Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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IL NOSTRO APOSTOLATO

L'attività della Pia Società San Paolo, non è commercio, non è industria; ma è lavoro per la santificazione dei membri, apostolato per la santificazione delle anime.

ALCUNI PRINCIPI

1. La nostra attività è apostolato nel suo oggetto: «...ut sodales... pro viribus operam impendant in catholicae doctrinae evulgationem»; ed è ancora apostolato nel suo fine: «...ad gloriam Dei et salutem animarum» (art. 2).
2. Se poi consideriamo la nostra attività nella sua forma esterna, nei mezzi che si usano per ottenere questo fine: «...libraria, cinematographica et radiophoniea arte; aliisve uberioribus et celerioribus mediis seu aetatis inventis quae humanus progressus suppeditat, atque temporum necessitates et conditiones requirunt» (art. 2); la nostra attività, ripetiamo, non è commercio, non è industria, ma è lavoro, del tutto conforme alla legge della Chiesa.
3. Su questo principio fondamentale, è necessario che noi, prima di tutti, abbiamo le idee giuste, chiare; e sappiamo, se fosse necessario, correggere la mentalità degli altri.
4. Si deve tener presente che la Pia Società San Paolo esercita il suo apostolato, la sua attività, non per una concessione speciale, per una licenza o una dispensa concessa dalla Santa Sede: quasi che la nostra attività non fosse di per sé conforme alle leggi della Chiesa; quasi fossimo solo dei tollerati nella Chiesa.
Al contrario, la Chiesa ha approvato le nostre Costituzioni perchè non solo, nulla contengono di contrario alla legge divina ed ecclesiastica, ma sono ad essa del tutto conformi. La S. Sede ci ha affidata questa missione, questo apostolato, da esercitarsi in questa forma e con questi mezzi, perché l'ha giudicato utile nella Chiesa, e fruttuoso per il bene delle anime e per la gloria di Dio.
Un'opera che ha per fine l'evangelizzazione, la santificazione delle anime: il vero apostolato, non può essere fondato su una dispensa, ma sulla legge, sul mandato divino e della Chiesa.

COMMERCIO E INDUSTRIA

1. Il can. 142 stabilisce: «Prohibentur clerici per se vel per alios negotiationem aut mercaturam exercere sive in propriam sive in aliorum utilitatem».
2. In forza del can. 592, questa proibizione vale anche per i religiosi.
3. Il decreto della S. Congregazione del Concilio, 22 marzo 1950: «Pluribus ex documentis», obbliga sia i chierici che i religiosi, richiama la proibizione del can. 142, stabilisce pene molto gravi per i trasgressori del medesimo can. 142.
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Che cosa è la «mercatura aut negotiatio»
di cui parla il can. 142, e il decreto della
S. Congregazione del Concilio, in data 22 marzo 1950?


1. Si richiamino alla mente i principi che esprimono la dottrina comune, tradizionale nella Chiesa a questo riguardo.
2. La parola mercatura può avere diversi significati. In senso specifico però, in quanto cioè si tratta di mercatura che la Chiesa ha costantemente proibito ai chierici e ai religiosi, perché non conforme al loro stato, significa ogni operazione per cui si compera qualche cosa per rivenderla a più caro prezzo. Il fine quindi è il lucro.
S. Tommaso dice chiaramente: «Non quicumque carius vendit aliquid quam emerit, negotiatur, sed solum qui ad hoc emit ut carius vendat. Si autem emit rem, non ut vendat, sed ut teneat, et postmodum propter aliquam causam eam vendere velit, non est negotiatio, quamvis carius vendat» (II-II, q. 77, a. 4, ad 2).
3. In base a questo concetto, che esprime la dottrina comune e tradizionale, si può facilmente riconoscere qual è il commercio e l'industria che la Chiesa proibisce ai chierici e ai religiosi.!
a) È proibita la mercatura lucrativa, o commercio propriamente detto.
b) È proibita la mercatura industriale, o industria propriamente detta.
c) È proibita la mercatura argentario, detta comunemente cambio, o commercio di valute.

Avvertenze


1. Per comprendere la proibizione della Chiesa di cui al can. 142, in tutta la sua estensione, si tengano presenti le espressioni dello stesso canone: «per se vel per alios»; «sive in propriam sive in aliorum utilitatem».
Il religioso, agisce quindi contro la legge quando esercita il commercio o l'industria personalmente, come quando si serve di altre persone; sia quando il guadagno che spera, intende destinarlo al proprio Istituto o a se stesso, come quando lo destinasse ad altre opere o persone: anche se lo destinasse per un fine altamente religioso, caritativo, sociale.
2. La ragione di questa proibizione ai chierici e religiosi, sta nella legge divina, espressa da S. Paolo nella II Lettera a Timoteo, c. II, 4: Nemo militans Deo implicai se negotiis saecularibus.
Di qui anche il principio generale di cui al can. 139, § 1: «Ea etiam quae, licet non indecora, a clericali tamen statu aliena sunt, vitent». Vi sono certe azioni le quali, anche se non importano le sanzioni penali stabilite contro i trasgressori del can. 142, sono però aliene, non conformi allo stato clericale e allo stato religioso: per es. il partecipare, sia pure indirettamente, a certe operazioni finanziarie, oppure ad affari commerciali od industriali, come mediatori, ecc. E quindi, come regola generale, sono proibite.
Questo prescindendo anche dalla responsabilità economica a cui spesso in questi casi si va incontro con grave pericolo.
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3. Non parliamo ora del commercio di valute, il quale, per l'argomento che trattiamo, non interessa: ricordiamo solo, in breve, che esso non è altro che vera mercatura lucrativa; non di merci ma di denaro.
Si esercita in diverse forme: cambio di moneta di diverso valore; acquisto e vendita di titoli bancari o fruttiferi, cioè azioni e obbligazioni.
Ma si noti bene che non è proibito il semplice cambio di denaro; non è proibito il semplice fatto di acquistare titoli, cioè investire il proprio denaro in titoli, bancari o fruttiferi, anche se a suo tempo si rivenderanno o cambieranno con un modesto guadagno: queste operazioni sono atti di semplice e prudente amministrazione.
È proibito il cambio che si fa cercando denaro per cambiarlo con altro denaro (per es. denaro carta con denaro oro; denaro italiano con denaro americano) a scopo di lucro; è proibito acquistare titoli, bancari o fruttiferi, allo scopo di rivenderli o cambiarli con guadagno.

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Ciò premesso, diciamo che il nostro apostolato:
1. Non è commercio.
2. Non è industria.
3. È lavoro...
4. … che deve essere retribuito...
5. ... secondo norme precise.


1. - NON È COMMERCIO

1. La mercatura lucrativa o commercio, consiste nel comperare cose per rivenderle immutate, a più caro prezzo.
Perciò la figura specifica del commercio propriamente detto, oggetto della proibizione di cui nel can. 142, richiede: 1. Che la cosa si comperi e si rivenda; 2. Che si rivenda immutata; 3. Che si rivenda a più caro prezzo; 4. Che sia stata comperata allo scopo di rivenderla a più caro prezzo.
Per esempio: comperare stoffa per rivenderla, non lavorata, con guadagno; comperare abiti confezionati per rivenderli a più caro prezzo; comperare libri, corone, statue, arredi sacri, già confezionati, e rivenderli a un prezzo maggiore di quanto furono comperati, ecc.
2. Non costituiscono vero commercio e quindi non cadono sotto la proibizione del can. 142, quegli atti che non hanno un fine lucrativo, ma piuttosto un fine di particolare utilità per un determinato ceto di persone o per una comunità. Anche se la persona che fa questo ne avrà un modesto guadagno, a titolo cioè di retribuzione dell'opera prestata.
Per esempio: È comunemente ammesso che un Parroco potrebbe comperare merce allo scopo di procurare a più buon prezzo le cose maggiormente necessarie ai suoi parrocchiani poveri o che hanno scarsa possibilità di provvedere a se stessi. L'economo di un collegio potrebbe acquistare le cose maggiormente necessarie agli alunni del collegio stesso, e rivenderle loro, anche con un modesto guadagno. Il Rettore di un Santuario per i pellegrini, il Parroco per i suoi parrocchiani, potrebbero acquistare libri di devozione, oggetti religiosi che possono particolarmente interessare i pellegrini o i parrocchiani e rivenderli anche con un modesto guadagno; ecc.
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3. In base ai principi sopra esposti, è evidente che l'attività della Pia Società San Paolo non è commercio.
Infatti, secondo le Costituzioni, la nostra attività non è di comperare e rivendere libri o pellicole: la Congregazione deve scrivere, stampare, diffondere.
Si meditino attentamente gli art. 2 e 220 - 257 delle Costituzioni.

Si domanda:
1. Nelle nostre Librerie, si possono tenere
libri di altre case editrici?


a) Secondo i principi sopra esposti, il comperare e rivendere libri, nella forma dei librai comuni, è vero commercio.
b) Se le edizioni di altre case editrici si acquistano col cambio di edizioni nostre, non si ha per nulla la natura di commercio proibito; questo anzi è vero apostolato, che deve essere promosso: si tratta in realtà di dare impulso alla diffusione delle nostre edizioni.
c) Inoltre, come sopra fu detto, vi sono atti che, sebbene abbiano qualche aspetto commerciale, per la loro stessa natura e per la forma con cui vengono compiuti, non sono vero commercio: sono atti cioè che non solo hanno un fine oggettivamente buono, ma sono compiuti in realtà solo a scopo di bene e di apostolato, e per prestare un servizio al Clero ed ai fedeli, escluso ogni fine lucrativo.
d) Questo si verifica pienamente nel nostro caso, quando cioè ci prestiamo a ricevere commissioni di libri, o teniamo un certo numero di titoli che hanno un reale valore di apostolato e che maggiormente e più frequentemente interessano il Clero ed i fedeli che frequentano la Libreria. Se questo si fa in una forma conveniente, se vengono osservate ben determinate e precise condizioni, e, soprattutto, se viene escluso realmente uno scopo lucrativo, non è una attività commerciale, ma semplicemente un servizio a favore del Clero e dei fedeli: servizio per cui si può naturalmente richiedere un modesto compenso a titolo di giusta retribuzione dell'opera prestata.
e) È utile rilevare come, trattandosi di libri, in generale è più facile che in altre cose evitare che in realtà vi sia mercatura lucrativa. I libri hanno prezzo fisso; vi sono norme ben definite per gli sconti; l'utile che ne può venire dalla compravendita è così limitato che, in generale costituisce appena un modesto compenso per il servizio prestato.
f) Ricordiamo pure come di fatto, i Vescovi, i Seminari, gli Istituti, il Clero in genere, ha dimostrato di gradire, anzi di volere questo servizio, come opera di integrazione del nostro apostolato.
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g) Il Superiore Generale quindi, salvo sempre la natura e lo spirito della Congregazione e dell'apostolato stesso, sotto condizioni ben determinate, può permettere che nelle librerie si ricevano commissioni o si tengano edizioni di altre case editrici, che abbiano cioè un vero scopo di apostolato, conforme al nostro fine: far conoscere la dottrina di Gesù Cristo (art. 3). Ad evitare facili abusi, sono però necessarie norme chiare, ben definite: tenendo conto delle diverse condizioni e necessità di luogo, di tempo, di persone.
h) Riassumendo: per agire legittimamente è necessario che questo in realtà, sia semplicemente un servizio al Clero ed ai fedeli, escluso ogni fine lucrativo; che in realtà si tratti di diffondere edizioni che hanno uno scopo di apostolato, conforme al nostro fine; edizioni che servano quindi ad integrare il nostro apostolato stesso. Infine è necessario che anche nella forma esterna sia evitato, per quanto è possibile, tutto ciò che potrebbe dare anche solo l'apparenza di commercio lucrativo: non deve essere e non deve apparire commercio.
i) Soprattutto si deve tendere a questo: che le edizioni di altre case editrici, in quanto e nella misura che si possono e si devono tenere, siano procurate in conto cambio. E ciò sia anche uno stimolo a moltiplicare sempre più le edizioni nostre.

