MEDITAZIONE III.
Come trasformare la passione predominante in forza di merito
Perché si ha da prendere di mira la passione predominante e tendere ad acquistare la virtù opposta alla medesima?
1) Perché essa è la più pericolosa. È la più forte; di essa dunque dobbiamo temere maggiormente. È la più profondamente radicata; dunque, quando meno ce l'aspettiamo, può sorprenderci e farci rovinare. Se ne hanno talora manifestazioni anche nei momenti più sacri, anche nelle funzioni più delicate. Mai si può essere al sicuro: Nec in praeterita virtute confides; anche quando appare domata, non c'è da fidarsene: le passioni si vincono, ma non si distruggono.
2) Perché, vinto il capitano si trionfa facilmente di tutto l'esercito. Giuditta
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mirò al capo dell'esercito nemico: Oloferne. Se ella avesse ucciso anche mille soldati e cento sottocapi, non avrebbe sbaragliato il nemico, nè liberata la sua città: ma, trionfando di Oloferne, la vittoria fu completa.
Dice S. Francesco di Sales che per profittare molto nella perfezione, conviene attaccarsi ad una cosa sola, ad un sol libro di devozione, ad una sola virtù, e simili. Non già che si debbano rigettare e trascurare affatto tutte le altre cose; ma in modo che questa alla quale uno si appiglia, si prende per ordinario più in particolare di mira e come principale oggetto della più frequente applicazione. Dice S. Alfonso Rodriguez: «La principale cosa, alla quale abbiamo da mettere gli occhi addosso per mortificarla e sradicarla da noi, è la passione predominante: cioè quell'affetto, quell'inclinazione, quel vizio o cattiva abitudine che più regna in noi, che ci tira dietro a sè, ci mette in maggiori pericoli e più frequentemente ci fa cadere in maggiori errori. Perché? Perché, preso il re, è vinta la battaglia. E finché non faremo questo, non faremo grande avanzamento nella perfezione.
Mentre efficacemente si attende all'acquisto di una virtù, le altre tengono
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dietro, come attirare da quella prima. Le virtù sono intimamente collegate, poiché esse non sono che fiammelle di uno stesso fuoco: la carità, o la costruiscono, o l'accrescono, o ne sono la luce, o ne sono il calore. Sebbene i libri considerino le virtù con molte distinzioni, esse in realtà nell'anima non sono che un'unica virtù; come si distinguono tante potenze, attitudini, operazioni nell'uomo, ma in realtà è un unico io. Chi cammina innanzi con i suoi piedi va innanzi con tutto il corpo! Chi porta innanzi il capo va innanzi con tutto il corpo. La fede frutterà la speranza, la carità, il distacco dalla terra, lo spirito di sacrificio, ecc.; il santo amor di Dio ecciterà la speranza, farà fiorire la castità, la pazienza col prossimo ecc.
Portate il vostro cuore molto vicino a Dio, anzi sostituite il vostro cuore con quello di Gesù: sarete molto santi; abbiate la mente molto vicina alla mente di Gesù, anzi sostituite la vostra mente con la sua: voi sarete assai perfetti; la vostra volontà sia del tutto unita alla volontà di Dio, anzi sia sostituita dalla volontà di Gesù Cristo: sarete subito totalmente buoni figli di Dio.
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PRIMO PRINCIPIO. La lotta contro le passioni dovrà durare a lungo? Sì, fino all'ultimo respiro: le passioni non muoiono. «Sono diciotto anni che prendo la mia collera per il collo», ecco la dichiarazione di un Santo. «Quanto alla mia superbia, sarei contento che essa morisse tre ore dopo che sarò spirato!» Così parla un uomo che ha mai dato tregua alle sue passioni. Che dire di chi invece le ha soddisfatte parecchio, tante volte anzi? Sovente, anche sul letto di morte, la superbia, l'ambizione vogliono scegliersi il funerale, l'accompagnamento, la cassa, la tomba.
Le passioni si possono però frenare, sebbene non muoiano. E qui sta la mortificazione: motuum facere, render come morte le nostre tendenze sregolate, in maniera che non nuociano più. Si tratta di imbrigliare il cavallo, direbbe San Giacomo, perché lo si possa guidare ritraendolo dai precipizi e sospingendolo diritto sulla buona via: «Si autem equis frena in ora mittimus ad consentiendum nobis, et omne corpus illorum circumferimus» (Jac. III, 3).
L'ultima pratica di pietà a lasciarci nell'estrema malattia nostra, dev'essere l'esame di coscienza; perché non bisogna mai perdere di vista chi può giocarci
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che brutto tiro; la passione. L'esame di coscienza è appunto il tenere d'occhio il nostro io, propenda esso più alla superbia, o alla sensualità, o all'attaccamento alla terra. Ogni giorno, dunque, con le armi in pugno, sul campo di battaglia, fino alla corona: «Bonum certamen certavi... in reliquo reposita est mihi corona justitiae». (II Tim. Iv, 7-8).
