Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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26. STABILITÀ NELLA VITA RELIGIOSA1


La vita religiosa, in primo luogo, glorifica il Signore. Quindi il primo fine è sempre questo per ogni Istituto religioso, il primo fine da conseguirsi: promuovere e tendere a glorificare Dio e glorificarlo quanto a noi è possibile sulla terra, consacrando a lui tutto noi stessi sull’esempio e ad imitazione di Gesù Cristo medesimo. Egli è il Figlio di Dio, il Figlio di Dio Padre nel quale il Padre si è compiaciuto: «Filius meus dilectus in quo mihi bene complacui»2.
E così è il religioso che tende ad amare, servire e conoscere Dio sull’imitazione, e per quanto è possibile nella somiglianza di quanto ha fatto nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato. La vita religiosa quindi, è tutto un grande amore a Dio, tutto un olocausto che si fa della nostra vita ad onore di Dio, per amore di Dio. La vita religiosa perciò è da considerarsi sotto questi due aspetti: nella glorificazione di Dio per mezzo del nostro dono perfetto a lui, e dell’amore al prossimo, e cioè della collaborazione alla salvezza delle anime, collaborazione a Dio medesimo. Nella vita religiosa noi abbiamo la perfetta consacrazione a Dio, per quanto è possibile sulla terra, ma naturalmente occorre sempre che noi teniamo presente la nostra infermità.
Come si glorifica Iddio nella vita religiosa? Con il nostro dono completo al Signore, dono della mente, dono della volontà, dono del corpo stesso, dono del cuore, cioè di tutto quello che Dio ci ha dato noi ne facciamo un dono al Signore. Dono completo per quanto è possibile. Allora è la vita più perfetta che si possa condurre sulla terra. Perciò Gesù diceva: «Si vis perfectus esse…: Se vuoi essere perfetto…»3.
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Ora consideriamo due punti. Il primo punto è questo: se la vita religiosa è un dono completo di noi a Dio, che cosa comporta? Comporta che gli doniamo prima la mente, poi la volontà, poi il cuore e poi tutte le nostre forze fisiche insieme, tutti i giorni e tutta la nostra attività. Un dono completo di noi stessi a Dio, per quanto è possibile, come Gesù Cristo si dona a noi completamente nella santa Comunione. Quindi la vita religiosa è un atto continuo di amore verso Dio. Egli si dà a noi, noi ci doniamo a lui: e questa è la professione religiosa. Considerando le cose più attentamente, noi sappiamo che in questo ci doniamo al Signore sull’imitazione di Maria, la quale fu intieramente di Dio. Ora ci avviciniamo alla festa dell’Immacolata, e lì veneriamo proprio la nostra Madre celeste, la quale ad eccezione di tutti gli uomini, è esente dalla colpa originale. Poi abbiamo da onorare in Maria la sua verginità, abbiamo da onorare in Maria il grande privilegio di Madre di Dio. Abbiamo da onorare in Maria l’assunzione al cielo, e poi [invocarla con] il titolo di mediatrice universale della grazia, impetrare agli uomini ogni grazia. Allora la nostra vita viene a rassomigliare e a unirsi, a imitare per quanto è possibile la vita di Maria medesima, questo specialmente nella vita religiosa, mediante i tre voti di povertà, castità e obbedienza. Perciò una grande riconoscenza al Signore per la vocazione religiosa e, nello stesso tempo, impegno a seguire questa vita religiosa nel modo più perfetto. Nel modo più perfetto la povertà, la castità, l’obbedienza e l’esercizio dell’apostolato che è l’esercizio dell’amore al prossimo, l’amore pratico, e l’amore nel miglior modo [possibile], che consiste nel dare al prossimo, alle anime i beni spirituali.
Vi sono gli Istituti che sono dedicati alla carità materiale. Con l’apostolato le Figlie di San Paolo si dedicano a dare alle anime i beni spirituali, e cioè per primo la verità, poi, per quanto è possibile, la grazia del Signore, e per quanto è possibile, cercano di condurre la vita degli uomini all’esempio, alla imitazione di nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo allora da apprezzare tanto la nostra vocazione, la quale ci fa partecipi da una parte dei meriti più alti e dall’altra parte ci fa partecipi dell’apostolato stesso di nostro Signore Gesù Cristo.
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Come corrispondiamo alla nostra vocazione? Ecco, corrispondere generosamente, il che significa non guardare attorno a quello che avviene per giudicare, quasi si dovesse avere un ufficio di assistenza, di sorveglianza. No, dobbiamo vivere la nostra vita religiosa e viverla ciascuno per sé. E se ciascuno vive bene la vita religiosa per sé, avviene quel che avviene in un orologio che quando tutto cammina bene, tutte le ruote, ecc., vanno bene, l’orologio cammina bene. Quando invece una parte, una ruota non va bene, allora quali conseguenze? L’orologio non va bene e non ci segna le ore in maniera buona e ci induce in errore.
