luce la figura del Maestro fosse avvolta. Gli rispose: “Sta’ sereno; sogno o altro, ciò che è detto è santo; fanne come un programma pratico di vita e di luce per te e per tutti i membri”» (AD 152-154).
Un ulteriore dono di grazia fu per Don Alberione la scoperta di San Paolo, davanti al quale egli resta ammirato per la «personalità, la santità, il cuore, l’intimità con Gesù» (AD 64): l’apostolo universale, modello di santità e di dedizione al Vangelo. Di qui la regola: «La prima cura nella Famiglia Paolina sarà la santità della vita, la seconda la santità della dottrina» (AD 90). L’esperienza paolina starà sempre a confermare che la “azione esteriore” deriva da una “azione interiore della grazia”. Così «tutto: natura, grazia e vocazione, per l’apostolato» (AD 100). La missione è carità per le genti. Senza intimità con il Signore non è possibile diventare realmente “apostoli”.
Perciò l’esame di coscienza, soprattutto in “momenti di particolari difficoltà”, verte su possibili “impedimenti all’azione della grazia”, da togliere per fare spazio alla presenza del Maestro divino in casa. Con lui diventa possibile crescere «in sapienza, età e grazia, fino alla pienezza e perfetta età di Gesù Cristo» (cf AD 160); fino alla identificazione con lui, o “cristificazione”.
b) Ricchezza di prospettive storiche
Accanto agli eventi di grazia narrati in queste sue memorie, un’altra ricchezza ci sembra consistere proprio nella “storia” in se stessa e nella vastità del suo orizzonte.
Don Alberione parla di una “duplice storia”, che egli rivisita in contesto di meditazione e di preghiera: «La storia delle Divine Misericordie, per cantare un bel Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus. Inoltre, la storia umiliante della incorrispondenza all’eccesso della divina carità e comporre un nuovo e doloroso Miserere...» (AD 1).
La “storia” ha per protagonista il Creatore, ed è una “maestra” che sempre insegna; o meglio: è una continua lezione del Maestro divino. Perciò il giovane Alberione legge con passione la storia nelle sue svariate dimensioni: Storia universale, Storia della Chiesa, Storia della Letteratura universale, Storia dell’Arte, Storia della Guerra, della Navigazione, della Musica in specie, del Diritto, delle Religioni, della Filosofia.
Dalla storia egli ha visto confermata l’universalità della salvezza e quindi della missione. Dallo studio e poi dall’insegnamento della storia egli ha appreso a “pensare grande”, ecumenicamente; e ne ha tratto un corrispondente impegno sul piano dell’agire: la decisione di intervenire fattivamente nel proprio ambito di vita, non come gregario ma come guida trainante, fondatore di un’istituzione che deve apostolicamente arrivare a tutti. Ecco perché, narrando AD, Don Alberione inserisce la sua piccola storia nella storia universale della salvezza.
Divenuto “persona pubblica” per vocazione, egli non intende più ritirarsi in privato, ed assume la vocazione al sacerdozio, avvertita sin dall’infanzia, come una chiamata alla corresponsabilità per la salvezza del mondo. Comprende quindi la necessità di prepararvisi, di «sviluppare tutta la personalità umana per la propria salvezza e per un apostolato più fecondo; mente, cuore, volontà» (AD 22).
Le circostanze, anche quelle più dolorose, lo aiutarono a crescere e ad agire più efficacemente per il bene degli altri.
Fare storia con la Chiesa del proprio tempo significa camminare con l’uomo al séguito di Cristo. E ciò dà sicurezza di indirizzo in mezzo alle numerose correnti della cultura, tra progressisti e conservatori, tra discepoli del Vangelo e maestri dalla dubbia autorità. Don Alberione impara a pensare e a lavorare pastoralmente.
Le citazioni di eventi e di date storiche si susseguono lungo tutto AD, e tutte mostrano l’importanza che Don Alberione annette alla storicizzazione della sua opera; cioè al fare storia di salvezza insieme agli uomini della propria generazione. A vivere, se necessario, anche pericolosamente, disposto a pagare di persona per la fedeltà al compito affidatogli dalla Provvidenza.
Nella personale vicenda di Don Alberione esistono momenti in cui la vita è in pericolo, anche per l’eccessivo lavoro. Attraverso una grave crisi di salute, che sembra compromettere in modo irreparabile la continuità della sua opera, egli esperimenta che senza Dio nulla è possibile, e che la vita va giocata sulla fede.