SECONDO PRINCIPIO. Se ci persuadessimo che il merito sta più nella lotta che nel pacifico possesso della virtù, noi faremmo assai più progresso. Il soldato guadagna la medaglia al valore non sotto la tenda, non quando siede a custodire i trofei e le conquiste fatte, ma allorché combatte da prode e vince.
La nostra passione predominante è un terribile nemico, è un'occasione delle maggiori lotte; per chi fugge la lotta, diventa occasione di molti peccati; per chi invece affronta coraggiosamente il nemico, diventa occasione di meriti più grandi. È migliore chi vince se stesso che non colui che espugna una fortezza. È relativamente facile accostarsi alla Comunione, recitare un Rosario; ma vi sono delle passioni così aspre, delle fasi di lotta che richiedono estrema violenza a noi stessi. San Girolamo si vince
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percuotendosi il petto con un sasso; un Santo si getta in uno stagno di acqua freddissima; un altro va a rivoltarsi in uno spinaio; moltissimi ricorrono a digiuni, a flagelli, a discipline asprissime; i più trionfano col sorriso sulle labbra, navigando però col sorriso sulle labbra, navigando però a tutt'uomo contro corrente. «Tantum proficies quantum tibi ipsi vim intuleris» (Imit.).
TERZO PRINCIPIO. «Omnes Sancti per multas passiones et tentationes transierunt et proficierunt» (Imit. cap. IX) I Santi tutti passarono attraverso a molte prove e molte tentazioni, e così progredirono nella virtù, nella perfezione cristiana, nei meriti . L'uomo di buona volontà ricavata il suo profitto spirituale dalla tentazione per la divina grazia. «Faciet etiam cum tentatione proventum» (I Cor. X, 13).
Il giovane che incontra molte difficoltà, scoraggiamenti, dubbi, tentazioni di ogni sorta, più tardi diverrà il consolatore efficace; diverrà l'angelo che saprà incoraggiare ogni anima alla lotta, alla conquista del Cielo. Ma chi non incontra difficoltà che cosa saprà? «Qui non est tentatus, quid scit? (Eccl. XXXIV, 9). Il Divin Maestro stesso volle portare le debolezze dell'umana natura e provò
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nell'orto del Getsemani la infermità della carne. «Debuit per omnia fratribus similari» come dice San Paolo «ut misericors fieret» (Hebr. II, 17).
Due sorta di anime danno fiducia scarsa: quella non tentate, e peggio quelle che, tentate, non lottano.
Allorché le passioni sono molto vive, riesce più aspra e difficile la lotta; ma le stesse passioni ben guidate saranno una sorgente di forza nel ben operare. Aspiriamo alla vera gloria, alla gloria eterna. L'ira divenga zelo contro il peccato; l'amore sia diretto al Signore. Allorché tutto sarà impegnato contro il peccato e per il Signore: mente, cuore e volontà, quale potenza! quanto cammino! «Viam mandatorum cucurri, cum dilatasti cor meum» (Ps. CXVIII, 32).
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Tre sono i mezzi generali da mettersi in opera per vincere la nostra passione predominante: l'esame di coscienza, la preghiera, lo sforzo. Inoltre, in ogni stato vi sono mezzi speciali che risultano dalle condizioni di vita e dalle obbligazioni del proprio stato.
La generosità della volontà è il segno del fervore; è per parte nostra il mezzo più importante di lotta; è la condizione
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per ricevere grazie dal Signore al Signore non piacciono i tiepidi: «Utinam frigidus esses aut calidus: sed quia tepidus es, et nec frigidus, nec calidus, incipiam te evomere ex ore meo» (Apoc. III, 15 - 16). Sono le parole che dimostrano il grado di fervore della volontà.
L'esame di coscienza. Dobbiamo togliere l'io in quanto fa capo alla concupiscenza nostra sentita più violentemente: cioè in quanto si mostra guasto dalla passione predominante. E al posto del nostro io dobbiamo mettere Dio, affinché Egli viva in noi. «Vivo ego, jam non ego: vivit vero in me Christus» (Filipp. III, 15).
L'esame è dar la scalata all'io; è la continua opera demolitrice che instancabilmente opera dalla mattina alla sera, da un anno all'altro. La preghiera poi, liturgica specialmente, attira in noi Gesù Cristo, vivo, pesante, operante, amante. Esame di coscienza e preghiera: ecco il continuato e vitale espirare ed inspirare del cristiano.
L'esame di coscienza abituale è un continuato sguardo, è l'occhio costantemente volto all'anima: a) negli Esercizi Spirituali; b) nei ritiri mensili; c) nelle confessioni settimanali; d) nell'esercizio spirituale di ogni mattina; e) nell'esame della visita al SS. Sacramento.
