Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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ATTI DI FEDE, DI SPERANZA, DI CARITA
Festa dell'Ascensione

[...] sono1 obbligatori e l'obbligo è sia come mezzo di salvezza eterna, quindi l'obbligo più stretto che si possa pensare, e sia come precetto.
Cosi ché, secondo tutti insegnano, è necessario che noi li facciamo, questi atti, saepius in vita, frequentemente in vita, massimo poi in punto di morte.
E poi vi sono sempre occasioni, nella vita, in cui è necessario fare, o l'uno, o l'altro di questi atti. Vi sono delle occasioni in cui bisogna far l'atto di fede e la professione di fede. Ad esempio, la religiosa, quando si trova in punto di morte in modo particolare, oltre al dovere generale che hanno tutti. Vi sono occasioni di dover far l'atto di fede. Per esempio, quando uno è molto tentato; poi, specialmente, per chi insegna teologia, per chi guida un istituto, per chi nella Chiesa compie un ufficio particolare, che ha annessi doveri riguardanti le anime, la cura delle anime, ecc. Sono elencati tutti questi nel Diritto Canonico e nella teologia morale.
L'atto di speranza può essere obbligatorio in momenti in cui l'anima si sente esasperata e quasi disperata, perché di tratta di combattere una tentazione grave.
E così, l'atto di amor di Dio, nella comunione. E l'atto di amor di Dio è collegato con la stessa comunione, poiché la comunione
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è unione e questa unione è amore.
Non che siano obbligatorie sempre le formule, come le abbiamo nel catechismo, ma in sostanza che vi siano questi atti. Perciò nel libro delle preghiere, e, si suggerisce che a coloro che sono infermi gravi si dicano le giaculatorie che poi ripeteranno nel loro cuore: Signore, io credo in voi, io spero il paradiso, io vi amo con tutto il cuore1. E poi si aggiunge: Mi pento di tutti i miei peccati2.
Questi sono atti, dunque, obbligatori per necessità di mezzo e obbligatori per precetto. La massima importanza, perciò. E' più necessario l'atto di fede che non la comunione, ad esempio, che non l'assistenza alla Messa, perché l'abbiamo anche letto momenti fa nel Vangelo: Chi non crede sarà condannato3.
Oh! Invece il malato, supponiamo, che deva sempre rimanere a letto, può essere che non assista mai più alla Messa, ma l'atto di fede e gli atti di fede, in una formula o in un'altra devono farsi.
A queste virtù la primaria importanza per tutti, o semplici cristiani, o religiosi: per tutti la massima importanza.
Quest'oggi, poi, la Chiesa ci invita ad elevare i nostri cuori e accompagnare il Salvatore nostro Gesù: Jesu tibi sit gloria qui victor in caelum redis4, sia gloria a te, o Gesù, che ritorni in paradiso vittorioso. Vittorioso perché captivam duxit
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captivitatem1, vinse la schiavitù e mise in schiavitù la schiavitù a cui noi eravamo soggetti: schiavi del peccato, per causa dei nostri progenitori.
Oh! Quando Gesù ci dice: Chi vuol venire con me prenda la, la sua croce, rinneghi se stesso e mi segua2, non intende soltanto dire che lo seguiamo fino al Calvario, immolando noi stessi, ma lo seguiamo su in cielo.
E, nell'Oremus della Messa abbiamo, abbiamo domandato che, come Gesù, adesso è già in cielo, alla destra del Padre, intanto che siamo ancor sulla terra, cominciamo ad abitare il paradiso con la mente. Giacché non siamo ancor cittadini di presenza nel paradiso, almeno abitare con la, con la nostra mente, coi nostri cuori; oppure, come avevam domandato nella settimana scorsa al Signore: Ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gaudia3, i nostri cuori si fissino, si fissino, si orientino, cerchino solo quello che è veramente gioia e gioia eterna: Ubi vera sunt gaudia4.
Non attaccati a delle cose umane, non cercando le cose che si vedono, che appaiono, ma cercando quello che non si vede, la gloria eterna del cielo, la vita eterna.
Che cos'è l'atto di speranza? O, meglio, noi diciamo: che cosa è la speranza? Perché la speranza è una virtù e quando poi noi
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diciamo io spero allora facciam degli atti. E più son frequenti, questi atti, e più il desiderio del paradiso entra in noi e più, in noi, diventiamo inclinati, forti nel compiere degli atti virtuosi, più diventiamo, e, fervorosi nella nostra vita.
Oh! Il fervore tanto consiste qui: lavoro spirituale interiore, di emendazione e di conquista e, poi, l'osservanza della vita religiosa e l'apostolato, il compimento dell'ufficio che in congregazione a ognuna in particolare è assegnato. Queste sono le vere manifestazioni del fervore.
Che cos'è dunque la speranza? E' una virtù, è un abito, come si esprimono i teologi, una tendenza, una disposizione interiore che ci è infusa dallo Spirito Santo nel battesimo, per cui noi speriamo il cielo e tutti i mezzi, tutte le grazie che son necessarie per arrivare al cielo.
La nostra speranza si fonda sopra la fede. La fede è la radice da cui nasce la pianta, ma poi questa, questa radice, quando si mette il seme nella terra, ecco la radichetta, e poi si sviluppa e cresce. La speranza è il fusto, tronco della pianta. Poi verrà la carità, che è manifestata dai frutti.
