Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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26.
LA VIRTÙ DELLA PENITENZA

(PB 4, 1940, 180-185)

I.

1. Vi è una virtù naturale della penitenza ed una virtù soprannaturale.
La virtù naturale è quella disposizione dell'anima tendente a distruggere le cattive abitudini e ad elevare la vita. La penitenza, quasi «essere tenuto dalla pena», è una tristezza per il male che è nell'anima. Questo male spesso può essere rimosso, ed il rimedio dipende dalla nostra volontà. Dal male la mente umana naturalmente passa alla considerazione del bene opposto, ancorché appaia circondato da difficoltà, allora sorge facilmente nell'animo la speranza dell'emendazione. Sovente la volontà umana, sorretta dall'audacia, si propone di superare tutte le difficoltà, per essere liberata dal male presente e per poter conseguire il bene. Questa penitenza naturale suppone ed include tre atti: tristezza cioè del male presente, odio e vendetta contro le cause di questo male, speranza ed audacia di liberarsi da tale male.
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La penitenza come virtù soprannaturale è definita: virtù tendente alla distruzione del peccato, in quanto è offesa di Dio, mediante il dolore e la riparazione. L'ordine naturale è il fondamento dell'ordine soprannaturale, ed ancorché la virtù soprannaturale formalmente si distingua dalla naturale, tuttavia, materialmente richiede i medesimi atti dell'animo. Questa virtù venne raccomandata da Cristo Signore all'inizio della sua predicazione: «Diceva egli: Fate penitenza, perché il regno dei cieli è già vicino» (Mt 3,2); ed altrove viene detto: «Se voi non fate penitenza, perirete tutti nello stesso modo» (Lc 13,5).
La penitenza è virtù soprannaturale, ossia è un dono di Dio, perché, insegna il Tridentino, l'uomo senza la grazia di Dio non può pentirsi come deve (cf Sess. 6, canoni della giustificazione, can. 3). La penitenza è virtù che tende alla distruzione del peccato, sia mortale che veniale. Il peccato viene distrutto in quanto è offesa di Dio, perché la penitenza è la riparazione del diritto leso della divina maestà; perciò non rettamente si pente chi si addolora del suo peccato senza considerazione all'offesa arrecata a Dio. La distruzione del peccato si ottiene mediante il dolore e la soddisfazione, che ci ridanno la pace con Dio. Il dolore del peccato, unito al proposito di riparare e di non più peccare in avvenire, costituisce l'essenza stessa della penitenza: «O prevaricatori, tornate in voi» (Is 46,8). Non basta il semplice proposito di vivere meglio.
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2. La penitenza può tendere alla distruzione del peccato in due modi: a) Con un atto di dolore perfetto, che consiste nel detestare il peccato per un motivo di carità perfetta; b) Con un atto di dolore imperfetto, o attrizione, che consiste nel detestare il peccato per un motivo di ordine inferiore, ma sempre soprannaturale, per esempio il timore della pena eterna, o la bruttezza del peccato. Il dolore perfetto unito al proposito, almeno implicito, di ricevere il sacramento, cancella il peccato anche fuori della confessione sacramentale. Il dolore imperfetto invece cancella il peccato quando si riceve realmente il sacramento della penitenza.
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3. La penitenza, sia naturale che soprannaturale, riguarda tre tempi: il presente, il passato ed il futuro. Nel presente l'uomo odia la colpa attuale; riguardo al passato detesta la determinazione al peccato con le cause e le circostanze; riguardo al futuro propone di schivare i peccati e le occasioni, e di riparare agli scandali ed ai danni arrecati, e di dare alla giustizia divina una conveniente soddisfazione. Non è perciò soltanto una resipiscenza od un nuovo modo di vita. Diceva Giobbe: «Dunque ho enunziato senza discernimento... Per questo mi ritratto, e fo penitenza in polvere e cenere» (Gb 42,3.6); ed il Salmista: «Il mio sacrificio, o Dio, è uno spirito contrito; un cuor contrito ed affranto, o Dio, tu non spregi» (Sl 50,19); così Ezechiele: «Convertitevi, fate penitenza di tutte le vostre iniquità e l'iniquità non sarà più la vostra rovina. Gettate lungi da voi tutte le trasgressioni da voi commesse, e fatevi un cuor nuovo ed uno spirito nuovo» (Ez 18,30s.). Insegna il Tridentino che con la penitenza si possono cancellare tutti i peccati. S. Ambrogio dice: «Dio non fa nessuna distinzione; egli ha promesso a tutti la sua misericordia ed ha concesso ai suoi Sacerdoti il potere di perdonare, senza alcuna eccezione» (De poenitentia, 1. 1, c. 3, n. 10).