L’«andare avanti con fede» su strade nuove, forte di una carità apostolica che rinnova lo slancio missionario e organizzativo di Paolo, diviene così un’ulteriore espressione della storia salvifica e, nel caso nostro, un paradigma carismatico per l’intera Famiglia Paolina.
c) Ricchezza di temi spirituali
Vi è una ricchezza antropologica, compendiata nella triade “mente, volontà e cuore”. Tutto l’uomo è per Dio e per il mondo. E come tutto l’uomo va salvato nella totalità delle sue componenti, così tutta la ricchezza personale di doti umane va spesa per l’apostolato. Anche la formazione deve essere integrale: «Tutto l’uomo in Gesù Cristo, per un totale amore a Dio: intelligenza, volontà, cuore, forze fisiche» (AD 100).
Vi è poi una ricchezza teologale ed ascetica, che consente di appropriarsi di tutto il Cristo, in modo integrale, nella “divozione” e nel metodo “via, verità e vita”. Perciò «la Famiglia Paolina aspira a vivere integralmente il Vangelo di Gesù Cristo, Via, Verità e Vita, nello spirito di S. Paolo...» (AD 93). E così la preghiera, la formazione, l’apostolato e gli studi «siano sempre ordinati e coltivati in modo tale che Gesù Cristo nostro Divino Maestro, che è Via, Verità e Vita, sia da noi sempre più intimamente conosciuto e Cristo si formi pienamente nella mente, nella volontà e nel cuore; così diventeremo esperti maestri delle anime, perché prima siamo stati umili e diligenti discepoli di Cristo» (AD 98).
Tutto Dio: la Trinità. Don Alberione non nomina frequentemente lo Spirito Santo, riferendosi più spesso alla “grazia”. Ma «tutto deve terminare alla domenica in un gran “Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus” ad onore della Ss. Trinità, cantato dagli angeli, come programma di vita, apostolato e redenzione di Gesù Cristo; il Paolino vive in Cristo» (AD 183).
La Chiesa, intesa globalmente come Corpo di Cristo, popolo di Dio e guida gerarchica, è una ricchezza inesauribile: essa è colma delle ricchezze di Dio, poiché riassume tutta la dottrina del Maestro, i suoi esempi, la sua vita. Da essa la Famiglia Paolina attinge fin dai suoi inizi, da quando cioè fu decisa la prima fondazione nel centro della cristianità. «Si è a Roma, per sentire meglio che la Famiglia Paolina è a servizio della Santa Sede; per attingere più direttamente la dottrina, lo spirito, l’attività d’apostolato dalla Fonte, il Papato; Roma è maestra del mondo, eppure tiene le porte aperte all’umanità; da Roma partono i mandati per ogni direzione» (AD 115).
AD è nato durante l’anno 1953. Nell’arco di quei mesi la proverbiale operosità di Don Alberione era giunta al suo massimo livello. Attorno a lui fervevano imprese e slanci su tutti i fronti: ed egli, abituato fin dall’adolescenza a respirare l’aria dei grandi spazi e a percepire segnali dalla Chiesa universale, sentiva a sé congeniali il risveglio primaverile seguito alla pace del 1945 e conciliato dall’autorità carismatica di papa Pio XII.
Iniziative di largo respiro si intrecciavano con movimenti locali di forte impatto popolare, come la crociata per un “Mondo migliore” e la “Peregrinatio Mariæ”: espressioni di un risveglio più vasto, favorito dalle celebrazioni per il Giubileo del 1950 e per l’Anno Mariano 1954. Sono noti i dibattiti teologici e i timidi segni di riforma – liturgica, pastorale, ecc. – che scandirono il cammino della Chiesa in quegli anni, e ai quali Don Alberione volle associarsi con articoli sui periodici Vita Pastorale, Orizzonti e Madre di Dio, a favore p. es. di un rinnovamento pastorale e di un rilancio mariano, con la proposta di definizione dogmatica della Mediazione universale di Maria. Dibattiti, accompagnati spesso da sofferenze, veti e tensioni politico-sociali, che prepararono il clima al Concilio Vaticano II.
Né sfuggivano a Don Alberione i grandi eventi della politica nazionale ed internazionale di quel periodo (si pensi alla “guerra fredda” e alle vicende che accompagnarono la morte di Stalin nel 1953); eventi che seguiva dai giornali e talvolta da contatti con persone direttamente impegnate nella vita pubblica. È noto come Don Alberione non fosse incline ai facili schieramenti, e come seguisse gli orientamenti della Chiesa ispirandosi di preferenza al Vangelo e osservando i fatti come dall’alto, con l’occhio di Dio.