Oh! Come d'altra parte si dice, la vita religiosa, la vita cristiana, la vita buona si può paragonare alla erezione di una casa: la fede è fondamento della casa e la speranza è la costruzione della casa, l'edificio che si vede all'esterno e la carità è il compimento, il tetto della casa, quel che compisce e che ripara tutto il rimanente della casa, poiché il tetto ripara dalle intemperie la casa stessa.
Quando c'è grande amore a Gesù non fa bisogno di suggerir tante cose alle persone! Quando c'è grande amore a Gesù fa solo
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bisogno di dire quello che piace a Gesù! E l'assistenza è molto facile, le correzioni non hanno quasi ragione di essere, se non in questo: forse non, non hai ricordato la tal cosa, oppure la tal'altra, la tal'altra cosa si fa in questo modo: solo indicazioni.
Oh! Quando c'è la carità verso Dio! Perché noi finiamo il Credo dicendo: Vitam aeternam1, ecco, exspectando beatam spem et adventum Domini nostri Jesu Christi2, il quale riformerà il corpo della nostra umiliazione, della nostra infermità in un corpo glorificato e glorificato in eterno: tutto il nostro essere è glorificato.
Crediamo il paradiso, crediamo di essere fatti per il paradiso e che solo per questo il Signore ci ha creati; e mentre che egli ci ha creati per il paradiso, ottiene pure, pure il suo fine che è supremo, la sua gloria.
La gloria di Dio dipende dalla nostra santificazione, propriamente. Non è soltanto la recita di un Gloria Patri o Gloria in excelsis Deo: sono manifestazioni dei desideri, dei sentimenti che abbiamo che il Padre, Iddio, sia glorificato, ma la glorificazione di Dio sta particolarmente nel farci santi realmente. Allora il nostro essere, tutto consumato, vien tutto consumato come una candela innanzi al tabernacolo, consumato per Dio.
Allora, in Cristo, si dà la maggior gloria a Dio: Per ipsum
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et cum ipso et in ipso est tibi Deo Patri omnipotenti1. Che cosa? Insieme allo Spirito Santo: Omnis honor et gloria2.
Vi... Fatti per il paradiso. Ecco, l'uomo, che è un essere così piccolo, l'uomo può rendere nullo il desiderio di Dio; può, l'uomo, opporsi ai fini che ebbe Iddio nella creazione. Opporsi. Noi che siamo così piccoli, che ci opponiamo a Dio onnipotente! E come può opporsi l'uomo? Quando Dio ci ha creati per un fine e noi non ci andiamo: pecchiamo e ci orientiamo verso le creature, perché il peccato è sempre aversio a Deo et conversio ad creaturas3. Quale audace temerità è il peccato!
Invece, ogni volta che noi tendiamo verso il cielo e che vogliamo conquistarlo, e che vogliamo farci santi e grandi santi, allora corrispondiamo al suo volere, allora diciamo coi fatti: Fiat voluntas tua sicut in caeli et in terra4. E la facciamo questa volontà di Dio.
La nostra speranza si fonda primo sopra la onnipotenza di Dio. Perché? Per l'uomo, e, non sarebbe necessario, secondo la sua condizione, di avere il paradiso a cui ci chiama il Signore. E' per sua misericordia che ci ha elevati all'ordine soprannaturale e noi, avendo una vita soprannaturale, per la grazia di Dio, possiamo operare in ordine al cielo soprannaturalmente e, allora, arrivare ad una gloria che non è solamente come semplici uomini, ma è come figli di Dio: Si filii et heredes, heredes Dei,
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coheredes Christi1.
L'onnipotenza di Dio a servizio del suo amore. Che, che grande chiamata, che grande vocazione ci ha dato! L'onnipotenza di Dio a servizio del suo amore.
Oh! Poi la nostra speranza si fonda, ancora, sopra la bontà di questo Dio. Il Padre celeste, il quale ci manda sulla terra a guadagnare un po' di meriti, a compiere qualche lavoro, una missione, per aver ragione di premiarci alla fine, e ci ha fatti liberi affinché, nella libertà, potessimo acquistare meriti. Senza libertà non c'è merito e, e con questo darci un premio soprabbondante! La misura buona, la misura scossa, la misura pigiata, la misura che versa. Ecco. Il che significa che tutto il nostro essere, in paradiso, avrà il premio: e la mente pienamente soddisfatta, il cuore pienamente soddisfatto, la volontà pienamente soddisfatta. Oh! Il premio eterno! La bontà del nostro Dio, quanto è grande!
E, poi, la nostra speranza si fonda ancora sui meriti di Gesù Cristo e sulle sue promesse. Si può dire che non vi è cosa di cui parla più spesso Gesù Cristo nel Vangelo che del paradiso. Il programma della predicazione di Gesù Cristo è contenuto nel discorso detto della montagna: Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli2. Ecco, comincia così.
Poi, quante volte ritorna sopra questo pensiero del cielo e quante volte ha preannunziato; si può dire che anche è già
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annunziata la sentenza che darà: Avanti, servo buono e fedele, entra nel gaudio del tuo Signore1. E l'altra, poi, per il giudizio universale: Venite, o benedetti, nel regno del Padre mio, possederete il regno che vi è stato preparato nel cielo2. Le promesse.