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Ogni esame dà un duplice sguardo: al passato e al futuro: Come ho fatto? Come farò?
Negli Esercizi Spirituali: Come ho passato l'anno? che programma-proposito preparo e svolgerò l'anno prossimo?
Nei ritiri mensili: Come ho trascorso il mese ora terminato? Come passerò il mese che incomincio?
Nelle Confessioni settimanali: Sono stato fedele al mio proposito principale durante la settimana? Rinnovo oggi la mia risoluzione più fermamente e più umilmente?
Ogni mattina prima della Comunione: Ieri ho mancato, oppure sono ancora rimasto debole su qualche punto: ora vado alla S. Comunione per fortificarmi per la giornata.
Nella visita al SS. Sacramento l'esame di coscienza occupa un posto importante: si ammira la santità di Gesù Maestro e si piange la propria vita così dissimile; si prega con molto calore e desiderio, affinché la nostra vita si modelli sugli esempi divini: «Conformes fieri imagini Filii sui» (Rom. VIII, 29).
La necessità dell'esame di coscienza è tale che tutti i santi ne fecero grande uso; tutti gli istituti di famiglie religiose lo impongono; tutti i Maestri di spirito
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lo consigliano insistentemente. È noto quanta parte Sant'Ignazio gli diede ed esige che adesso si dia. «Mane propone, et vespere discute mores tuos, qualis hodie fuisti in verbo, opere et cogitatione... Exteriora nostra et interiora pariter nobis scrutanda sunt et ordinanda, quia utraque espediunt ad perfectionem» (Imit.)
Qui però si parla dell'esame particolare su di un determinato proposito che si riferisce alla passione predominante. Esso deve abbracciare il pensiero la volontà, il cuore, poiché la correzione nostra ed il cammino nella perfezione vanno sempre di pari passo: mente, cuore, volontà. Esso deve segnare il progresso dell'amor di Dio: «Amerai il Signore Dio tuo con tutta la tua mente, con tutte le tue forze, con tutto il tuo cuore».
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La preghiera è la elevazione della mente che dà onore a Dio, ed è insieme una domanda per noi, delle cose che ci abbisognano.
La grazia medicinale è la suscitatrice di tutte le nostre energie; è il calore che fa maturare tutte le buone risoluzioni; è il grido dell'anima bisognosa, inferma.
Essa è necessaria come il respiro
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dell'anima, come l'acqua alla pianta, come il cibo al corpo.
S. Alfonso scrisse un libro intiero sull'orazione e fa l'augurio che ognuno lo legga: dice anzi che il leggerlo è un segno di predestinazione divina.
Vi sono grazie, molte grazie che agli adulti Dio non dà se non è pregato. Perciò ecco la conclusione notissima che San Alfonso fa: «Chi prega si salva, chi non prega di danna».
L'orazione è non solo utile, ma strettamente necessaria nella lotta spirituale contro il difetto predominante. Là si concentrano le passioni, il demonio, il mondo, con tutti i loro sforzi; là dunque c'è speciale bisogno di grazia. «Clamabit ad me et ego exaudiam eum» (Ps. XC, 15).
L'orazione è di ineffabile efficacia trattandosi di grazie spirituali, di santificazione, di paradiso. È qui appunto che si vede la verità delle parole di Gesù Cristo: « Qualunque cosa chiedete al Padre in nome mio, in verità vi dico, Egli ve la darà».
Chi non poggia sull'orazione si avvia alla rovina. Golia entrò alla lotta fidando in sé; il giovanetto Davide pregò e si fidò assai più di Dio che della fionda e dei sassi, ed atterrò il gigante. Gesù nell'orto pregò, perché «Spiritus quidem
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promptus est, caro autem infirma» (Matth., XXVI, 41); ed ottenne. Pietro lasciò la preghiera come gli altri apostoli e cadde con essi. L'episodio del Vangelo si ripete ogni giorno per ognuno di noi.
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Lo sforzo. Il cammino alla virtù è un andare contro corrente: perciò occorre navigare a tutta forza impiegando i remi. L'acquisto di una virtù richiede di farsi violenza, di usare virilmente forza. La perfezione lo richiede, il regno di Dio soffre sforzo, ed i violenti lo conquistano. Lo sforzo è necessità di natura, poiché esclama S. Paolo: «Infelix ego homo, quis me liberabit de corpore mortis hujus?» (Rom. VII, 24). La carne ha desideri contrari allo spirito: è dunque necessario combatterla per vincerla. Dobbiamo mai dimenticare che la perfezione non si acquista con le braccia in croce, ma che conviene faticare davvero per domare se stesso e ridursi a vivere non secondo le inclinazioni, ma secondo la regola e l'ubbidienza. la cosa è dura, non può negarsi, ma necessaria; coll'esercizio diventa facile e gustosa (S. Francesco di Sales). «Qui autem sunt Christi carnem suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiis» (Gal, V, 24).
