Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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ISTRUZIONE XV
LA FORTEZZA E LA TEMPERANZA

[127] Raggiungere la santità o perfezione è nostro dovere. E la santità nei santi da che cosa si conosce? Dall'eroismo nelle virtù teologali e cardinali. Il processo di canonizzazione volge sempre su queste sette virtù. Connesse con la giustizia sono le virtù della religione e l'obbedienza. Rimangono da considerarsi - delle virtù cardinali - la fortezza e la temperanza. Mentre la giustizia, integrata dalla religione e dall'obbedienza, regola le nostre relazioni col prossimo, la fortezza e la temperanza regolano le relazioni con noi stessi.
La fortezza ci rende forti nel compiere il bene e vincere il male; la temperanza ci modera nell'uso dei mezzi necessari a raggiungere il fine.
Abbiamo bisogno di fortezza, ma anche di temperanza. Quella maestra fa scuola e vuole | [128] che gli alunni imparino; ma non deve eccedere nello sgridare, nel caricare di lavoro, ecc.!
La fortezza è una virtù per la quale noi, avendo proposto un fine da raggiungere, lo raggiungiamo a costo di qualunque sacrificio, anche del martirio. Gesù ha detto: «Regnum Dei vim patitur et violenti rapiunt illud»1. La via è stretta e pochi la prendono perché sono indolenti2.
Ecco i martiri, forti di fronte a qualunque genere di martìri, forti di fronte alla morte! Ecco S. Agnese, S. Lorenzo, il nostro S. Paolo, S. Tecla. Ecco la fortezza! Forti per amore di Cristo!
La fortezza ha due oggetti, cioè si mostra in due maniere: 1) sopportare molte difficoltà; 2) intraprendere cose grandi: «Fortia facere et magna sustinere».
L'anima che si dà a un lavoro serio di perfezione, di santità, incontra certo molte difficoltà, difficoltà che provengono dalle passioni: superbia, avarizia, pigrizia, ecc.; difficoltà che provengono dalle relazioni colle sorelle: alle volte bisogna sopportare derisioni, umiliazioni. Nelle comunità, quelle che non hanno voglia di santificarsi, quanto fanno soffrire le altre che invece
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lavorano con generosità! Perché non hanno coraggio, non lavorano e non possono vedere chi lavora seriamente. Non ubbidiscono e si irritano contro quelle che amano e rispettano i superiori; non vogliono che le altre si distinguano.
Per farsi sante bisogna proprio sopportare tante contrarietà. [129] Talvolta sembra che i superiori non possano vederle e non le comprendano. E delle volte soffrono - povere anime! - dei veri martìri che il Tanquerey chiama «martirio del fuoco lento»3. Più quella figliuola cerca di sopportare pazientemente ogni cosa e più le vanno contro e sembra che tutti abbiano diritto di tirarle contro una pietra. Guardate quel povero S. Felice da Nicosia: sembrava che tutti avessero diritto a farlo soffrire, incominciando dal suo superiore, solo perché egli sempre sopportava ogni cosa col sorriso sul labbro. (Fanno ben magra figura certi superiori nelle vite dei santi!). Persone che somigliano a quei ragazzi che si divertono a molestare crudelmente gli uccellini.
Chi vuol farsi santo deve sostenere grandi prove. E chi non vuol soffrire, rinunzi pure a farsi santo! Molte volte bisogna usarsi violenza nell'adempimento dei doveri!
I santi vogliono nascondere il loro bene, altro che desiderare venga riconosciuto! I santi cercano le umiliazioni: altro che irritarsi per ogni parola contraria e magari per una giusta osservazione! Ma per farsi santi bisogna seguire Gesù, imitare Gesù a Betlemme, a Nazaret, sul Calvario; Gesù che, per trent'anni, lavora nel nascondimento e muore calunniato e crocifisso!
Per farsi santi bisogna essere forti: bisogna praticare le virtù anche grandi che si presentano; | [130] ciò non vuol dire fare grandi opere: è la continuità della virtù, che è gran cosa.
Quell'osservanza quotidiana, perfetta, pronta e volenterosa, fatta con cuore lieto, è una grande virtù.
Si comprendono qui anche le opere distinte che si fanno a gloria di Dio, come sarebbe fare grandi beneficenze (quando voi incitate gli altri a far beneficenza all'Istituto, date occasione di esercitare la virtù della fortezza). Opere grandi sono pure le grandi spese fatte per procurare i mezzi necessari a lavorare per la salvezza delle anime. Fiducia in Dio, quindi, e fortezza anche quando ci sono grandi spese da sostenere: «Fortia faciens»4.