Entro questa cornice si svolgeva la sua più intensa attività di Fondatore, alle prese con problemi immediati, quali p. es. i lavori per la rifinitura e la decorazione del Santuario Regina Apostolorum, che voleva inaugurato entro l’Anno Mariano. Il controllo dei lavori e l’assillo per le spese erano tali da assorbire gran parte del tempo e delle energie; ma non appresentavano che uno degli aspetti esteriori della sua attività. Assai più assillanti erano le «preoccupazioni per tutte le chiese» (cf 2Cor 11,28), ossia le cure dedicate alla costruzione spirituale della Famiglia Paolina. Famiglia che non solo era tuttora in fase di costituzione giuridica, ma non era nemmeno compiuta quanto a membri, mancando ancora la Congregazione delle Suore Apostoline e tutti gli Istituti aggregati.
L’iter per l’approvazione canonica delle Congregazioni femminili procedeva speditamente, dopo la grave crisi del 1946-1948 che aveva minacciato la vita delle Suore Pie Discepole. Il 15 marzo 1953 giunse l’approvazione pontificia delle Figlie di San Paolo, e il 22 aprile 1953 l’approvazione diocesana delle Suore di Gesù Buon Pastore. Ma ciò non esentava il Fondatore dal farsi presente né dal sollecitarne il cammino, quando si profilavano difficoltà o stasi.
Al tempo stesso Don Alberione provvedeva alla formazione spirituale e apostolica delle comunità, con un impegno di catechesi che si esplicitava nelle meditazioni e prediche, tenute pressoché ogni giorno ai gruppi presenti nel circondario di Roma, e soprattutto alle comunità riunite nella cripta del Santuario. I cicli di tali prediche, che si susseguivano dal 1952 al 1954 intervallati dai viaggi, costituiscono un “corso di formazione” che anticipa quelli di Ariccia (Cf Ut perfectus sit homo Dei, 1960) e che ci offrono una rilettura basilare dei valori fondanti del nostro carisma.
Nel frattempo si accompagnava l’opera di organizzazione dell’apostolato, promossa da Don Alberione con iniziative che videro la luce in quei mesi e che costituiscono anticipazioni profetiche di sviluppi successivi: si pensi alla costituzione dei Centri editoriali a raggio nazionale e internazionale (Ufficio Edizioni per l’Italia, Ufficio editoriale per i Paesi di lingua spagnola...); ai Centri di diffusione o “propaganda razionale”; all’impegno per i documentari catechistici e la produzione di lungometraggi, come Mater Dei e Il Figlio dell’Uomo, ecc.
Infine, ma non per ultimo, l’impegno di presenza e animazione alle comunità lontane con i grandi viaggi a raggio intercontinentale. Opera la più gravosa e stressante fra tutte, iniziata nell’immediato dopoguerra, col primo viaggio in America (1946), proseguita con il periplo del globo, verso l’Oriente e le Americhe (1949) e ripresa nel 1952-1953 con nuova visita ai paesi dell’Oriente, dell’Oceania e del continente americano. Durante tali viaggi – come testimoniarono le Superiore generali delle Figlie di San Paolo e delle Pie Discepole, Maestra Tecla e Madre Lucia Ricci, che lo accompagnavano, – Don Alberione attraversò situazioni di salute talmente critiche da dubitare della sua vita. Ma non volle mai cambiare tragitti né programmi, preoccupato solo di rispettare gli impegni assunti con le comunità che l’attendevano alla prossima tappa. Un documento dello spirito che presiedeva a tali viaggi è costituito dagli appunti redatti sull’aereo: abbozzi di preghiere, come le “Invocazioni a Gesù Maestro” stilate mentre sorvolava le Ande sudamericane, o considerazioni di carattere missionario, come le note sulla situazione religiosa dei popoli osservati dall’alto, mentre sorvolava la catena dell’Himalaya e il subcontinente indiano (cf gli articoli del San Paolo dedicati a tali viaggi e raccolti in Carissimi in San Paolo, pp.1007-1043).
Tra un viaggio e l’altro Don Alberione scriveva AD. È difficile escludere dalla sua riflessione l’oggi e il mondo, che egli scrutava non da turista, ma con l’«occhio penetrante» dell’ apostolo e del profeta. Gli avvenimenti, vissuti dall’interno o letti sul giornale, diventavano argomento di meditazione. «Dal Canonico Chiesa aveva appreso a trasformare tutto in oggetto di meditazione e di preghiera presso il Maestro divino: per adorare, ringraziare, propiziare, chiedere» (AD 68).
Informarsi sul mondo è la condizione previa di ogni apertura apostolica. E la conoscenza sfocia in una programmazione a raggio mondiale.
Volendo concludere con alcuni suggerimenti utili per una lettura fruttuosa e per una corretta attualizzazione di AD, ci paiono opportuni i seguenti cenni:
a) Come tutte le realtà in evoluzione, molti eventi narrati o solo accennati in AD acquistano pieno significato solo dal séguito che hanno avuto nell’attività e negli scritti posteriori del Fondatore. D’importanza fondamentale per la comprensione di AD sono quindi le cinquanta “Istruzioni” tenute da Don Alberione ad Ariccia negli Esercizi spirituali del 1960, ripubblicate in volume unico in Ut perfectus sit homo Dei (Opera Omnia, Roma 1998). Questo libro, che integra in qualche modo AD, costituisce con esso forse il testamento del Fondatore per l’interpretazione autentica della sua eredità.
b) Non basta ripetere alla lettera, nell’oggi e nei diversi contesti culturali in cui vive e opera la Famiglia Paolina, quanto il Fondatore scriveva nel 1953, per entrare efficacemente nella corrente di storia carismatica da lui iniziata.
c) Un aggiornamento continuo di mentalità e di prassi è importante per stabilire la continuità con le ricchezze del testo: camminare con i tempi, progredire, organizzarsi, «vagare con la mente nel futuro», lavorando nel proprio ambiente.
d) Anche “visioni”, ispirazioni o “sogni”, sono utili per scoprire la volontà di Dio, oltre i limiti di un intellettualismo arido, di un legalismo soffocante o di uno scientismo da cui il “soprannaturale” o la “grazia” venissero esclusi.
e) È indispensabile il continuo discernimento, e quindi la direzione spirituale, il consiglio, le letture finalizzate alla propria crescita e alla chiarezza della visione pastorale sulle necessità del mondo.
f) Bisogna assumere senza timori la progressività e la modernità, come tensione quotidiana al compimento della nostra vocazione apostolica.
g) La cooperazione fra istituzioni e con il laicato è condizione per svilupparsi come Famiglia, così da realizzare effettivamente il programma missionario e spirituale di «San Paolo vivo oggi».
h) Occorre rivalutare il genere letterario della “narrazione”, come veicolo per comunicare il messaggio del divino Maestro, nello stile dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli.
i) Si rivaluta, in conclusione, lo studio della storia, non solo come “memoria” del passato, ma anche come magistra vitæ: via obbligata per appropriarsi delle radici paoline e per crescere in armonia con esse.
Queste ed altre lezioni potrebbero essere condensate in espressioni ancora più semplici, quali: il primato dello Spirito sui mezzi, del “soprannaturale” sul “naturale”, della “grazia” sull’istituzione; l’onnipotenza della fede nonostante le deficienze umane: l’apostolo può essere fragile e povero, ma con Dio tutto gli è possibile.
In conclusione, leggendo AD, ci si arricchisce di un memoriale e, insieme, si intravede un programma nuovo, impegnativo, di “cose da realizzare”: un percorso di “ricchezze” che restano tuttora da acquisire. AD ci si rivela dunque non solo come una storia di eventi passati, ma come chiave di lettura per il nostro presente e profezia per il futuro dell’intera Famiglia Paolina.
Roma, 4 aprile 1998.
A. COLACRAI - E. SGARBOSSA
1 Testimonianza raccolta da Don Antonio DA SILVA e pubblicata su Conoscere Don Alberione, I (1982), 35s.
2 San Paolo, Luglio-Agosto 1954. Si veda il “Saluto” rivolto ai Visitatori della Esposizione Paolina, allestita in Alba (Cuneo) nell’agostosettembre 1954. Vi è pure conservata una Predica del Primo Maestro per ricordare la data del 20 agosto 1914.
3 Opuscolo di 48 pagine, formato cm. 11,5 x 17,7, senza indicazione di luogo di edizione né di data. Anche le Figlie di S. Paolo ne fecero un’edizione, datata 2 ottobre 1969, 56 pagine, formato 11 x 15.
4 Cf F. VERNET, Autobiographie spirituelle, in DS IV (1935) 1141-1159.
5 In versione latina: Poëmata Historica de Seipso, in particolare il poema XI, di 1949 versi.
6 Di Ignazio si veda il testo critico in Monumenta Ignatiana e Fontes Narrativi I, 323-507. – Questo scritto riveste un particolare interesse per l’instancabile “discernimento” spirituale e psicologico che l’A. fa su di sé, e anche per il fatto che adotta la terza persona, come farà Don Alberione in AD.
7 Cf Evangelica Testificatio, 11; esortazione apost. di PAOLO VI, in AAS (1971) 497-526; e Mutuæ Relationes 11-12, note direttive delle S. Congregazioni per i Religiosi e gli Istituti Secolari, e dei Vescovi, in AAS 70 (1978) 473-506. – F. CIARDI, I Fondatori uomini dello Spirito, Città Nuova 1982, dove Don Alberione viene analizzato in diverse pagine.