Ora, che cosa dobbiamo pensare della speranza? Dobbiamo spe..., pensare che la nostra, che è necessario, anzitutto, non offendere questa virtù della speranza e, secondo, di crescerla nei nostri cuori.
Come si offende questa virtù della speranza? Si offende in due maniere: o con la presunzione, oppure con la disperazione. La presunzione di salvarsi senza meriti, oppure coi nostri soli meriti. E è una stoltezza, una cecità di salvarci senza meriti, quasi che il Signore non sia giusto. Il Signore è misericordioso, il Signore ha voluto redimerci col suo sangue e mette a disposizione nostra il suo sangue, per cui noi veniamo lavati, e nel battesimo, dal peccato originale e nella Penitenza dal peccato attuale.
Sì. Egli, il Signore, in, in un eccesso di misericordia, ecco che cosa ha fatto: Gesù Cristo sulla croce paga il nostro peccato. Eccesso di misericordia: lui, l'offeso, viene a pagare la nostra offesa fatta a Dio.
Oh! Ma il Signore, nello stesso tempo, è giusto e, quindi, se noi non ci arrendiamo alla misericordia dovremo incontrare la sua giustizia. Quindi salvarci senza meriti, no.
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Il lavoro che fate quotidianamente, prima il lavoro interiore spirituale e poi il lavoro di apostolato, ecco, se fatto per il Signore, fatto bene, costituisce una catena ininterrotta di meriti. Su... suore, o, o anche semplicemente cristiani, i quali santificano tutto, tutto, anche il sonno, anche il cibo che prendono, le stesse ricreazioni, gli stessi scherzi che possono fare per rendere lieta la conversazione. Santificano tutto.
Ma tutto questo nostro lavorio spirituale e nostro lavorio dell'apostolato vale ed è proporzionato al gaudio del cielo, in quanto tutto è offerto a Gesù Cristo e per lui al Padre: Per Christum Dominum nostrum.
Le nostre opere sarebbero misere e sproporzionate al gaudio eterno, perché il premio è straordinariamente alto, ma Gesù Cristo vi aggiunge i suoi meriti, i suoi meriti. Ecco. Sempre noi dobbiamo lavorare e, nello stesso tempo, appoggiarci ai meriti di Gesù Cristo.
Eh! I bambini che muoiono dopo il battesimo e prima dell'uso di ragione vanno in cielo per la grazia del battesimo, poiché ad essi è stata applicata la virtù della passione di Gesù Cristo. Per noi adulti, abbiamo ancora un'altra grazia e, cioè, quella di abundantius habeant1. Possiamo guadagnare di più lavorando, lavorando ogni giorno per il Signore: lavoro spirituale e lavoro di apostolato.
Dunque, non siamo così presuntuosi di salvarci coi nostri meriti, e, oppure salvarci anche senza merito. No. Dobbiamo
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guadagnare meriti e i nostri meriti, perché abbiano il premio eterno, cioè il cielo, devono essere uniti ai meriti di Gesù Cristo.
Contro la speranza, poi, c'è anche la disperazione, che è un peccato grave, gravissimo. Disperare della bontà di Dio, ecco. Questa disperazione, alle volte, può arrivare ad un eccesso ed essere veramente peccato grave. Ma ordinariamente non si arriva lì, e tuttavia si commettono, forse, qualche volta, delle venialità. E persone che non sperano più di farsi, farsi sante, persone che non sperano di ottenere questa grazia, quell'altra. Parliamo delle grazie spirituali: la grazia di vincere il peccato, di vincere le tentazioni, di vincere l'orgoglio, di vincere la pigrizia, la tiepidezza.
Non disperare mai! Anche se si fosse già in punto di morte e l'anima si trovasse come in un abisso di tristezza, guardi al cuore di Dio, al cuore di Gesù, guardi all'immagine di Maria. La misericordia è ancora là e attende l'anima fino che essa sia separata dal corpo.
Tutti possono farsi santi: la religiosa, poi, ha proprio una vocazione speciale alla santità e la certezza che è chiamata alla santità. E questa certezza viene appunto dalla certezza che c'è la vocazione. La vo..., la vocazione religiosa è la vocazione alla perfezione, cioè alla santità. E come si potrebbe dubitare che, poi, il Signore ci dà i meriti, ci dia i mezzi? Non si può dubitare, perché il Signore, quando chiama una persona a uno stato la fornisce di tutte le grazie che avrà bisogno di possedere, questa persona, per compiere quello che è di piacere di Dio, di volontà di Dio.
Allora non lasciamoci sorprendere dal pessimismo: tanto non
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riesco, tanto non mi faccio santo e subito dire: io mi contento di una mediocrità! Quella è la tiepidezza viva! E' la tiepidezza, che se entra in un'anima religiosa, fermerà il suo lavoro spirituale e renderà la vita abbastanza triste, una vita sco..., scontenta, perché non possiede le consolazioni di Dio e non ha nel cuore quella pace che Iddio comunica a chi lo ama.
Ecco. Mai lasciarsi prendere dal senso dello scoraggiamento. La disperazione si presenta in tante forme. O perché non hanno ricevuto quella grazia materiale: è inutile che preghi, Dio non mi sente! Ma è, è possibile dire così, oppure queste espressioni sono, oh!, almeno vicine alla bestemmia? Almeno vicine? No, Dio ci sente e Dio desidera più lui di darci le grazie di quanto le desideriamo noi, le stesse, le stesse grazie stesse.
