Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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La povertà41
Quando son ben fatti gli Esercizi, si ha anche il frutto di una grande pace, una gioia interiore che il mondo non conosce. «Io vi do la mia pace, non come dà la pace il mondo». Il mondo crede di portare letizia con divertimenti, con soddisfazioni esteriori. Il Signore dà una pace interna che supera ogni altra pace, ogni altra gioia terrena. E certamente se i mondani conoscessero la pace che gustano le anime consacrate a Lui, penserebbero e farebbero molto diversamente.
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Dio solo è il gran Bene, Egli solo ci dà la vera consolazione. Il nostro cuore, il Signore, lo ha fatto per Lui ed è sempre fuori di posto quando non lo ha Lui. E' come se si slogasse un braccio, l'osso è fuori posto. Il cuore quando è fuor di posto sta sempre male, ma quando è orientato verso Dio, è a posto e sente soddisfazione e consolazione.
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Questo è per tutti i cristiani, ma per la religiosa questa verità è ancora più veridica.
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Avete già meditato i santi voti, questi sono i mezzi per praticare la virtù. Però penso che sia utile parlarvi della povertà.
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La povertà come virtù, come voto.
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Le cose che abbiamo noi sono tutte per servire Dio, il cibo per mantenerci nel servizio di Dio, anche la casa l'abbiamo per servire Dio: se non ci fosse dove si studierebbe? Così quello che serve per il vestito: tutto in ordine a Dio; queste cose create sono a servizio dell'uomo perché egli serve a Dio.
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«Tutto è a vostra disposizione, ma voi state al servizio di Cristo, come Egli alla gloria del Padre Celeste».
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Prima che Adamo peccasse, vi era già il lavoro: «Il Signore creò Adamo e lo mise nel paradiso terrestre perché lo custodisse e lo lavorasse». Vi era però la diversità che il lavoro non era faticoso mentre dopo il peccato originale divenne faticoso. Il lavorare è imitare Dio: Egli è sempre in azione, in atto purissimo. Noi, più siamo attivi e più rassomigliamo a Dio. Quando usiamo tutte le nostre facoltà, le nostre forze per Dio, rassomigliamo a Dio: un ozioso non può mai rassomigliare a Dio. Questo anche se non ci fosse stato il peccato originale; ma dopo questo, il Signore diede il castigo che non è solo la morte, ma ancora la fatica del lavoro: «d'ora in avanti, mangerai il pane col sudore della fronte» cosicché il lavoro è la penitenza prima: quella che ci ha dato Dio.
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Nella famiglia Paolina non vi sono troppe penitenze corporali ed austerità: la più grande penitenza corporale è il lavoro. Poi penitenze spirituali: la carità, l'obbedienza, e l'ufficio proprio dell'apostolato. Ma la prima penitenza corporale, il lavoro.
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«Io vorrei digiunare» «Mangia e lavora» «Se mi indebolisco ho meno tentazioni» «Lavora di più, ne avrai meno».
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Lavorare, e allora il corpo è soggetto allo spirito e lo spirito a Dio. Il lavoro può essere intellettuale: l'alunna che sta attenta e lavora, non ha tentazioni, non fantastica. Poi ricordare quello che si studia, per dare agli altri, secondo la missione assegnataci da Dio.
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Poi vi è il lavoro spirituale, più nobile e faticoso. Alle volte è più difficile fare dieci minuti di esame di coscienza che non scopare tutta la casa «Prima scopiamo l'anima nostra» ecco! Questo lavoro, così tutta la pietà e tutto lo sforzo di correzione e di acquisto delle virtù è tutto lavoro spirituale.
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Poi vi è il lavoro apostolico: ciascuna ha nel proprio ufficio il lavoro di apostolato ché se non si ha ancora un apostolato pastorale vi è la preparazione, e del resto, la formazione non si fa mai completamente senza esercizio fisico.
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Poi vi è il lavoro di formazione: trasformarvi da figliole buone, come eravate in famiglia, in buone pastorelle: vi è un cammino lungo da percorrere, poiché si tratta d'aggiungere a quel bene che c'era già, tanto altro bene e sostituire a qualcosa che c'è di difettoso quello che è virtù religiosa. E ci vuol tanto a sostituire ad esempio la nostra volontà con l'obbedienza religiosa.