La virtù della penitenza soprannaturale deve essere impetrata con la preghiera: procede infatti da Dio come grazia attuale di illustrazione e di ispirazione; è soprannaturale per la materia perché si tratta di cosa che supera l'ordine naturale; è soprannaturale per il fine, giacché tende alla vita eterna. Spesso salga dal nostro cuore il sospiro: O Dio amatissimo, non permettere al peccatore di dannarsi! Preghiamo con la Chiesa: «Dal trascurare le tue ispirazioni, liberaci, o Gesù. Da ogni cattiva volontà, liberaci, o Gesù. Da ogni cecità e ostinazione di cuore, liberaci, o Gesù».
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II.

1. Rimane assioma di Dio altissimo che: «Il saggio è cauto e schiva il male; lo stolto trascorre e fa a fidanza» (Pv 14,16). Chi riesce a comprendere la malizia del 233 peccato? Il peccato è un mistero di iniquità. Ricordiamo le parole di S. Giovanni Crisostomo: «Una cosa sola è terribile; una cosa sola è orribile: questa cosa è il peccato!».
La sacra Scrittura ce lo insegna. La storia del primo uomo peccatore ce lo dimostra. Buonarroti, il sommo artista, ha reso con i colori, sulle pareti della cappella Sistina, l'effetto del peccato. Appena Adamo ed Eva violarono, nel paradiso terrestre, il comando di Dio, peccando gravemente, si accorsero «di essere nudi» (Gn 3, 7); «Ho avuto paura, perché sono nudo!» (Gn 3,10). Erano nudi perché privati dell'amore di Dio e della pace con Dio; erano nudi perché spogli della grazia santificante, che è il tesoro dell'anima; erano nudi di quei meriti che sono il pegno della vita eterna; erano nudi perché privati della bellezza dell'anima, che è l'immagine di Dio; erano nudi di ogni bene soprannaturale da Dio loro prima generosamente dato. Ecco un'efficace immagine del peccato!
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In Isaia Dio dice: «Tu m'hai affaticato con i tuoi peccati, mi hai dato pena colle tue iniquità» (Is 43,24). Nell'atto del peccato, si costringe, per modo di dire, Dio stesso ad essere presente con il suo concorso divino, dando egli le forze al corpo e all'anima che concorrono al peccato. Eli, sommo sacerdote degli ebrei, aveva novantotto anni quando Israele fu sconfitto in battaglia dai Filistei. Il vecchio stava seduto in attesa del messaggero che gli recasse notizie sull'andamento della battaglia. Il nunzio gli disse che Israele era stato sconfitto, ed Eli abbassò la testa. Poi il nunzio aggiunse che i suoi due figli Ofni e Finees erano morti in guerra, ed egli abbassò ancor più il capo. Infine gli annunziò che anche l'arca di Dio era stata conquistata dai nemici: il vecchio cadde dalla sedia all'indietro e, rottosi il collo, morì (cf lSm, c. 4).
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Il peccato è la vittoria del diavolo sull'anima; è la privazione dei meriti e del potere di meritare; è la morte dell'anima. Nel Vangelo di S. Giovanni, al capo 15, troviamo un'altra immagine del peccato: il Signore dice di essere lui la vite e noi i tralci: «Chi rimane in me ed io in lui, questi porta molto frutto... Se uno non rimane in me, è gettato via, come il sarmento, e si secca, poi vien raccolto e gettato nel fuoco a bruciare» (Gv 15, 5s.). È fatale perciò venire separati da Cristo che è la vite: si secca e si va a finire nell'inferno; secca colui che commette peccato grave. S. Paolo parlando agli Ebrei dei peccatori dice: «Di nuovo, quant'è da loro, crocifiggono ed espongono al ludibrio il Figlio di Dio» (Eb 6,6).