Non andiamo avanti di spropositi in spropositi nella vita spirituale, ma di verità in verità e sempre appoggiati a Dio. Ci resta sempre la Madonna: anche quando l'anima si sentisse come smarrita, come si sentisse come sbattuta dalle tempeste, dai venti, dai flutti la nave e, allora, c'è ancora Stella Maris, Ave Maris Stella1 per orientare la vita e questa madre, subito, ci soccorrerà. Si dia mano alla corona!
Oh! Poi bisogna crescere in noi la virtù della speranza. Questa virtù della speranza si perfeziona in due maniere, o con due mezzi: il primo è di far le opere buone, mediante le opere buone che io debbo e voglio fare2. E, cioè, non che possiamo
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solamente desiderare il paradiso, ma meritarlo. E cosa vuol dire meritare? Il bambino che, che va a scuola, il fanciullo, lo studente, ecc. meritano il 10, o meritano il 9 per il loro studio, o magari meritano la lode. Ecco.
Bisogna che operiamo. E chi è che va a pagare gli operai che stanno tutto il giorno oziosi sui canti delle strade? Ite et vos in vineam meam1 e quel che sarà giusto ve lo darò2. Unusquisque mercedem accipiet secundum suum laborem3: bisogna proprio farli i meriti! Ma questo costa sacrificio, ma quello è difficile, ma qui c'è la tal, la tale obiezione... Oppure: oh!, adesso sono tribulato interiormente, e non mi comprendono, o mi trovo in queste, in queste circostanze dovendo lavorare con persone di diverso carattere, dovendo fare un apostolato un po' ingrato, ecc.
Proposito: Sibi gaudio sustinuit crucem4.
Gesù, avendo da conquistare il bel posto preparatogli dal Padre suo, alla sua, alla destra lassù in paradiso, portò la croce, portò la croce: Et qui vult venire post me abneget semetipsum5. Rinnegare noi stessi, proprio rinnegare noi stessi!
Persone che lavorano fino a stremarsi di forze e poi, quando si tratta di vincersi in un punto, vincer il loro orgoglio, non ci sono più. Si tratta di spendersi per l'apostolato e allora:
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Impendam et superimpendar1, al modo di s. Paolo. E questo è lodevole.
Alle volte, poi, si tratta di perdonare una offesa, oppure di lasciar passare un disgusto, oppure di sopportare un'incomprensione: oh! non hanno più il coraggio, la volontà!
Dunque, il paradiso si merita! Ecco. Il che vuol dire: occorre proprio guadagnarcelo, far tutto quel che possiamo noi, poi sperare in Dio e, poi, pensare che dove è mancata la nostra possibilità, dove c'è la nostra insufficienza, umiliarci e chiedere a Gesù che ci applichi i meriti della sua passione e morte.
Secondo, poi, la speranza si coltiva con la preghiera. Recitarlo bene l'atto di speranza! E tutte le volte che diciamo il rosario, o che facciamo il ringraziamento alla comunione, o che ascoltiam la Messa, o siamo nella visita, esercitarci bene nella speranza. Il paradiso e le grazie necessarie per andare in paradiso, speriamo. Non dirlo superficialmente con le labbra fateci santi, ma di..., ma sentirlo in noi.
Il papa Pio XI aveva questa abitudine: non tantissime preghiere, ma sentite, meditate. E mentre che altri recitavano il breviario in un'ora egli ce ne impiegava due. E si direbbe: il Papa ha tante cose da fare!. Perché meditava i versetti che stava recitando e penetrava il senso. Non dir delle cose vuote. Vi sono dei rosari, e, i quali sono detti con semplicità, ma con attenzione. E può essere che un rosario detto con semplicità, con attenzione, con viva fede, speranza, che valga di più che, alle
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volte, recitarne tre.
Sentire: Signore, mi avete... Fecistis nos Domine ad te1, Signore, ci hai creato per te, per il paradiso e io so che mi darai tutte le grazie per arrivarci. Anche quando la mia preghiera non sembra esaudita, io so che mi esaudisci, mi dai tanto di meglio e, se non lo vedo coi miei occhi perché io sono superficiale, non so penetrar bene le cose, non possiedo ancor bene tutto lo spirito di Dio, lo so però che è così: e mi ami e hai desideri più tu di darmi le grazie che non desideri io di riceverle.
Esercitarci nella speranza con la preghiera e, poi, se viene qualche sentimento di di..., di disperazione, mettersi a posto: Signore, io spero nei meriti della vostra passione e morte e intendo di fare quello che devo fare, con le opere buone che io debbo e voglio fare per guadagnare il paradiso.
E avanti sempre! Abituarsi: in tanti luoghi alzare gli occhi al cielo. Ci vuol così poco! E si può fare in camera, e si può fare per istrada, e si può fare sull'automobile e si può fare anche di notte che è buio.
Alzare gli occhi in alto, ecco, sospirando il paradiso; e più mediteremo il paradiso e più noi avremo coraggio.
Abbiamo un torto, ma un poco è rimediato: non si parla abbastanza del paradiso. Però si è cercato di rimediare, sono stati scritti libri sul paradiso, sì.
Sempre abbiamo da elevare gli uomini alla speranza: il paradiso. Sia lodato Gesù Cristo.
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1 Nastro originale 10a/57 - Nastro archivio AP 1bis a/b. Meditazione fatta alle Apostoline il 30 maggio 1957.