2. Nelle nostre Librerie, si possono tenere
oggetti di devozione, arredi sacri, paramenti, ecc.?


Si tenga presente che questo non rientra nel fine della Pia Società San Paolo: né come produzione, né come diffusione.
Secondo le norme date dalla Sacra Congregazione dei Religiosi, il Superiore Generale può permettere senz'altro che le nostre case si occupino di diffondere le cose di liturgia e arte sacra confezionate dalle Pie Discepole.
c) Quanto agli oggetti che sono produzione di altre case, sebbene più difficilmente dei libri, in base ai principi sopra enunciati, in casi particolari e in minime proporzioni, si potrebbe permettere; purché si tratti veramente ed esclusivamente di un'opera a servizio specialmente del Clero, nelle cose che gli sono maggiormente necessarie in questa materia; che si tratti veramente di cose che meritano, anche rispetto alle norme dell'arte e della liturgia; e sia in realtà escluso ogni fine di lucro.
In questa materia più che nei libri, sono facili gli abusi e l'apparenza esterna di commercio, nonché i pericoli a danno del nostro apostolato stesso. È quindi più che mai necessaria l'osservanza di norme precise sia quanto alla misura in cui possiamo occuparcene; sia quanto alla forma ed organizzazione esterna con cui possiamo prestare quest'opera a favore del Clero e dei fedeli.
e) Se nelle nostre librerie ci si dedicasse a quest'opera comperando e rivendendo un po' di tutto secondo la convenienza, nella forma ordinaria dei negozianti di tali materie, si eserciterebbe un commercio vero e proprio, e si andrebbe contro la prescrizione del can. 142.
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2. - NON È INDUSTRIA

1. La mercatura industriale, o semplicemente industria, consiste nell'acquistare cose per rivenderle a più caro prezzo, dopo averle trasformate, lavorate, per mezzo di operai stipendiati.
Quattro condizioni si richiedono perchè vi sia mercatura industriale vera e propria: 1. Che si tratti di una merce acquistata; 2. Che sia acquistata per rivenderla, trasformata, a più caro prezzo; 3. Che sia trasformata per mezzo di operai stipendiati; 4. Che si rivenda di fatto, così trasformata, a più caro prezzo.
Per esempio: comperare stoffa e con questa confezionare abiti per mezzo di operai stipendiati, e rivendere poi gli abiti con guadagno; comperare la materia per confezionare statue, farle confezionare da persone stipendiate, e vendere poi le statue con guadagno; comperare l'edizione di un'opera, curarne la stampa con operai stipendiati, e vendere poi il libro con guadagno, ecc.
2. Se manca qualcuna delle condizioni sopradescritte, non si ha vera mercatura industriale,nella sua figura specifica, oggetto della proibizione di cui nel can. 142. Perciò:
a) Non è industria proibita vendere cose proprie, cioè frutto del proprio lavoro, dei propri beni; lavorate, trasformate con opera personale;o anche per mezzo di operai stipendiati, purché si tratti di prestazione d'opera veramente accessoria, richiesta per la integrazione del lavoro stesso; per esempio assumere operai per raccoglierei frutti o completare la confezione dei prodotti di un fondo proprio; persone che diano aiuto a completare un'opera d'arte ideata, fatta da un religioso, ecc.
b) Non è industria proibita rivendere cose acquistate, e poi lavorate, trasformate, non con operai stipendiati, ma con la propria opera personale. Per esempio: Una edizione, di cui se ne acquistò la proprietà, ma poi ne curarono la stampa gli stessi religiosi: professi, novizi, a-spiranti. Un paramentale, di cui si comperò la stoffa, ma poi le suore stesse, con la propria opera personale ne curarono la confezione; ecc.
3. Nei casi sopra detti, quando cioè non si tratti di vera mercatura industriale, dalla vendita è lecito ricavare un onesto guadagno. Nello stabilire il prezzo di vendita si terrà quindi conto delle spese incontrate per l'acquisto della merce o per la lavorazione, per la conservazione, ecc., nonché di una giusta retribuzione del proprio lavoro.
4. Pertanto alla luce dei principi sopra esposti, risulta ancora evidente che la nostra attività non è industria soggetta alle proibizioni della legge ecclesiastica, per la ragione generale e fondamentale che l'attività della Congregazione non è di comperare edizioni, cioè acquistarne la proprietà, farne eseguire il lavoro tecnico di stampa da operai stipendiati, e poi vendere i libri acquistati e confezionati in questo modo; ma è la Congregazione stessa, sono i religiosi che preparano le edizioni, le stampano, le diffondono.
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Si domanda:

1. Le nostre case, possono stampare libri in altre tipografie?
Possono acquistare opere scritte da estranei?


Se la Pia Società San Paolo, o una nostra casa, si dedicasse a cercare ed acquistare edizioni scritte da estranei, ne curasse quindi la stampa in tipografie non proprie, o proprie con operai stipendiati, per diffonderle poi a scopo di lucro, eserciterebbe una vera industria lucrativa, proibita dal can. 142.
Che la Pia Società San Paolo faccia stampare qualche edizione in altre tipografie, non fa sì che la nostra attività diventi industria proibita: purché si faccia in proporzioni minime, da essere in realtà solo parte integrativa della nostra opera, del nostro apostolato.
c) Ugualmente si deve dire nel caso che si tratti di acquistare qualche edizione scritta da estranei: fermo sempre restando il principio e la regola generale che i membri della Congregazione con la loro opera personale, e non per mezzo di operai stipendiati, devono curare il lavoro di stampa.
d) Perciò il Superiore Generale, salvo lo spirito e la natura della Congregazione e del suo apostolato, tenuto conto delle circostanze di tempo, di luogo, di persone, non solo può permettere che si accettino edizioni scritte da estranei, ma può anche, come opera integrativa del nostro apostolato, che richiede tanta varietà ed abbondanza di edizioni, promuovere ed organizzare scrittori capaci,, disposti a dare la loro cooperazione, gratuitamente o per un equo compenso: sempre a norma dell'art. 235. Come pure può permettere che, in misura limitata, edizioni nostre si facciano stampare in altre tipografie.

2. La Pia Società San Paolo può assumere
operai stipendiati nelle proprie tipografie?


a) Prima di tutto è necessario rilevare, al riguardo, come sia molto difficile, in pratica, che nelle nostre tipografie si stampino solo edizioni scritte dai membri della Congregazione
b) Posto anche il caso che si stampassero solo edizioni scritte dai religiosi, se in una nostra tipografia si lavorasse esclusivamente o quasi con operai stipendiati è evidente che non si può in alcun modo considerare questa prestazione d'opera come parte integrativa del nostro apostolato, della nostra attività: ma sarebbe invece un'opera principalmente industriale, sia pure a scopo di bene.
c) Non si andrebbe contro i principi e le disposizioni canoniche che proibiscono ai religiosi l'industria lucrativa, se nelle nostre tipografie si ammettesse qualche operaio, sia pure abitualmente, ma solo per qualche lavoro particolare, come parte integrativa cioè del nostro lavoro stesso. Ciò però, nel nostro caso particolare, sia detto solo in teoria.
Le Costituzioni infatti, anche per ragioni particolari ed evidenti, di indole pratica, chiaramente e decisamente stabiliscono: «Societas uti poterit etiam opera laicorum optimae notae, cooperatione, sive gratuito, sive ex aequa mercede praestita, prout necessitas aut utilitas pro rerum adiunctis id suaserit; non tamen in propriis domibus, nisi exceptionaliter omnino et ad breve tempus, si peculiaria adiuncta vel ipsa natura operis exequendi id requirant».
Quanto a servirsi dell'opera di estranei per la diffusione, si tenga presente l'art. 243.
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3. Le nostre case possono prestare la loro opera
per l'esecuzione di lavori che non sono della Congregazione?


Per esempio: stampare, a pagamento, un libro, un periodico; eseguire per conto di terzi, altri lavori tipografici; assumersi, per un equo compenso, la diffusione di qualche edizione non nostra, ecc.
a) Evidentemente in questo caso non si tratta né di commercio, né di industria, ma semplicemente di prestare la nostra opera per una equa ricompensa: praticamente come semplici operai.
Si tratterebbe quindi di una cosa di per sé lecita.
b) Potrebbe però essere di grave pericolo per la vita religiosa, per lo spirito della Congregazione. Perciò le Costituzioni sono molto esplicite su questo punto: «Opera Societatis illae tantum edantur et divulgentur editiones quae a membris Societatis confectae sunt, vel a legitima auctoritate ecclesiastica concessele sunt, vel a cooperatoribus, proprietatis donatione vel cessione rite facta, proveniunt». Art. 235.
c) Se si tratta quindi di occuparci, sia per la stampa che per la diffusione, di edizioni che non sono proprietà della Congregazione, come regola generale è lecito solo quando la legittima Autorità ecclesiastica lo desidera o richiede che prestiamo la nostra opera: per esempio, interessarci del giornale diocesano; prestare la nostra opera per la stampa o la diffusione di un periodico o edizione della Santa Sede.
d) Fuori di questo caso, il Superiore Generale può concederlo solo eccezionalmente, in casi particolari, se circostanze di tempo, di luogo,lo richiedono: o speciali necessità lo esigono.

4. La Pia Società San Paolo potrebbe prestare la sua opera
assumendo semplicemente la direzione, l'amministrazione,
la gestione, di una tipografia o di una casa editrice?