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Gli incipienti esercitano la virtù della fortezza combattendo i difetti opposti e precisamente: la pusillanimità per cui si lavora a farsi santi solo finché non ci sono difficoltà. E non si decidono mai. Quel che avviene di tante persone che hanno buon desiderio di fare grandi opere e non le compiono mai, avviene, nello spirito, quando si è pusillanimi. Alcuni non escono mai dalla mediocrità perché hanno come una legge, inconsciamente accettata, di non distinguersi. Ma per farsi santi bisogna uscire dalla mediocrità, bisogna distinguersi! Non basta per es. essere umili fino ad un certo punto; ma si deve essere molto umili. Le anime incipienti si armano contro lo scoraggiamento, che è fare e poi desistere. Acquistano la pazienza a sopportare tacendo e a operare con costanza.
[131] Le anime proficienti esercitano la fortezza nel subire quel quotidiano martirio a fuoco lento e arrivano fino a prendere le contraddizioni col sorriso sul labbro. Alle volte può essere che una malattia penosa e nascosta produca tanti dolori fisici e morali. La fortezza insegna a sopportarla con gioia, felici di avere qualche cosa da offrire a Dio. Quando si deve prendere una risoluzione, occorre pregare, consigliarsi; ma, una volta deciso, resistere, andare avanti senza desistere davanti alle difficoltà, quando la volontà di Dio è manifesta. Le difficoltà sono sempre occasioni per esercitare la fortezza. Le anime perfette esercitano la virtù della fortezza mediante il dono dello Spirito Santo. Ottengono, cioè, la perfezione della fortezza che viene dallo Spirito Santo. Esse tengono sempre presente Gesù crocifisso e fino alla crocifissione esse vogliono seguirlo.
Bastava che Gesù avesse voluto, per annientare tutti i suoi carnefici; ma volle serenamente sopportare tutti gli insulti e tutta la passione: pensate all'agonia del Getsemani, alla flagellazione, alla coronazione di spine; pensate al viaggio al Calvario, alla crocifissione, alle tre ore di penosissima agonia! E ci vuol fortezza a subire calunnie, maldicenze, contraddizioni e pregare per i nemici, come fece Gesù dalla croce: «Padre, perdona loro!»5.
Che cosa ha detto Gesù? «Beati quando vi perseguiteranno e, mentendo, diranno di voi ogni male»6. E come ha detto di sopportare
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portare queste | [132] cose? «Godete ed esultate, perché la vostra mercede sarà grande nei cieli»7. Avete veduto morire delle vostre sorelle; avete notato con quale pazienza esse hanno sopportato tanti dolori. La pazienza è parte della fortezza.
La temperanza è la virtù che modera le nostre passioni, le raffrena8, e si riferisce specialmente a due punti: la gola e la sensualità. Modera pure l'ira e rende la persona docile. Quindi: castità, dolcezza e umiltà sono parti della temperanza9.
Vi è in noi un duplice ordine di passioni: quelle che dipendono dall'appetito irascibile e quelle che dipendono dall'appetito concupiscibile; la temperanza le modera tutte.
La temperanza modera gli sguardi, la curiosità, il desiderio di sapere, di far dire, frena la facilità a leggere quello che non si deve leggere, il desiderio di voler parlare e dire cose che disturbano; modera il cuore, gli affetti: voler bene sì, ma non quel bene troppo umano, sensuale. La temperanza modera tante nostre voglie: quella vorrebbe sempre andare a casa e cerca tante ragioni per giungere al fine; la famiglia vostra, ora, è la paolina.
La temperanza la troviamo applicata quasi esclusivamente al mangiare e al bere, tanto che si crede, ordinariamente, che riguardi solo la moderazione nel cibo e nella bevanda. Non è del tutto esatto; ma è pur vero che la moderazione | [133] nel cibo e nella bevanda è parte della temperanza.
La temperanza è necessaria, altrimenti le nostre passioni possono portarci a qualunque eccesso. Se tu non moderi il riposo, se tu non moderi la vista, la fantasia, tutti i tuoi sensi interni ed esterni, come conserverai la purezza? Se tu non temperi l'ira, perdi la ragione: aspetta un po' a parlare quando sei adirata.
Vi sono delle persone che non sanno affatto temperarsi. Se al mattino sorge il sole bello e splendente, sono tutto entusiasmo. Se invece è coperto dalle nubi, oh, quanti turbamenti e scoraggiamenti! Se oggi, venendo avvertita, ti sembra di aver ragione, aspetta prima di difenderti, fa' prima, magari, una buona Confessione. Temperanza ci vuole! Tutti siamo soggetti a queste impressioni, ma la temperanza sa farci trovare il modo di comportarci in esse. Senza questa temperanza le nostre passioni prendono
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il sopravvento e non riusciremo mai ad acquistare alcuna virtù. Le passioni portano danno solo quando sono lasciate libere, quando non sono guidate dalla retta ragione, quando non sono temperate. «Dives est modestia apud Deum, apud quem nemo est dives» dice S. Ambrogio10. Questo perché la temperanza porta seco una famiglia di virtù.