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È cosa d'ogni giorno: reprimere, eccitare, raddrizzare, ritrarre, scuotere, frenare. Molte anime che si dicono pie, giungono fino alla preghiera, alla Comunione; ma chi vuol progredire deve compiere due passi in più: esame di coscienza e sforzo.
Lo sforzo è una salvaguardia contro i pericoli. La causa più frequente e lacrimevole per cui certe persone rovinano di abisso in abisso, è la fiacchezza, la mollezza, la mancanza di sforzo. L'educazione di oggi, e frequentemente anche l'educazione alla pietà, è senza nerbo; forma scarsamente al sacrifizio. Il Maestro Divino invece parla con una chiarezza e forza che ci deve far meditare: «Se il tuo occhio ti scandalizza, strappalo. gettalo lontano...; se il tuo piede ti scandalizza, taglialo, buttalo via...; se la tua mano ti scandalizza, troncala subito... È meglio andare in Cielo con un solo occhio, una sola mano, un sol piede... piuttosto che con due membri essere gettato nel fuoco». L'incendio che consumò l'intera città ebbe principio da una scintilla che con un soffio avrebbe potuta essere spenta! «Principiis obsta, sero medicina paratur, cum mala per longa invaluere moras».
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La mancanza di sforzo è la causa comunissima per cui tanti propositi non si mettono in pratica e tante passioni prendono il sopravvento. Ricordiamo invece: «Unusquique autem propriam mercedem accipiet secundum suum laborem» (I. Cor. III, 8).
Lo sforzo richiede che si ricorra a tutti i mezzi ordinari; e anche a mezzi straordinari: mortificazioni, penitenze, ripieghi; richiede una santa ed ostinatissima ostinazione nei propositi, nella preghiera e nei gemiti, per riuscire. La vita di guerra non è vita di pace; lassù il riposo eterno, qui la fatica, i travagli, le tentazioni. Bisogna lasciar dire al mondo chiacchierone, lascia che il demonio faccia il suo chiasso. Bisogna consigliarsi, detestare, piangere, vigilare, rialzarsi se caduti: la santità è un frutto che si deve guadagnare col sudore della fronte e dell'anima; qualche volta le anime molto amate da Dio sono come associate al sudore di sangue e all'agonia di Gesù nell'orto.
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Mezzi speciali si possono trovare nei nostri doveri quotidiani e nei doveri del proprio stato.
Lo stato religioso ha mezzi eccellenti per dominare le concupiscenze, e
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specialmente le tre concupiscenze maggiori dell'uomo. La superbia è domata dall'obbedienza: le pratiche di pietà, il tono anzi della pietà, l'ufficio in cui occuparci, le persone di convivenza ecc. «Erat subditus illis» (Luc. II, 51): il religioso, come il suo Divino Modello, obbedisce a persone che per talenti possono anche essergli inferiori, ma che comandano per Divina Autorità. Così fu per Gesù verso S. Giuseppe. La vita comune determina tutto: orario, vitto, vestito, alloggio ecc. ecc.: il religioso ha un continuo esercizio di sottomissione e abbassamento. La perfezione dell'obbedienza religiosa mantiene sempre l'umiltà del cuore viva, sentita.
La concupiscenza della carne con le manifestazioni della pigrizia, della golosità, della sensualità, hanno una continua correzione nell'esercizio della bella virtù. Questa si deve portare sino alla perfezione di un voto perpetuo sino alla perfezione di un voto perpetuo che esclude ogni soddisfazione esterna ed interna. La continuità delle occupazioni, l'aiuto di un'assidua assistenza, la separazione dal mondo, le pratiche di pietà abbondanti danno all'anima un calore spirituale, un ambiente caldo di amore a Dio. In esso cresce il giglio della purezza.
La concupiscenza dell'avarizia, o
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modalità dei beni temporali, è medicata dal continuo ricordo dei beni eterni. «Tesoreggiate per il Cielo; ricordate lo spogliamento della morte; amate le vere ed eterne ricchezze», si sente sempre ripetere il religioso. Egli poi spinge la povertà fino al voto, alla rinunzia ai frutti del proprio lavoro, in tutto dipende da altri, quanto all'uso delle cose necessarie, ed ogni cosa per lui è povera, come per Gesù, a somiglianza del quale il religioso non ha di proprio neanche una pietra su cui posare il capo.
La passione predominante, guidata bene, si trasforma in una forza di bene.
È buona cosa recitare qui le preghiere della Chiesa per la festa di Maria Mediatrice di grazia. Se vi è una grazia importante da chiedere alla Madonna si è questa: la vittoria su la passione predominante, l'abnegazione in questo punto delicatissimo.
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