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Allora prendiamo come penitenza il lavoro, o spirituale o intellettuale o apostolico o formativo.
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Però sempre di tutto un poco; questo lavoro va fatto nella misura giusta e il lavoro spirituale con intensità.
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Questo lavoro è faticoso? Certamente. Ma è redentivo e cioè ci serve a cancellare la penitenza che dobbiamo fare dei nostri peccati e ci serve ad ottenere le grazie per le anime, per la parrocchia, per i peccatori e tutti quelli affidati alle nostre cure o per i quali dobbiamo pregare.
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Il lavoro è necessità di vita? Sì «Chi non lavora non mangi» dice san Paolo. Chi pensa che la vita religiosa sia per schivare il lavoro, si sbaglia profondamente.
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Quando si arriva alla maggiore età e si è finito quello che è preparazione a una missione, o una professione, occorre pensare che abbiamo da produrre non solo per noi ma per gli altri, come il padre e la madre di famiglia.
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Da bambini, col loro lavoro siamo cresciuti, ora occorre far questo per altri; se non ci fosse chi pensa ai piccoli, il mondo finirebbe. Inoltre quando vi è salute e forza, occorre pensare che un giorno si sarà malati e questa è una provvidenza necessaria, umana, senza parlare ancora di vita religiosa.
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Si deve aiutare il prossimo o materialmente o spiritualmente, perché anche l'educatore fa la sua missione. Tutti abbiamo inoltre dei doveri sociali ai quali non possiamo sottrarci. E peccheremmo se non si fosse tutti impegnati, per esempio, anche per il progresso materiale dell'istituto.
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Si deve pensare alle figliole che stanno in Casa per formazione e che Gesù buon Pastore ci manda; si deve pensare alle sorelle malate o anziane; vi è l'obbligo di coscienza.
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Naturalmente occorre che noi diamo al corpo quello di cui ha bisogno: cibo, riposo, casa, medicine se occorre; ma anche dare alla Comunità.
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Alle volte l'egoismo porta a pensare a noi; questo mai: pensare all'istituto. altrimenti pecchiamo.
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Se l'istituto dà tutto, noi dobbiamo dare ad esso, ma non per virtù o voto religioso, per legge naturale, che è prima e più grave del voto; essa è inserita nell'anima nostra e si vuol chiamare giustizia. Avviene che ci siano persone molto esigenti: questo è un difetto grave; abbiamo dei doveri di natura da cui nessuno ci dispensa.
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Povertà quindi, che è distacco, produce; dà e provvede.
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Distacco: non per ambizione le cose. Alle volte questa è tanto industriosa che ricorre a cose ridicole. Tutto deve essere confezionato allo spirito di povertà. Le cose devono essere al nostro servizio, non noi essere schiavi delle cose.
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Chi è goloso e fa troppe distinzioni fra cibo e cibo è schiavo delle proprie comodità, dei propri sensi, del proprio gusto.
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Essere liberi, superiori: servirsi di tutto ma senza esserne schiavi. Non schiavi dell'ambizione, dello spirito di comodità, del gusto: santa indifferenza. Quindi il distacco lascia libero il cuore.
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Il contributo che si porta alla congregazione non è di denaro: non è neanche prescritta la dote. Qui si cercano le doti: intelligenza, salute, capacità, spirito di generosità, amore al lavoro, all'ordine e dedizione.
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Tutto questo a servizio dell'istituto e attraverso l'istituto servire a Dio. Se si può portare anche mezzi materiali all'istituto, è carità farlo, ma quello che è più necessario, riguarda il nostro contributo di mente, volontà, salute, tempo e specialmente di buon esempio, preghiera.
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Amare l'istituto come la famiglia vostra poiché uscire dal mondo, significa uscire dalle vostre famiglie per entrare in una famiglia più numerosa: la suora per religione si chiama madre e come una madre deve provvedere alle necessità della nuova famiglia.

27 agosto 1957

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41 27 agosto 1957.