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2. I teologi ci parlano pure del peccato come del più grande male. Il dottore S. Bonaventura chiama il peccato infamia dell'anima: «L'anima diventa col peccato così miserabile e deforme, che Dio Padre non riconosce più in essa la sua immagine; che Cristo sposo la disprezza, che tutti gli angeli e santi la fuggono». S. Basilio chiama il peccato rapina dell'anima: «Il peccatore è simile ad un mercante, che ha guadagnato ingenti tesori e dopo essere sfuggito a tanti pericoli sia per terra che per mare, nell'approdare al porto della sua patria, fa naufragio e perde ogni cosa». S. Agostino chiama il peccato una fatale iattura: «Tu eri la sposa di Cristo, il santuario di Dio, la casa dello Spirito Santo. Ora però devo con dolore dire che tu non sei più ciò che eri».
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La voce del peccato: «Il peccato rende infelici i popoli» (Pv 14,34). Questa voce del peccato ci rintrona negli orecchi, e proviene dagli orrori e dalle guerre e da tutti i mali che di continuo siamo costretti a vedere. Ecco satana, del quale Cristo disse: «Vedevo satana precipitare dal cielo come folgore» (Lc l0,18): un solo peccato bastò per precipitare nell'inferno tanti spiriti. Ecco Giuda, del quale il Salvatore disse: «Guai a colui... Era meglio per lui che non fosse mai nato» (Mc 14,21). «Egli però colla mercede dell'iniquità, comprò un campo, ed impiccatosi, crepò nel mezzo, e si sparsero tutte le sue viscere» (At 1,18).
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La voce di Dio: «Stupitene, o cieli, fatene gran cordoglio, o porte del cielo... Hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si sono andati a scavare delle cisterne bucherellate, che non possono tenere le acque» (Gr 2,12s.). Non dimentichiamo mai le parole del Profeta: «O speranza d'Israele, o Signore, tutti quelli che t'abbandonano saran confusi, quelli che s'allontanano da te saranno scritti in terra; perché hanno abbandonato la sorgente delle acque vive, il Signore» (Gr 17,13). Terribile è l'indifferenza e l'assopimento nel peccato: «Va' a dire a questo popolo: Ascoltate e guardate di non capire... Acceca il cuore di questo popolo, rendi insensibili le sue orecchie, chiudigli gli occhi, affinché, coi suoi occhi, non vegga e, colle sue orecchie, non senta e non comprenda col suo cuore, e così non si converta e non lo risani» (Is 6,9s.).
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3. O santa ed indivisibile Trinità, accoglici, siamo peccatori, ma umiliati e contriti: abbiamo peccato molto in pensieri, parole ed azioni. Tu, nella tua grande misericordia, cancella ciò che insipientemente abbiamo fatto di male; non rigettare l'opera delle tue mani; ricordati che siamo polvere e soggetti alla legge del peccato. Guarda, o Dio Padre, nel volto del tuo Cristo, alle ferite delle sue mani, dei suoi piedi e del suo cuore; da' a noi lo spirito di penitenza, affinché meritiamo di piangere ogni giorno i peccati nostri, lavare con le lacrime i nostri delitti, e mediante la vera conversione ottenere qualche partecipazione e società con i santi e con i martiri.
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III.

1. Le opere di penitenza sono specialmente le seguenti:
a) Accettare di cuore e con gioia le pene che si incontrano nella vita di ogni giorno. Possiamo soddisfare per i nostri peccati tollerando davanti a Dio Padre, per Cristo Gesù, i flagelli temporali da Dio inflittici (cf Conc. Tridentino, sess. 14, cap. 9. - Denzinger n. 906). Se incorrono dolori fisici o pene morali, o ingiurie, o povertà, o persecuzione, o altre prove, offriamo le nostre sofferenze a Dio, persuasi che meriteremmo di essere castigati e di soffrire assai di più.
Davanti a Gesù crocifisso, consideriamo quali e quanti sono i dolori sopportati per noi dal Maestro divino.
Ricordiamo poi che due sono le vie che conducono al paradiso: la via dell'innocenza e la via della penitenza; e non avendo noi seguita la via dell'innocenza, procediamo almeno per quella della penitenza.
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b) Compiere i doveri del nostro stato, per amore di Dio. Infatti «l'obbedienza val di più dei sacrifizi» (1Sm 15,22). Da mane a sera, i nostri doveri sono resi pesanti dalla monotonia, dalla fatica, dalla noia; il farli ugualmente, per amore di Dio, purifica l'anima, secondo il detto: «I suoi numerosi peccati sono stati perdonati, perché essa ha amato molto» (Lc 7,47). Si ricordino le parole di S. Giovanni Berchmans: «La mia penitenza più grande è la vita comune» (TESTORE, La perfezione della virtù... [Alba-Roma, s. d.], p. 56). Questo si può applicare ai doveri quotidiani.
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c) Altre opere di penitenza sono raccomandate dalla sacra Scrittura: come il digiuno e l'elemosina. Riguardo al digiuno: «Affliggete le anime vostre» (Lv 16,29): sarà espiazione e purificazione dai peccati: «E ne sarete mondati davanti al Signore» (Lv 16,30). Il Signore nostro digiunò nel deserto quaranta giorni e quaranta notti, ed insegnò che: una certa «razza di demonii non si scaccia che per mezzo della preghiera e del digiuno» (Mt 17,21). Molti peccati si commettono nel soddisfare il nostro corpo, e perciò bisogna riparare con atti contrari; questa è la pratica dei santi. Riguardo all'elemosina, si legge in Daniele: «Redimi colle elemosine i tuoi peccati» (Dn 4,24). In Tobia: «Dei tuoi beni fa' l'elemosina... infatti l'elemosina libera da ogni peccato e dalla morte e non lascerà che l'anima cada nelle tenebre» (Tb 4,7.11). Questo può valere anche per l'elemosina spirituale: il predicare, il confessare, ecc.
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d) Si aggiungano le volontarie privazioni e mortificazioni. «Se uno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso» (Lc 9,23). Mortificate «le membra dell'uomo terreno» (Cl 3,5); «Se voi mediante lo spirito fate morire le opere del corpo, vivrete» (Rm 8,13); «Coloro che appartengono a Cristo, hanno crocifisso la carne con le sue passioni e le sue voglie» (Gt 5,24).
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2. Per tutti gli uomini che si sono macchiati di peccato mortale, la penitenza è assolutamente necessaria per ottenere la grazia e la giustizia, dice il Concilio di Trento (cf sess. 14, cap. 1. - Denzinger n. 894). E ciò per necessità di mezzo e per necessità di precetto. Per necessità di mezzo: siccome l'offesa del peccato mortale procede dall'allontanamento dell'uomo da Dio per la conversione a qualche bene naturale, la remissione richiede che la volontà si riconverta nuovamente verso Dio con la detestazione della trasgressione e col proposito di emendarsi. Per necessità di precetto: ognuno è tenuto a riparare all'ingiuria recata a Dio ed a ricercare la divina amicizia. S. Tommaso dice: «Secondo la stessa ragione naturale l'uomo è portato a pentirsi del male che ha fatto; che poi l'uomo faccia la penitenza in questo od in quell'altro modo, ciò dipende da divina disposizione» (Summa theologica, 3.a, q. 84, a. 7).
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3. Preghiera di S. Agostino, edita per ordine di Papa Urbano VIII: «Davanti ai tuoi occhi, o Signore, portiamo le nostre colpe, e raduniamo le nostre ferite ricevute. Se pensiamo al male fatto, è minore ciò che patiamo di ciò che meriteremmo. È più grave ciò che abbiamo commesso di quello che sopportiamo. Sentiamo la pena del peccato e tuttavia non deponiamo la pertinacia di peccare. Sotto i tuoi flagelli la nostra debolezza rimane triturata, ma la nostra malizia non si corregge. La mente con difficoltà è torturata, e la fronte non si abbassa. La vita nel dolore sospira, e non si emenda nell'operare. Se tu aspetti, non ci correggiamo; se tu castighi non sopportiamo. Quando siamo corretti confessiamo quello che abbiamo fatto; dopo la tua visita dimentichiamo ciò che abbiamo pianto. Se stendi la mano, promettiamo di fare; se rinfoderi la spada non manteniamo ciò che abbiamo promesso. Se ferisci, gridiamo perché ci risparmi; se hai avuto riguardo, nuovamente ti provochiamo perché ferisca. Abbi noi, o Signore, come rei confessi: conosciamo che se tu non ci perdoni, noi giustamente periremo. Da' a noi, o Padre onnipotente, senza nostro merito, ciò che chiediamo, tu che ci hai creati dal nulla, perché ti pregassimo. Per Cristo Signore nostro. Così sia».
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