Coloro che stanno nella comunità ad osservare gli altri, sono l’impedimento vero, l’impedimento vero al camminare bene della comunità, al buon andamento della comunità.
Occorre che ciascuna stia nel suo ufficio, e viva la sua vita religiosa. Stia a posto e cioè, non solamente nel banco, ma stia a posto con i giudizi, con i pensieri e stia a posto con i sentimenti, stia a posto con l’attività, perché se una piccola, anche piccolissima ruota dell’orologio non sta a posto, non funziona, ne ha conseguenza l’orologio stesso, noi non possiamo più regolarci secondo la divisione del tempo. E così avviene in comunità. Non mettersi a giudicare, questo è il grande orgoglio, il grande orgoglio che priva l’anima delle grazie. Coloro che si mettono a giudicare senza esserne incaricati, fanno come colui che si mette sopra le nuvole e non ha il beneficio della pioggia. Quando si va in aereo e l’aereo sale sopra le nubi, là si vede un bel cielo limpido, e magari sotto infuria la tempesta e vi è un dilagare di pioggia. Mai mettersi dall’alto a giudicare. Stare al nostro posto.
Chi giudica prende il posto di Dio audacemente: «E tu chi sei, che giudichi il fratello?»4 dice la Scrittura. Che orgoglio è questo! Mentre si giudicano gli altri, avviene che si perdono i beni che si dovrebbero ricevere da Dio, come chi si mette sopra le nuvole con l’aereo a seimila, diecimila metri sopra la terra: là si vede magari il sole, ma non si ha il beneficio della pioggia. Il beneficio delle grazie di Dio, non si ha da colui che
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si mette a giudicare gli altri. E non solamente quindi si carica di responsabilità davanti al Signore, ma si priva delle grazie poiché prende il posto di Dio nel giudicare: che orgoglio! «A me il giudizio, a me la vendetta»5, dice il Signore, non a voi. E «Non giudicate per non essere giudicati»6. Quindi nell’umiltà, ricevere, non dare.
Secondo, l’orgoglio poi si manifesta ancora nel non voler accettare gli uffici che vengono assegnati e se ne cercano degli altri. E siccome il Signore semina le grazie sulla via indicata da chi guida, chi passa da un’altra strada non le trova. E crede di essere saggio e di sapergliela così fare ai superiori e indurli ad accontentare i loro desideri, che qualche volta sono capricci, e intanto privano se stessi delle grazie di Dio. Poiché Dio, le sue grazie le ha seminate sulla strada su cui ci vuole, su cui dobbiamo passare. E quindi è una grande insipienza scegliere da noi l’ufficio e nello stesso tempo combinare le cose, perché ci sia detto quello che piace a noi, fino a indurre [ad accontentarci]. Perciò umiltà nell’accettare. Non solo non giudicare, ma umiltà nell’accettare gli uffici. Quindi sapere che lì proprio ci sono le grazie che fanno per noi.
Perché è sempre beato chi si lascia guidare da Dio, sempre beato. Chi invece guida se stesso «è un cieco che guida un altro cieco»7. E chi combina le cose in maniera che infine si faccia quel che piace a lui, allora che cosa fa? Fa precisamente la propria volontà, non la volontà di Dio. La vita resta vuota di meriti, perché ha fatto quel che voleva lui, il suo capriccio, ecco ha cercato se stesso e non Dio. Allora mentre non si fa meriti, si comprende come la sua coscienza non sia mai serena, e lo spirito sia sempre un po’ turbato, perché la nostra pace l’abbiamo solo con Dio che è somma beatitudine, somma felicità.
Ricordiamo che la vita religiosa è l’esercizio della carità perfetta in quanto doniamo a Dio tutto. Chi fa la professione, fa un atto di perfetto amore di Dio, perché dà a Dio i suoi beni esterni per la povertà, i suoi beni corporali per la castità, e dà
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a Dio lo spirito, la sua intelligenza, la sua volontà per il voto di obbedienza.
La vita religiosa, se è ben vissuta, è un continuo esercizio di carità perfetta. Naturalmente arriviamo sempre con molte imperfezioni per la nostra debolezza, ma in se stessa è l’esercizio di perfetta carità. D’altra parte quando noi ci sforziamo di viverla, ancorché commettiamo dei difetti, vi è sempre l’esercizio della carità perfetta, della perfezione, il lavoro di perfezionamento.