Non vi è alcuna disposizione ecclesiastica generale che proibisca questo ai religiosi o ai Sacerdoti.
In qualche caso particolare, potrebbe essere cos? buona, e anche dare la possibilità di compiere una vera opera di apostolato. Ammessa la possibilità da parte della Congregazione, è necessario sopratutto tenere presente se fosse l'Autorità ecclesiastica che lo richiede o lo desidera.
c) Si tratta, in ogni modo, di casi veramente eccezionali, e sempre si deve agire a norma dell'art. 238: «...ad Moderatorem Generalem pertinet, de consensu Consilii sui, conditiones statuere et acceptare, sub quibus Societas vel Sodales operam suam praestare possunt». E come condizione per accettare, esigere sempre che sia veramente un'opera di apostolato, conforme al nostro fine.
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3. - È LAVORO...

1. La nostra attività, l'esercizio pratico della nostra missione, del nostro apostolato, nella sua forma esterna e nei suoi mezzi, fatto cioè a norma delle Costituzioni, non è commercio, non è industria, ma è semplicemente lavoro, di per sé buono, del tutto conforme alle prescrizioni della Chiesa, mezzo di santificazione.
2. Dice il Sommo Pontefice Pio XII, nella Costituzione Apostolica Sponsa Christi, 21 novembre 1950:
a) «Al lavoro, manuale o intellettuale, sono obbligati tutti, non esclusi gli uomini e le donne che si dedicano alla vita contemplativa, non solo per legge naturale ma anche per un dovere di penitenza e di soddisfazione. Il lavoro inoltre è il mezzo comune con cui l'anima è preservata dai pericoli e si eleva a cose più alte; il mezzo con cui noi, come è nostro dovere, prestiamo la nostra opera alla Divina Provvidenza, tanto nell'ordine naturale ch6 nell'ordine soprannaturale; il mezzo con cui si esercitano le opere di carità.
Il lavoro infine è norma e legge fondamentale della vita religiosa fin dalle sue origini, secondo il motto prega e lavora. E senza dubbio, le norme disciplinari della vita monastica, in gran parte furono stabilite per comandare, ordinare ed eseguire il lavoro».
b) E dopo aver detto come il lavoro debba essere assunto con santa intenzione, compierlo alla presenza di Dio, prenderlo nell'obbedienza e congiungerlo con la volontaria rinuncia di se stessi, prosegue: «Ché, se il lavoro sarà compiuto in tale modo, sarà un potente e costante esercizio di tutte le virtù e pegno di una soave ed efficace unione della vita contemplativa con l'attiva, sull'esempio della famiglia di Nazareth».
c) Ed infine, dalle Regole, dalle Costituzioni, dalle legittime consuetudini, il lavoro deve essere «ordinato e compiuto in modo che, secondo il corso e le circostanze dei tempi, dia il vitto necessario, e procuri utilità ai bisognosi, alla società e alla Chiesa»

4. - ...CHE DEVE ESSERE RETRIBUITO...

1. In base a questi principi, è evidente come il nostro lavoro debba essere rimunerato con equo compenso; come il nostro lavoro, che è nello stesso tempo apostolato, debba costituire la fonte base e primaria per un conveniente sostentamento dei religiosi, e per sostenere le opere stesse di apostolato.
Questo, naturalmente, assieme agli aiuti forniti dalla Divina Provvidenza.
2. La Congregazione deve quindi prima di tutto vivere del suo lavoro, del suo apostolato.
Pertanto nello stabilire i prezzi si tiene conto delle spese incontrate per la produzione, per la lavorazione, per la conservazione, ecc.; e si tiene pure conto che il lavoro ha diritto ad una giusta rimunerazione.
3. Ma è anche vero che nel nostro caso si tratta di lavoro, che è nello stesso tempo apostolato, fatto da religiosi, da Sacerdoti: per quanto è possibile, è quindi necessario che si evitino anche le apparenze del commercio e della industria lucrativa; è necessario evitare che sotto le apparenze di utilità del prossimo, del bene delle anime,di apostolato, si cerchi in realtà il guadagno. Tutto questo screditerebbe la nostra missione. È necessario invece che siamo apostoli, e che davanti a tutti possiamo presentarci come tali.
Sembra quindi conveniente che, come regola generale, si tengano sempre prezzi un po' inferiori a quelli degli editori comuni, specialmente per quelle edizioni che hanno un carattere più diretto di apostolato per i fedeli di tutte le condizioni: come le edizioni di Vangelo, di catechismo.
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5. - ... SECONDO NORME PRECISE