1 Libretto preghiere Famiglia Paolina.

2 Libretto preghiere Famiglia Paolina.

3 Cfr Mc 16,16.

4 Inno Ad Mattutinum “Aeterne Rex Altissime”.

1 Ef 4,8.

2 Cfr Mt 16,24; cfr Mc 8,34; cfr Lc 9,23.

3 Oratio Dominica Quarta Post Pascha, in Missale Romanum.

4 Oratio Dominica Quarta Post Pascha, in Missale Romanum.

1 Simbolo degli Apostoli.

2 Cfr Tito 2,13.

1 Canon Missae, Missale Romanum.

2 Canon Missae, Missale Romanum.

3 Cfr S. Tommaso, Summa Th., I-IIae, qu. 71-73, qu. 85-89.

4 Mt 6,10.

1 Cfr Rom 8,17.

2 Mt 5,3.

1 Cfr Mt 25,21.

2 Cfr Mt 25,34.

1 Gv 10,10.

1 Inno Secondi Vespri Comune della Beata Vergine Maria.

2 Preghiera “Atto di speranza”.

1 Mt 20,4.

2 Mt 20,4.

3 1 Cor 3,8.

4 Eb 12,2.

5 Cfr Mt 16,24; cfr Mc 8,34; cfr 9,23.

1 2 Cor 12,15.

1 S. Agostino, Confessioni, I, 1,1.