Donarci davvero a Dio, e vivere in questo dono, guardandoci sempre dal giudicare gli altri, che è un grande orgoglio: «Chi ti ha stabilito giudice del tuo fratello?», dice la Scrittura. Che grande orgoglio giudicare, condannare, specialmente quando si condannano le superiore. Come può allora l’anima trovarsi in fervore, come può allora l’anima sentirsi nella pace, come può la Comunione portare i frutti che deve portare? Se vuol prendere il posto di Dio, domanderà grazie, cercherà di combattere certe passioni, ma essa stessa allontanerà le grazie di Dio da sé: allora che cosa avviene? Si sa che cosa voglia dire ‘religione’? Religione vuol dire: ‘legarsi a Dio’, ‘religio’ da ‘religando’. Siccome la virtù della religione è la prima tra le virtù morali porta con sé tante altre virtù. Ma se noi non siamo ben uniti a Dio, come possiamo dirci ‘religiosi’ cioè ‘legati a Dio’? E quindi, di conseguenza, avere le altre virtù, quelle che dipendono dalla virtù della religione.
La religiosa trionfa del peccato originale e delle conseguenze del peccato originale che sono le tre concupiscenze. Le tre concupiscenze sono: la carne, l’avarizia, la superbia. Con l’obbedienza trionfa della superbia, l’obbedienza che arriva alla docilità di cuore, non solamente di esecuzione. La castità che arriva ad un amore grande verso Dio e che ha le sue radici precisamente nell’amore a Dio.
Poi la povertà con la quale doniamo al Signore i beni esterni e quindi noi diventiamo vittoriosi sopra la passione dell’avarizia e dell’attaccamento ai beni della terra. Per conseguenza ne viene che, distaccati dall’orgoglio, dalla superbia, dalla nostra volontà, distaccati e superiori alle nostre tendenze di carne e distaccati dai beni della terra, possiamo sciogliere il volo verso Dio, un volo libero verso il Signore, e salire realmente
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alla perfezione: «Siate perfetti, come è perfetto il vostro Padre che è nei cieli»8.
Oh, il bene della vita religiosa, la grazia della vocazione sono veramente grandi doni di Dio! Sempre la nostra riconoscenza verso il Signore. Vivere però realmente la vita religiosa. Quando ognuna guarda se stessa e guarda Dio, non gli altri, quando una si dona del tutto al Signore, gli dona la volontà nell’obbedienza, gli dona il corpo e il cuore per mezzo della castità e gli dona tutto ciò che è esterno nel voto di povertà: ecco allora si è veramente di Dio, si è veramente ‘religiosi’, ‘legati cioè a Dio’, al Signore.
Veniamo ai nostri propositi. Amiamo veramente la nostra vocazione? E come corrispondiamo alla nostra vocazione? E viviamo la vita religiosa, la vita paolina, veramente? L’esame di coscienza va fatto sopra i punti più essenziali. Chiamati alla vita religiosa e alla vita religiosa paolina, non bisogna sbandarsi. Troppe anime si sbandano. Eppure sembra anche esternamente che vivano la vita religiosa paolina. Quando si abbraccia una vita, bisogna fare quella. Se uno ha studiato da medico, non deve fare l’avvocato. È tanto chiaro. Se uno ha abbracciato la vita religiosa, non deve essere come i secolari. Fatta la professione, è come chi, una volta presa la carriera del medico fa la professione del medico, non deve fare l’avvocato, oppure l’artista o il commerciante. Vita religiosa ben vissuta e paolina, paolina! Se uno ha preso la professione di medicooculista, bisogna che curi gli occhi e non l’udito, o il cuore o i polmoni. E se una ha preso la vita religiosa paolina, bisogna che viva da paolina, cioè da religiosa e con amore al suo apostolato. Amore al suo apostolato, e apostolato paolino. Che non ci disorientiamo. Facilmente si fanno propositi vaghi che disorientano lo spirito, perché viene suggerito questo, perché è suggerito quello. Tutto quello che viene suggerito è in ordine alla nostra vita? E allora noi lo prendiamo. Se è in ordine ad un’altra vita, lo teniamo come istruzione, ma non come cosa da farsi. Come se uno a tavola riceve la tarina9 piena, ne prende
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una parte: non deve mangiare tutto ciò che è nella tarina! Tanto chiaro! Così dalle prediche.
I propositi sono sui tre voti, e sulla vita comune e sull’apostolato. Altri propositi vari: solo in quanto aiutano questi. Scelta una professione, e cioè per noi, fatta la professione, siamo legati lì. Perché il medico deve fare il medico, non dovrà fare il commerciante, non dovrà fare l’avvocato, non dovrà fare l’artista. Ecco, la vita religiosa, e la vita religiosa di colore paolino. Di questo dovrai rendere conto a Dio, non di altro! E quindi o studi, o apostolato, o…
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1 Predica tenuta a Roma il 23 novembre 1957. Trascrizione da nastro A6/an 39b = ac 67a.

2 Cf Mt 17,5: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

3 Cf Mt 19,21.

4 Cf Gc 4,12.

5 Cf Rm 12,19.

6 Cf Mt 7,1.

7 Cf Lc 6,39.

8 Cf Mt 5,48.

9 Zuppiera.