1. Per gli stessi principi e motivi, cioè: che la nostra attività è lavoro del tutto legittimo, quindi ha diritto ad una giusta retribuzione; che è pure apostolato, e quindi deve conservare, in realtà e di fronte a tutti, un carattere pastorale, spirituale, soprannaturale; fin dall'inizio, la Santa Sede diede alla Pia Società San Paolo, norme precise a questo riguardo.
2. La Sacra Congregazione dei Religiosi, in data 8 maggio 1923, e poi ancora in data 30luglio 1926, prescriveva: «Sia dichiarato in modo esplicito... che si porrà ogni impegno a non degenerare in una impresa a carattere industriale e commerciale»; ed inoltre, che l'Istituto non capitalizza nulla a scopo di lucro, se non quanto è necessario al suo normale sviluppo ed alla sua sicurezza economico-finanziaria, e spenda il resto per la diffusione della buona stampa».
3. Tutto questo è espresso, sotto diverse forme,nelle Costituzioni: si leggano attentamente l'art. 333, e gli articoli 237-246. Sopratutto gli art. 3, e240, enunciano in concreto questi principi e queste norme:
«In hoc fine speciali assequendo Societas lucrum non quaerit. Idcirco oblationes vel etiam mercedes ne accipiantur neque expetantur, nisi in quantum Societatis eiusve operum necessitati, congruenti evolutioni ac securitati, de prudenti Superiorum iudicio, requiritur» Art. 3.
E l'art. 240: «Oblationes seu merces pro laboribus impensis accipiuntur tantum ad normam art. 3, et oblatio, si casus ferat, in ipsa editione dare significetur».
4. Ne conseguono alcune norme fondamentali:
Le nostre case devono cercare i mezzi economici prima di tutto dall'apostolato, fatto a norma delle Costituzioni.
Le singole case devono curare anche la beneficenza, nella misura che le circostanze di tempo e di luogo permettono. Ma non è conforme allo spirito e alla natura della Congregazione che si aprano case che vivano esclusivamente o quasi di beneficenza, o con lo scopo unico di cercare beneficenza.
c) Le entrate dell'apostolato, assieme alla beneficenza, come regola generale devono costituire la base economica per il sostentamento dei religiosi, e per lo sviluppo della Congregazione, proporzionatamente, nelle sue persone, nelle sue o-pere, nei suoi beni patrimoniali in quanto necessari alle opere stesse ed alla sicurezza economico-finanziaria della Congregazione.
d) Sarebbe contro le norme date dalla Santa Sede alla nostra Congregazione, e contro le Costituzioni stesse, investire semplicemente il denaro in beni patrimoniali fruttiferi, non necessari per il normale sviluppo della Congregazione e delle sue opere, o per la sua sicurezza economico-finanziaria.
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CONCLUDENDO

1. Abbiamo trattato quasi esclusivamente della parte negativa del nostro apostolato, esponendo i principi che ci fanno conoscere quello che il nostro apostolato non è, e gli abusi che si devono evitare; nonché la parte positiva della nostra attività, ma solo quanto alla sua forma esterna,dicendo che è lavoro legittimo, buono.
2. La parte positiva: ciò che veramente è il nostro apostolato; ciò che di positivo deve fare la Pia Società San Paolo per esercitare in realtà il suo apostolato, l'ha spiegato più volte il Primo Maestro, in diverse occasioni, sotto diverse forme, anche nel San Paolo degli ultimi anni.
Le energie disperse in quello che non è il nostro apostolato, che non è il nostro lavoro, anche se di per sé buono, anche se utile, e forse più facile, impegnarle decisamente nella parte positiva dell'apostolato: redazione, tecnica, diffusione.
Norme più particolari e precise per la parte positiva, e per togliere, se necessario, gli abusi e le deviazioni, saranno riassunte e date dal Primo Maestro. Intanto è bene rivedere nel «San Paolo» quello che già fu scritto, negli anni passati. Del resto quanto sopra esposto, può già servire per un orientamento buono.
5. Sopratutto va meditato quanto il Primo Maestro scrive in prima pagina: Camminare nella nostra via.

Sac. Federico Muzzarelli

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