Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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VI
MARIA MODELLO DI PAZIENZA1


Continuiamo a considerare Maria come modello. La sua vita insegna assai più con i fatti che non con le parole. Le parole che sono registrate nel Vangelo come pronunciate da Maria non sono tante, ma la sua vita, dall’inizio alla conclusione, è stata tutta esemplarissima. E se onoriamo i santi, e giustamente li onoriamo, quanto più Maria: ammirarla, imitarla e pregarla.
Stasera consideriamo la Vergine come modello di pazienza. Pazienza vuol dire patire, vuol dire: soffrire, ma con rassegnazione, per amor di Dio e più ancora per amor nostro, sotto un certo aspetto, in quanto la pazienza è grande sorgente di meriti.
Ma parlando di noi, qui in particolare, credo sia subito utile rilevare il fine che aveva la santissima Vergine nel sopportare, nel praticare la pazienza. Dovrebbe anche essere il fine con cui noi sopportiamo e soffriamo: l’apostolato, fine dell’apostolato. Vi sono vari apostolati, tanti apostolati. Vi è l’apostolato della parola, vi è l’apostolato dell’esempio, vi è l’apostolato delle edizioni, della scuola, delle missioni, della beneficenza, l’apostolato della parola spicciola, vi è l’apostolato caritativo. Il timbro che mostra se l’apostolato è veramente ispirato da Dio e nello stesso tempo praticato per amore di Dio, è quando insieme alle opere, alle parole e agli esempi vi è la sofferenza, e si sa sopportare. Gesù ci ha redenti con la sua morte di croce, e: «Sine sanguinis effusione non fit remissio»2, senza la sofferenza non si salvano le anime.
Tutti gli apostolati vanno bene; ma quando un’anima arriva anche a praticare la sofferenza esterna o interna, silenziosa-
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mente, non mostrando neppure la sofferenza che magari la fa penare nell’intimo del cuore, quando una arriva anche a sopportare, a soffrire per le anime, allora non c’è più dubbio che l’apostolato è vero apostolato, cioè l’anima è animata da due pensieri: amore di Dio e amore delle anime. Questi sono i due pensieri che eccitano e spingono le anime apostoliche, l’amore a Dio e l’amore al prossimo: «Caritas Christi urget nos»3. È l’amore a Gesù Cristo che ci spinge, sì. Vi sono molte persone che fanno un apostolato esteriore, troppo esteriore, troppo di parole, troppo di azione. Più orazione che azione, più ancora sofferenza che azione e orazione. Quando noi intendiamo unirci veramente a colui che è l’Apostolo per eccellenza, Gesù: «Habemus Pontificem et Apostolum nostrum Christum Jesum»4, e quando sappiamo che le opere che dobbiamo fare, e le parole e le prediche che dobbiamo tenere saranno accompagnate da delusioni, contraddizioni e ci guadagneranno critiche e sofferenze, allora l’apostolato ha un timbro, il timbro della sofferenza che indica che si opera veramente per amor di Dio.
Oggi, fra i cattolici, i cristiani, e anche gli stessi protestanti, tutti, voglio dire, si parla tanto di apostolato, ma l’apostolato che realmente parte dall’amore di Dio e dall’amore alle anime è sempre segnato da questo timbro: amore alla sofferenza. Capire che la redenzione si fa con la sofferenza; capire che la grazia alle anime si ottiene più con la sofferenza che con gli altri apostolati. Così è stato di Maria. Maria ha praticato la mortificazione in tutta la sua vita, ma tutta la sua sofferenza era unita precisamente a quella di Gesù redentore. Ed è per questo che è chiamata corredentrice. Gesù è il redentore, perché ha dato la sua vita per noi sulla croce, e Maria è corredentrice, perché ha accompagnato suo figlio dall’incarnazione all’ascensione al cielo. Lo ha accompagnato in tutta la serie delle sue fatiche, delle sue sofferenze, delle sue pene, fin sul Calvario. Sofferenze interne ed esterne.
Ecco, qualche volta una delusione oppure uno scoraggiamento viene a turbare le anime: Non posso più far niente,
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sono infermo; oppure: Mi trovo in un ambiente in cui sono contrariato e non sono compreso, e magari vengo contraddetto... Non posso fare più niente. È allora che si può fare di più: «Cum infirmor, tunc potens sum»5. Si può anche applicare in qualche maniera questa frase di S. Paolo: Quando sono infermo, cioè quando soffro, è allora che faccio di più, perché allora mi resta sempre questo grande apostolato che è il principale e che è di sicura efficacia per le anime: posso soffrire. E se anche mancano i giorni del soffrire, perché si è vicini a passare all’eternità, c’è ancora il sacrificio della vita, e la sofferenza delle ultime ore o degli ultimi giorni, ecco questa sofferenza unita alla sofferenza di Gesù sul Calvario, porterà i suoi frutti abbondantissimi, abbondantissimi. E non solo unite alle sofferenze di Gesù sul Calvario, ma unite queste nostre sofferenze alle sofferenze di Maria: Stabat Mater dolorosa iuxta crucem lacrimosa6. Un altare: la croce per il Figlio; un altro altare: il cuore di Maria trapassato da una spada.
La sofferenza. Ma non ogni sofferenza è merito che santifica, e non ogni sofferenza è apostolato. Che si soffra, tutti lo sanno, e la sofferenza è cosa generale, sì. Chi è che non ha la sua croce? Questa grazia sia esterna, sia interiore, sia che si faccia più pesante in certi anni, sia che si faccia più pesante in altri periodi, in altri anni. Non ogni sofferenza è apostolato, e non ogni sofferenza è meritoria, sebbene tutti soffriamo. La sofferenza, perché sia realmente apostolato e sia nello stesso tempo meritoria per la nostra anima per guadagnare maggiori meriti, bisogna che prima sia accettata per amor di Dio, per amore di Gesù Cristo, per desiderio di santificazione, e che sia offerta al Signore, anche in spirito redentivo, cioè per redimere le anime.
La redenzione è stata compiuta da Gesù, ma manca l’applicazione. E quest’applicazione della redenzione deve farsela ogni uomo che nasce, al quale si devono applicare i frutti della redenzione di Gesù Cristo. I frutti della redenzione sono preci-
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samente la verità e la santità e la grazia. Bisogna che sia applicata. Sì, dobbiamo allora procurare che questa redenzione sia applicata. E S. Paolo dice appunto: «Adimpleo ea quae desunt passionum Christi: Io compio quello che manca alla passione di Gesù Cristo»7. La passione di Gesù Cristo era già per sé infinita, ma che cosa mancava? L’applicazione. Manca sempre l’applicazione, perché, come ho già detto, ogni uomo che nasce ha bisogno che gli venga applicato il frutto della redenzione.
Maria soffrì, e soffrì silenziosamente. Lasciando da parte i suoi primi anni, soffrì quando vide Gesù nascere in tanta povertà; quando Gesù dovette andare in esilio, perché perseguitato e cercato a morte da Erode. Maria soffrì quando vedeva Gesù in tante fatiche là nella casetta di Nazaret, in tante fatiche durante il ministero pubblico, e le contraddizioni a cui egli era fatto segno. Maria soffrì particolarmente durante la passione del Figlio, quando l’accompagnò al Calvario. Quei due cuori, il cuore di Gesù e il cuore di Maria, furono uniti nella medesima passione. Maria vide il Figlio spogliato degli abiti, amareggiato con fiele e mirra, inchiodato sulla croce, elevato alla vista di tutti, agonizzare e poi finalmente morire. È Maria che accolse la salma dopo che era stata staccata dalla croce; è Maria che accompagnò la salma del Figlio al sepolcro. È Maria che dovette ritirarsi in pena al Venerdì santo a sera, al sabato, con un’ambascia profonda del suo cuore continuando la sua preghiera con fede, ma certamente con pene acutissime nel suo spirito, nel suo cuore.
Maria, quando gli Apostoli cominciarono a predicare, vide subito l’opposizione che si faceva al Vangelo, come veniva bestemmiato il nome di Gesù, quali ordini si davano perché gli Apostoli tacessero, e come essi venivano battuti con le verghe, perché non sottostavano all’intimazione di non predicare il nome santissimo di Gesù e continuavano nel loro ufficio, perché era «necessario obbedire prima a Dio e poi agli uomini»8. Ecco, le sue sofferenze! Tutto in spirito redentivo, il che vuol dire: apostolato della sofferenza.
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Adesso si dovrebbero enumerare i dolori che incontriamo nella vita. Non c’è bisogno di ricordarli. Tutti ne sentiamo tanti, anche noi individualmente. Ma quante anime, quante persone, vengono a raccontare le loro difficoltà, le loro pene; quante anime, quante persone, o siano religiosi o siano religiose o siano madri di famiglia o siano invece uomini occupati nei vari uffici, siano sani o siano infermi, tutti portano la croce quaggiù. Tuttavia è bene, qualche volta, pensare e renderci conto anche delle proprie sofferenze. Sentire l’umiliazione, per esempio, di essere caduti in peccato e dover quindi fare una vita di mortificazione e di penitenza. Sentire la pena di essere messi magari da parte e male interpretati nelle nostre cose. Sentire che, su questa terra, il male continua a dominare e sovente i buoni devono tacere, e vengono a volte colpiti con vere persecuzioni.
Vi sono poi i mali fisici che sono tanti. Quale parte del corpo non può essere tormentata da qualche male? Sì, tutte le parti del corpo e tutte le facoltà dell’anima. E non è da dire che le croci si trovino solamente in un posto o nell’altro, si trovano dappertutto. E chi ne sfugge una, e cerca di allontanarla, ne incontra tante volte delle altre più gravi. Il bambino nasce emettendo il primo vagito, il primo pianto: ecco si deve già pensare che concluderà la vita con le lacrime, con un ultimo dolore con cui passerà all’eternità. Allora, che cosa fare? Non tanto allontanare le croci, quanto prenderle per amor di Dio e per amor delle anime. In carità. Nella doppia carità! E far di necessità virtù, ossia trasformare quello che è pena, in sorgente di meriti e quindi in frutti di gioia e felicità eterna.
A volte i doveri che si devono fare, si fanno con un certo entusiasmo e non si sente molta fatica. Ma ci sono poi delle cose che sono nel profondo della nostra anima, cose che ci fanno penare tanto. Parlarne con Dio. Ecco, prima condizione: silenzio. Mettere due intenzioni che servano per nostro merito e servano per le anime, santificazione nostra e salvezza delle anime. Poi, non guastare: se noi cerchiamo lo sfogo negli uomini, tante volte perdiamo i meriti. È forse che ci tolgono le pene? Certo, i malati bisogna che si esprimano per i loro mali al medico, allora non è uno sfogo, è un dovere che si compie,
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mostrare i mali che ci sono. Come non è un lamentarsi parlarne brevemente con il confessore o con chi può darci una spiegazione, un consiglio, ecc. Ma con le altre persone, solo quando è necessario. Ci caveranno forse una spina le altre persone? E quando noi andassimo a sfogarci e manifestare le nostre pene, ce le toglierebbero? E saremmo poi più soddisfatti, più contenti? Resterebbe ancora l’amaro: forse soffri e senza merito. Quindi la silenziosità. Compatire molto le pene degli altri e saper tacere molto sulle nostre. Silenziosità, offrendo a Dio. «Non la mia, ma la tua volontà sia fatta», sapendo che il succo della santificazione sta qui: «Fiat voluntas tua»9. Sta lì, «Sia fatta la tua volontà» o Signore. Oh la silenziosità!
Oltre a questo poi, pregare, perché le croci a volte sono molto pesanti. Pregare per saper sopportare. Quando vi è tanta riluttanza ad accettare la croce, anche se fosse la sentenza che pronuncia il medico: Non potrai vivere con questo male, questo male è fatale, ecco: pregare per avere la forza. Gesù, avvicinandosi la passione, non è andato a lamentarsi, è andato a pregare nel Getsemani. È andato a parlarne con il Padre suo celeste. E il Padre, siccome gli uomini non lo hanno saputo consolare e gli Apostoli si erano anche addormentati, il Padre ha mandato un angelo «confortans eum: a confortarlo»10. Quindi parlarne poco con gli uomini e parlarne con Dio.
Allora coltivare la devozione al Crocifisso: guardare quelle santissime piaghe dei piedi, delle mani, del costato, del capo e la corona di spine: ecco il Crocifisso è il più bel libro. Ci dice tante cose e da lui, dal Crocifisso viene tanta grazia. Gesù che ha un cuore sensibilissimo e che ha sofferto, ci comprenderà. Parlarne con lui e pregare, sì.
Allora volgere spesso il nostro sguardo a Maria che porta nel suo petto sette spade che rappresentano i sette suoi dolori principali. Maria è chiamata la Regina dei Martiri e questa Madre ci comprenderà sempre e ci consolerà. Si potrà arrivare fino al punto che l’anima è più contenta di soffrire che di godere. Vi saranno anime che vorranno offrirsi vittima, e vi
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saranno anime, che giungeranno ancora a desiderare la croce e magari, adattarsi a cercare penitenze e mortificazioni, proprio quelle che feriscono di più.
Con le penitenze esterne bisogna andare molto adagio secondo le regole che sapete. Ma vi sono tante cose in cui possiamo immolare la nostra volontà, immolare i nostri sentimenti, i nostri desideri, ecco, tante cose che già vengono di per sé; e poi vi sono tante altre cose che senza dare nell’occhio agli altri, possiamo accettare o cercare come mortificazione. Così l’apostolato redentivo, l’apostolato della sofferenza con Maria e con Gesù.
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1 Predica tenuta ad Albano il 10 novembre 1957 durante il corso di Esercizi spirituali. Trascrizione da nastro A6/an 38a = ac 63b.

2 Cf Eb 9,22: «…senza spargimento di sangue non esiste perdono».

3 Cf 2Cor 5,14.

4 Cf Eb 3,1: «… prestate attenzione a Gesù, l’apostolo e sommo sacerdote».

5 Cf 2Cor 12,10: «Quando sono debole, è allora che sono forte».

6 Stabat Mater è una sequenza attribuita a Jacopone da Todi (ca. 1228-1306), frate francescano, poeta, autore di novantatre Laudi.

7 Cf Col 1,24.

8 Cf At 5,29.

9 Cf Mt 6,10.

10 Cf Lc 22,43.