L'anima nello stato di incipiente cerca di non mancare alla temperanza: non eccede nel mangiare e nel bere o nel riposo; modera gli | [134] occhi, la lingua, l'udito, il tatto, il cuore. Frena la sensibilità che, alle volte, è molto viva; vi sono di quelle che mettono insieme sensualità e pietà: hanno una pietà sensuale e alle volte vanno da sole a certi eccessi che son peccato. La pietà non è un sentimentalismo romantico, non è un nutrire le passioni sotto aspetto spirituale.
Le anime proficienti esercitano la temperanza mettendosi alla scuola di Gesù e cercando di imitarlo nell'esercizio di tale virtù. Contemplate la temperanza di Gesù. Gli portano il cibo ed egli risponde: «Ho un altro cibo: quello di fare la volontà del Padre mio»11. Eppure era stanco e affamato! Sulla croce gusta la bevanda che gli viene offerta per sentirne l'amarezza, ma non la prende per non subirne le conseguenze inebrianti. Quante volte nelle sue predicazioni inculcò l'esercizio della temperanza!
La temperanza di Gesù si manifestò specialmente nella sua purezza. Nessuno osò mai accusarlo su questo punto. Lo accusarono di tutto, ma non mai qui sopra, tanto il suo fare era modesto e dignitoso, anche quando doveva trattare con persone pericolose. Egli difende la donna adultera, ma lo fa in un modo così soprannaturale, senza neppur sfiorare ciò che è male. Non dice: Non commettere più queste cose luride; ma semplicemente: «Noli amplius peccare: non peccare più»12. Era mortificatissimo. Noi lo rileviamo dal modo stesso con cui stava sulla croce. | [135] Bisognerebbe rilevare la temperanza dal modo stesso di stare a letto.
Le anime perfette esercitano la temperanza col dono del timor di Dio che le accompagna sempre. Questo dono consiste in una delicatezza che l'anima continuamente conserva per timore di
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disgustare Dio, di offendere il suo Sposo. Talvolta teme perfino di accostarsi all'altare, di fare la Comunione. È per questo senso di delicatezza che le anime purganti, vedendosi alla luce di Dio, volontariamente si buttano nelle fiamme che le purificano.
Le anime senza timore precipitano. Quelle che lo possiedono, in tutte le cose temono di offendere Dio. In ogni ufficio ed umiliazione pongono a base questo timore. E vanno sempre adagio a parlare: lasciano volentieri parlare gli altri. Far tacere la nostra lingua quando è tempo di tacere. Saper tacere, non accumularsi tante responsabilità col pronunciare tante sentenze, col narrare tante cose inutili e vane che portano distrazione e dissipazione. Nelle case filiali si osserva il silenzio? Modellarsi, in questo, su Casa Madre. È vero che, essendo in poche, molte volte si devono dare disposizioni varie, ma questo farlo a tempo e luogo e non far sì che una parola ne tiri un'altra.
Vedete: la lingua non mortificata è causa di tanti mali. Mette in subbuglio tutte le nostre passioni. Mortificate la lingua, osservate il silenzio, altrimenti di lì a un po' quelle case | [136] diventano una riunione di buone donne. Non fanno forse gran male, ma diventano come delle belle ceste in cui si mette dell'acqua. E l'acqua in una cesta non vi rimane!
Quando si ha la facilità di parlare di tutto e di tutti, nascono nel cuore tante cose non rette, vuote, e quando si riceve una disposizione dei superiori, si fanno mille obiezioni e si manifestano tutte le impressioni, le quali, di solito, sono di critica: e allora si perde l'energia e anziché osservarla, quella disposizione, la si lascia da parte. Ma fate silenzio! Ristabilitelo bene questo silenzio, perché io credo che la vita religiosa se ne sfuma tutta come un liquore preziosissimo lasciato in una bottiglia aperta: dopo un po' quella bottiglia non conterrà che acquaccia cattiva. Bisogna temperare anche la musoneria: Ma io ho il dolore dei peccati!. Ma il dolore dei peccati devi averlo con Dio, non con le persone che ti circondano!
In generale, però, c'è più bisogno di temperare l'eccesso nel parlare. «Si quis in verbo non offendit, hic perfectus est vir»13 dice S. Giacomo.
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1 Mt 11,12: «Il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono».

2 Cf Mt 7,14.

3 A. Tanquerey,Compendio di teologia ascetica e mistica, n. 1081.

4 «Intraprendere cose grandi».

5 Lc 23,34.

6 Cf Mt 5,11.

7 Mt 5,12.

8 Originale: rafferma. Sostituito, perché sembra un errore tipografico.

9 Sintesi di Tanquerey, Compendio di teologia ascetica e mistica, n. 1099.

10 «Ricca è la modestia presso Dio, per il quale nessuno è ricco».L'espressione è attribuita a sant'Ambrogio (339-397) vescovo di Milano, Padre della Chiesa latina.

11 Cf Gv 4,34.

12 Gv 8,11.

13 Gc 3,2: «Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto».