Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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22.
LA PRUDENZA

(PB 3, 1939, 158-162)

I.

1. Quattro sono le virtù cardinali: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. Si legge nel libro della Sapienza: «Insegna la temperanza, la prudenza, la giustizia, la fortezza, delle quali nulla v'è di più utile per gli uomini nella vita» (Sp 8,7).
Tra le virtù cardinali, il primo posto è tenuto dalla prudenza. La prudenza viene definita dall'Angelico: «La retta guida dell'azione» (Summa, 2.a 2.ae, q. 47, a. 2). Essa è un atto dell'intelletto pratico che stabilisce con autorità che cosa debba farsi in un dato caso particolare. La prudenza è, secondo S. Bernardo, «la discrezione, od una certa moderazione e guida delle altre virtù... Se si toglie questa, la virtù diventa vizio». La prudenza regge le azioni umane particolari, le dirige tenendole nel mezzo tra la deficienza e l'esagerazione.
La prudenza è una rettitudine pratica, che fa come da lume indicatore nelle diverse azioni umane: «Or, tutti quelli che lo [Gesù] ascoltavano, rimanevano stupiti della sua intelligenza e delle sue risposte» (Lc 2,47). Davide agiva con prudenza, ed il Signore era con lui (cf 1Sm 18,14). La prudenza risiede nell'intelletto, ma è una virtù morale: infatti riguarda le opere, che dirige, ancorché non siano da essa elicite. La prudenza perciò è una virtù eminentemente pratica.
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Nella prudenza vi sono tre atti: 1) La prudenza considera bene ciò che si vuole fare, ossia con diligenza e senza precipitazione pensa e stabilisce quali siano i mezzi e le circostanze necessarie perché l'opera riesca onesta e virtuosa; 2) La prudenza giudica rettamente, ossia dopo una diligente deliberazione conclude con fermezza e determina quali mezzi tra quelli cercati e trovati siano veramente buoni e convenienti; 3) La prudenza comanda con efficacia muovendo le virtù morali ad eseguire quelle cose che con diligenza furono deliberate, e che con fermezza furono giudicate da farsi. Affinché questi tre atti siano retti, deve essere adoperata la diligenza conveniente, proporzionata alla gravità dell'opera e della deliberazione. Quando l'uomo ha messo una diligenza morale nel deliberare, anche se speculativamente sbaglia, il suo giudizio è tuttavia prudente; non pecca, ed il Signore guarderà alla buona volontà: «Diede Iddio a Salomone sapienza e intelligenza grandissima» (1Re 4,25); «Colla sapienza si edificherà la casa, e si renderà stabile colla prudenza» (Pv 24,3). La prudenza è perciò come il lume, e si compone di due fiammelle, ossia della ragione e della fede. La prudenza è come una piccola provvidenza che propostosi un fine, dispone i mezzi per raggiungerlo. Per mezzo di essa, il pastore che vuole salvare se stesso e le pecore a lui affidate, vede tutto sotto questo punto di vista, ed a questo ordina tutto: «Una sola cosa io chiedo al Signore e la richiederò: di abitare nella casa del Signore tutti i giorni di mia vita» (Sl 26,4).
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La prudenza del pastore è la salvezza del gregge. Il pastore deve avere perciò una duplice prudenza: una per se stesso, ed un'altra per il governo delle anime, considerate sia collettivamente e sia individualmente. Il pastore deve rettamente conoscere gli ostacoli da togliere, i mezzi utili ed opportuni da scegliere, le persone, le condizioni di indole, carattere, sesso, età, circostanze svariate, difficoltà, stati psicologici, e simili. Senza prudenza la scienza diventa inutile, anzi, qualche volta, anche pericolosa: «Un principe senza prudenza opprimerà molti con violenze» (Pv 28,16). Facilmente infatti imporrà oneri impossibili, trascurerà le cose necessarie od agirà a sproposito.
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2. Le doti della prudenza, secondo S. Tommaso (Summa, 2.a 2.ae, q. 48, articolo unico) sono: 1) la memoria, ossia il ricordo del passato; l'esperienza è infatti la maestra della vita; 2) l'intelligenza, ossia la conoscenza completa della cosa che si sta per fare, e dei princìpi morali coi quali prudentemente si deve giudicare; 3) la previdenza, che vede lontano, e prevedendo il fine dell'azione ne considera i futuri effetti; 4) la solerzia, che è la pronta e spedita scelta dei mezzi al fine; 5) la docilità, ossia la prontezza d'animo a richiedere i consigli degli altri, e ad accettarli; 6) la ragione, ossia una certa prontezza al ragionamento e la facilità a formulare deduzioni; 7) la circospezione, ossia l'attenzione alle varie circostanze dell'azione, affinché non manchi nulla delle cose richieste; 8) la cautela, ossia la cura di evitare i mali e gli impedimenti, che possono dall'esterno danneggiare od impedire l'atto virtuoso.
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3. Due sono le specie della prudenza, ossia: 1) la prudenza personale, per mezzo della quale l'uomo governa se stesso; questa soltanto semplicemente ed in modo assoluto, si può chiamare prudenza; 2) la prudenza di governo, mediante la quale l'uomo regge gli altri uomini. Questa è molteplice, ossia domestica, civile, pastorale, militare, ecc. (cf Summa, 2.a 2.ae, q. 50). Non è semplicemente prudenza, perché non sempre rende migliore colui che la possiede. Non si può poi d'altronde negare che vi furono spesso uomini retti e perfetti in ogni virtù, ma che non ebbero la perfezione nella prudenza di governo.
Le virtù che accompagnano la prudenza e delle quali essa si serve sono tre: 1) l'eubolia, che è l'abito virtuoso di rettamente consigliarsi, ossia di trovare un buon consiglio nelle cose dubbie; 2) la sinesi, ossia l'abitudine di giudicare rettamente i consigli ricevuti. Gli uomini che possiedono questa virtù sono detti uomini di buon senso; 3) la gnome, ossia l'abitudine di giudicare rettamente, quando è necessario, da princìpi più alti e superiori alla comune regola dell'agire, secondo la mente però del legislatore. L'atto di questa virtù che ha riscontro nella volontà, vien detto epicheia (cf Summa, 2.a 2.ae, q. 51).
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II.

1. Gesù prega il Padre: «Non chiedo che tu li [gli apostoli] tolga dal mondo, ma che tu li guardi dal male» (Gv 17,15). Già aveva detto: «Tutto il mondo è in balia del maligno» (1Gv 5,19). Bisogna distinguere tra occasione prossima ed occasione remota di peccare. L'occasione prossima, volontaria e libera, deve essere assolutamente evitata; mettersi in essa equivale difatti disporsi al peccato. L'occasione invece prossima e necessaria, deve essere resa remota mediante la vigilanza e la preghiera. È necessario che il Sacerdote osservi quelle leggi ecclesiastiche che obbligano, per la presunzione del pericolo, ad evitare date occasioni. Il Sacerdote deve, per la dignità del suo stato e per l'onore del suo ufficio, evitare ogni apparenza di male; e molto più diligentemente dei laici.
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2. Vi sono i pericoli costituiti sia dalle persone, come dai luoghi e dalle cose mondane. a) Dalle persone. Un pericolo è la donna: «Il vino e le donne fanno apostatare i sapienti» (El 19,2 Vg), e l'esempio classico lo abbiamo in Salomone. «È meglio il male da un uomo che i benefizi da una donna» (El 42,14); la donna chiede affetto ed assoggetta l'uomo: «Per la bellezza della donna molti andarono in perdizione» (El 9,9). Perciò S. Girolamo prescrive a Nepoziano: «Mai, o ben di rado, i piedi di una donna calpestino il pavimento della tua cameretta... Non fare soggiorno sotto lo stesso tetto: non fare affidamento sulla castità della vita passata. Non puoi essere né più santo di Davide, né più forte di Sansone, né più sapiente di Salomone» (Ep. ad Nepotianum. - ML 22,531s.). Si abbiano pure presenti le prescrizioni dei canoni 132 e 133 del CJC.
Altro pericolo, e forse anche motivo di scandalo, è la familiarità e la frequente relazione con persone secolari che combattono la Chiesa, o sono pubblici peccatori.
Il CJC proibisce al Sacerdote di esercitare la medicina, l'ufficio di notaio, di amministratore di imprese laiche, la gestione di beni, l'ufficio di senatore e di deputato (cf can. 139). Similmente è proibito ai chierici e ai Sacerdoti di negoziare e di mercanteggiare, sia personalmente, sia a mezzo di altri (cf canoni 142 e 2380).
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b) Dai luoghi. Il CJC prescrive ai Sacerdoti: «Di non presenziare agli spettacoli, ai balli, ai cortei per loro sconvenienti, od a quelli ai quali la loro presenza può produrre scandalo, e specialmente di non andare nei pubblici teatri» (can. 140); «Di astenersi da tutto ciò che è di disdoro allo stato sacerdotale, specialmente di non esercitare un'arte indecorosa; di non partecipare ai giuochi aleatorii nei quali è in pallio una somma di denaro; di non portare armi se non in caso di un pericolo; di non andare a caccia, e di non partecipare mai alla caccia rumorosa; di non entrare nelle bettole o luoghi simili senza necessità e senza una giusta causa approvata dall'Ordinario del luogo» (can. 138).
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c) Dalle cose. Il Sacerdote non può guardare figure o statue illecite, neppure sotto il pretesto dell'arte; non può leggere giornali immorali o proibiti dall'autorità ecclesiastica, neppure sotto la speciosa scusa di essere informato sulle notizie; non può, sotto la scusa di curarsi la salute, indulgere ad ornamenti secolari. Devono essere osservate le regole della prudenza anche nell'uso della radiofonia, della televisione e del cinema, nella distribuzione del tempo, nell'abbonamento ai giornali e nella lettura dei libri. Spesso sono inquinati da teosofismo, da pancristianesimo, da protestantesimo o da falso pietismo, oltre a tutti i pericoli morali. Sommamente eviti il Sacerdote la lettura dei romanzi, se non ne è altrimenti costretto da necessità di ministero.
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3. Il Sacerdote eviti quei pericoli che si trovano nel suo stesso ministero. Anche questi pericoli possono essere costituiti dalle persone, dai luoghi e dalle cose.
a) Dalle persone. Guardarsi da quelle donne che, per motivo o pretesto di pietà, frequentano troppo la canonica, e il confessionale: usare una prudente carità; nessuna familiarità né con parole, né con atti, né con lettere. Con la donna discorso breve e sostenuto. Il Sacerdote eviti la relazione con donne per motivi di scuola, per rappresentazioni teatrali, per il canto sia pure sacro. Le eccezioni a queste regole devono essere consigliate dal Vescovo. Con le suore vi sia la dovuta riverenza, ma nessuna familiarità. Con i bambini vi sia una pia paternità, ma anche la conveniente dignità.
b) Dai luoghi. Con prudenza siano fatte le visite alle case, specialmente a quelle delle penitenti o delle pie donne: si sia attenti all'ora, alla frequenza ed alla durata di queste visite. Non si accettino facilmente gli inviti a pranzo od a bicchierate dei laici. Si richiede il permesso della Santa Sede perché un Sacerdote possa frequentare accademie ed università pubbliche.
c) Dalle cose. Il Sacerdote non può, senza il consenso dell'Ordinario del luogo, farsi avallo, neppure coi beni proprii (cf CJC. can. 137). Similmente si astenga dall'amministrazione, dalla negoziazione, e dall'industria propria dei laici, e tanto più eviti le così dette speculazioni di borsa.
Il Sacerdote eviti pure le occasioni più intime di male. La sua casa sia santuario di virtù; non vi sia nulla di mondano in essa, ma decoro, carità ed ordine conveniente. Si tenga pure presente la prescrizione del can. 136 del CJC.
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III.

1. Dice il Signore: «Siate adunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10,16). La prudenza dipende molto dalle altre virtù; infatti le virtù, da un lato, moderano le passioni, affinché la ragione non venga turbata dai proprii interessi o dalla passione; d'altro lato, le virtù dispongono il cuore dell'uomo al bene, allo zelo, all'umiltà. Ciascuno giudica infatti gli altri secondo se stesso: «In quella guisa che la cosa ci è nel cuore, così per lo più ne giudichiamo» (Della Imitazione di Cristo, lib. 1, c. 14, 1).
Possono avere perfetta prudenza soltanto gli uomini probi, che sono guida, in ogni cosa, ai loro sentimenti e alla loro volontà. Gli uomini viziosi non hanno alcuna prudenza, od hanno una prudenza molto imperfetta. La luce della verità sarà nascosta ad essi; possono giudicare di qualche bene particolare, ma non sono capaci ad ordinare tutta la loro vita al fine ultimo. Anche se in teoria vogliono salvare la loro anima, in pratica non sanno né eleggere né adoperare i mezzi efficaci a tale fine.
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2. Alla prudenza si oppongono i vizi seguenti: la precipitazione, con la quale si intraprende qualche opera senza la sufficiente deliberazione; l'inconsiderazione, che impedisce il retto giudizio per l'elezione dei mezzi al fine, l'incostanza della mente, per cui l'uomo, senza motivo, muta spesso parere; la negligenza nell'esecuzione ed applicazione dei propositi. Qualche volta l'imprudenza non è colpevole; altre volte invece si disprezzano e rigettano i consigli della prudenza ed allora vi è colpa.
Vi è pure una prudenza di falso nome, come la così detta prudenza della carne e l'astuzia. «Le tendenze della carne portano a morte» (Rm 8,6), perché fanno escogitare i mezzi per agire male, o portano l'eccessiva sollecitudine delle cose temporali, od il desiderio delle cose illecite, o la superbia di vita.
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3. Al pastore si addice la preghiera di Salomone: «Orbene, Signore Iddio mio, tu hai fatto re il tuo servo al posto di Davide mio padre. Ma io sono piccol giovane, che non so né entrare né uscire... Da' quindi al tuo servo una mente docile a governare il tuo popolo, a discernere il buono dal cattivo; altrimenti chi potrebbe governare questo tuo popolo così numeroso? Piacque a Dio il fatto, che Salomone avesse domandato tal cosa; e perciò dissegli Iddio: A cagione che tu hai chiesto tal cosa, e non hai chiesto per te vita lunga né ricchezze né la morte de' tuoi nemici, ma solo di saper intendere il diritto; ecco faccio come dicesti; ecco ti dò una mente saggia e perspicace...» (1Re 3,7.9-12).
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