Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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25. VITA COMUNE E COSCIENZA SOCIALE *


Il mese di novembre è uno dei mesi più favorevoli al raccoglimento. Che cosa significa raccoglimento? Significa unire le nostre forze, le nostre facoltà; unirle per compiere i nostri doveri, e cioè per la pietà e per lo studio, per l’apostolato e per la parte che riguarda la povertà. Raccoglimento è l’opposto di sparpagliamento o spargimento.
Tanti fili d’oro sparsi non possono costituire una grande forza. Se questi fili d’oro si uniscono e formano una fune, questa fune sarà molto robusta, avrà una grande forza. Raccoglimento significa mettere la mente in quello che dobbiamo fare, metterci il cuore, metterci la volontà, metterci le forze fisiche. Mettere insomma tutti i mezzi anche esterni, anche l’utilizzazione degli spazi, tutto, per il fine di servire, cioè di camminare e procedere sulle nostre quattro ruote che sono la pietà, lo studio, l’apostolato e la povertà, la buona educazione, l’ordine1. Raccogliere le nostre forze. Quante forze vanno perdute! Al giorno del giudizio avremo forse una sorpresa nel vedere quante grazie non abbiamo accolto e a quante grazie non corrispondemmo. Il vivere raccolti porta a utilizzare tutti i mezzi e tutte le grazie della nostra vocazione2 di santificazione nostra e di apostolato.
Questa mattina conviene fermarci sopra un punto. Il raccoglimento ci aiuterà a capire. Nel primo articolo delle Costituzioni si dice che la Congregazione è stata istituita per la gloria
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di Dio e per la perfezione dei membri3; perfezione che significa santificazione mediante l’osservanza dei voti di povertà, castità e obbedienza e mediante la vita comune.
Qualche tempo fa è uscito sulla circolare interna un articolo per la formazione di una coscienza sociale4. Questo, portato nella vita religiosa, significa: per la formazione della coscienza comune, della coscienza della società. Che cosa è la Congregazione? È la Società delle Figlie di San Paolo. Ora, questa vita comune che cosa significa? Significa pratica della carità, in altre parole. E chi contribuisce a una buona vita comune, a una vita comune lieta, progressiva, santa, di osservanza e di apostolato, ha un gran merito. Chi invece rompe, infrange la vita comune, porta la disunione con le parole o con le opere, offende la carità.
Leggevamo nel Breviario in questi giorni che gli eretici si vantano di praticare la carità, mentre se avessero la carità non strapperebbero la veste inconsutile della Chiesa con la disunione5. È ciò che si vede in grande nel mondo: la disunione dei cristiani (quanti eretici e scismatici!) e la disunione dei cattolici che in tante opere riuscirebbero bene se fossero uniti nelle forze che possiedono. I cattolici da soli sarebbero una grande potenza, ma la divisione li rende deboli davanti ai nemici, i quali si trovano sempre uniti o almeno si trovano sempre uniti contro Cristo e la sua Chiesa.
Ciò che capita nel mondo cristiano capita anche nelle comunità religiose dove la infrazione della vita comune e la rottura della carità porta tanti indebolimenti e impedisce tanto progresso alla comunità.
Che cosa abbraccia allora, che cosa significa la vita comune? Significa: unità di pensiero, unità di opere, indirizzo unico nel parlare, unità di sentimenti, unità di fine. Tutte devono contribuire al fine principale e al fine secondario: la santificazione personale e l’apostolato. Tutte! Nessuna si metta da parte, nessuna stia a guardare le altre, non vi sia nessuna che non possa
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adoperarsi per quel che è capace di fare. Se il carro deve andare avanti bisogna che tutte spingano: e chi avrà più forza spingerà di più e chi avrà meno forza spingerà di meno, ma tutte devono spingere, nessuna stia a guardare e a giudicare, tutte a tirare, tutte a spingere; sì, tutte a spingere con tutta la forza che si ha.
Ogni parola di critica divide e indebolisce; ogni parola invece d’incoraggiamento, ispirata alla carità, unisce e fa camminare verso la perfezione e verso il buon risultato nell’apostolato.
Vita comune di pensiero. Non stare in Congregazione solo con il corpo. Non dire che facciamo la vita comune perché abbiamo la medesima casa. Anche gli alberghi ospitano tanti avventori, ma là non c’è la vita comune; ogni avventore va per rifocillarsi, per riposarsi e non si occupa di coloro che abitano nelle altre camere, non pensa ai problemi che hanno le altre persone, gli altri avventori.
Non basta abitare la medesima casa, non basta che si mangi la stessa minestra, ma occorre avere in testa il medesimo pensiero: santificazione e apostolato generoso, che sono i due fini per cui ci siamo uniti. «Ad quid venisti?»6. A giudicare? A vedere cosa fanno le altre? No, a tirare, a spingere; e chi avrà più salute tirerà e chi avrà meno salute spingerà e il carro si muoverà sulle quattro ruote e andremo tutti avanti.
Chi pensa diversamente dall’indirizzo dato, chi giudica e parla contrariamente a quanto è stabilito, non si accorge che oltre a non lavorare lui e a non santificarsi, porta ancora un indebolimento e tiene indietro la Congregazione, e mentre dice che si potrebbe far meglio, rovina, fa peggio e fa camminare male il carro, il quale forse scricchiola, forse va sui margini della strada. Unità di pensiero e di aspirazioni. Sono venuto per farmi santo; sono venuto e ho abbracciato questo apostolato.
La vita comune è proprio il grande sacrificio. Ci possono essere delle persone che fanno i voti nel mondo e tendono alla perfezione. Ma noi non dobbiamo tendere alla perfezione in qualunque opera buona e in qualunque maniera di nostra elezione,
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la elezione la facciamo nella professione quando diciamo: «secondo le presenti Costituzioni», e tutti ci uniamo per camminare in quella medesima maniera. Perciò la santificazione si ha mediante i voti, osservati però nella vita comune, che significa appunto unione, che significa carità più distinta, più alta. Quelle figlie che promuovono questa vita comune, questa unità di pensiero, di sentimento, di indirizzo, di aspirazioni, esercitano il fiore della carità. Vi è la carità che si esercita fra i cristiani, ma noi dobbiamo avere una carità che è il fiore, come il voto di castità è il fiore della purezza, come l’obbedienza perfetta è il fiore dell’obbedienza e come la povertà religiosa è il fiore della povertà. Noi perderemmo ciò che è il fiore della vita religiosa se non abbracciassimo la carità, se non facessimo progredire questa unità di pensiero e di opere.
Questa unione e questa vita comune comporta di parlare sempre in bene. Parlare in bene delle Costituzioni, parlare in bene dei superiori, parlare in bene di quello che è disposto, parlare in bene delle iniziative, parlare in bene di tutte le sorelle. Via ogni invidia, ogni gelosia, ogni rancore: sono tutte divisioni, tutte cose suggerite dal nemico della santità che è il demonio. La carità unisce i cuori, unisce le anime tra loro e con Dio. Questi sentimenti contrari che alle volte si vanno propagando dall’una all’altra sono disorientamenti, disunioni. Abbiamo un bel fare propositi, fare dei tentativi di fare bene e di santificarci: se non li uniamo nella carità, non entriamo nello spirito di Gesù Cristo. Che cos’è che rimane in eterno? Non rimarrà in eterno né la fede, né la speranza, né la povertà: «Rimarrà in eterno solo la carità: Caritas manet in aeternum»7. Sola regnet caritas8. Per prepararci al cielo, ci vuole questa carità.
E d’altra parte, il proposito sulla fede va bene, il proposito sulla confidenza va bene, ma ottimo il proposito sulla carità. Carità prima verso Dio, ma non si può amare Dio se non si amano le sorelle, se non si ama il prossimo. Amando il prossimo noi amiamo Dio, anzi questo è segno di perfezione, di santità:
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«Quoniam diligimus fratres, dice la Scrittura, noi siamo santi perché amiamo i fratelli»9.
Amarsi interiormente. Ho detto che questa carità interiore prima si manifesta nelle parole; sì, ha questa manifestazione esterna: parlate bene di tutto quel che vi riguarda. Lo sparlare della comunità, delle opere o delle sorelle, che cosa vuol dire? Odio a noi stessi […]10. Non siamo noi della comunità? Ma c’è questo e quello... Ma se non ti piace, c’è la porta aperta, a un certo punto. Se proprio stai lì per forza e sei contro tutti, la porta è aperta.
Questa unione si manifesta poi nelle opere. Tutte pronte a fare quello che è disposto. Che la Prima Maestra abbia in mano tutti i fili d’oro che siete voi; che possa unirli: tu fai questa parte, tu fai quell’altra. Siete tutte fili d’oro; unite fate una grande fune, una fune d’oro che vi unisce tra voi e vi unisce a Dio. Mettete tutte le forze. Chi ha la capacità di dieci, chi ha la capacità di otto, chi ha la capacità di sei, chi ha la capacità di due e chi ha la capacità di uno: tutto quello che abbiamo, bisogna che lo mettiamo con umiltà, con costanza, con dedizione. Questo non significa solo obbedire a certi campanelli e a certi segni, ma obbedire a tutti; questo significa non andare in certi posti, ma dove si è mandati; questo significa non solamente dare dei consigli, ma prenderli; non solamente dire, ma fare. Ognuno, ho detto, secondo le proprie forze. Mettiamo tutto in società. Questo è il concetto di società: tanti che mettono insieme le forze sotto una direzione che è rappresentata dall’autorità per il fine che consiste nella santificazione con l’apostolato. Altrimenti non si forma un corpo sociale.
Ho detto: con tutte le forze, perché, per esempio, chi può insegnare, insegni bene secondo l’indirizzo dato. Noi non abbiamo bisogno di leggere molto, ma di leggere quello che ci è utile, e quel che ci è utile approfondirlo. Poi chi è capace a scrivere, scriva e metta le sue energie lì. E benediciamo il Signore che ha dato alla Congregazione la casa delle scrittrici11,
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che è la principale casa dopo la Casa generalizia. Chi è capace a fare il cinema, faccia il cinema con diligenza. Chi è capace a lavorare in tipografia, lavori nell’apostolato tecnico con diligenza e sempre migliorando i mezzi, come è sempre da migliorare la redazione. Chi è capace a fare altri lavori, li faccia; metta al servizio di Dio tutte le forze.
Facendo un lavoro, non si faccia coi piedi, ma con la testa, con l’intelligenza perché il lavoro riesca nel miglior modo possibile; metterci tutte le cure, amarlo e adoperare le forze che abbiamo. Ma io ho poca forza... sono infermo... E l’infermo non può far nulla? Quante inferme fanno tante cose. Le sante suore di cui leggiamo la vita, anche inferme quante cose facevano! E se anche non potessimo più far niente, possiamo fare di più di chi va in propaganda: offrire al Signore le nostre sofferenze o interne o esterne o fisiche o morali per la gloria di Dio, per la Chiesa, per la Congregazione, perché l’apostolato abbia frutto, per le anime. La sofferenza venga cambiata in apostolato. Il detto è chiaro: primo, la preghiera; secondo, il lavoro; terzo, più perfetto [è] l’apostolato della sofferenza: perciò apostolato della preghiera, apostolato dell’azione che comprende anche l’edizione, quindi l’apostolato della sofferenza; poi fare il più: utilizziamo le nostre forze. Quante volte si spaccano le pietre e si riducono a pezzetti, perché, ridotte a pezzetti e mescolate col cemento formino la base, il fondamento delle case. Così è la sofferenza cambiata in apostolato. Allora si sente che anche in un letto si opera largamente, si opera nel cuore della Chiesa, nel cuore della Congregazione.
Guardiamo ora quali sarebbero i nemici della Congregazione: chi porta lo scoraggiamento o un po’ di disunione, chi giudica male, chi rompe la carità con le sorelle. È vero che ai nostri giorni capita che molte persone non sono socievoli, non hanno un carattere felice, per cui nella Congregazione non potrebbero stare, ma una volta che ci sono bisogna che correggano il loro
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carattere, moderino le loro vedute, mettano le loro forze non a giudicare ma a fare.
Le persone che oggi sono un po’ malate di malattie fisico-psichiche, un po’ strane, un po’ attaccate a certe vedute, ecc., sono numerose. Se non fossero professe si potrebbe dire: Non andate avanti, ma se sono professe, pensino che il lavoro spirituale che devono fare è questo: dominarsi. Molte volte queste cose vengono per eredità dalla famiglia. Quando in una casa vi è una persona simile, bisogna esercitare tanta pazienza. La pazienza fa santi, però non dobbiamo farla esercitare agli altri; se vogliamo che ci faccia santi, bisogna che la esercitiamo noi. Quanto più la comunità è grande, tanto più vi è bisogno e continua necessità di esercitare la carità. Quindi avere la pazienza da una parte e, dall’altra, chi si accorge di avere quel certo carattere, veda di dominarsi, di vincersi e faccia il proposito su questo punto.
Nell’esame di coscienza richiamiamo questo: Io ho veramente lo spirito sociale? Pratico cioè quello che ho promesso davanti all’altare: vivere secondo le Costituzioni? Farmi santa mediante i tre voti nella vita comune? Ho capito che la vita comune è il sacrificio, è l’olocausto che dobbiamo offrire al Signore? Certamente la vita comune richiede un continuo rinnegamento, perché noi abbiamo le nostre preferenze, i nostri gusti. La vita comune invece ci determina tutto quello che dobbiamo fare. Se fossi in famiglia, pur essendo una buona figliuola, se non ti piacciono i cavoli, fai un’altra verdura, fai gli spinaci, ma nella comunità bisogna fare come è disposto. Quello che si dice della cucina, si dice dell’apostolato, si dice degli impegni che ognuna ha, si dice del modo di parlare.
Poi esaminiamoci se siamo sempre pronte ad aiutare non questa o quell’altra persona che è simpatica, ma tutte indistintamente. Soprattutto questo: aiutiamo veramente la Congregazione o siamo di peso? Nessuna che metta in comunità tutte le forze è di peso. Chi ha dieci e dà dieci, e chi ha uno e dà uno, se lo dà con amore ha lo stesso merito, perché il Signore non ci premia secondo la magnificenza delle nostre opere esteriori che possono essere: adoperare il pennello e la penna, adoperare la scopa e lo straccio, ci premia secondo l’impegno che mettiamo. Due scolare hanno diversa capacità: una ha dieci e dà dieci e
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una ha sei e dà sei: hanno lo stesso premio davanti a Dio. I voti davanti agli uomini sono quello che sono; la terra è brutta e non premia sempre la virtù; gli uomini premiano e lodano quello che fa loro impressione, il risultato che si vede, ma vi sono dei risultati che Dio solo vede e sono quelli che peseranno sulla bilancia nel giorno del giudizio. Perciò coraggio, fede e avanti.
Non facciamoci troppo malati quando possiamo superare certe indisposizioni. Quando si è veramente malati c’è l’obbligo di curarsi, ma se guardiamo tutte le piccole infermità, tutti i piccoli inconvenienti, diventiamo sempre più deboli e per curarci ci indeboliamo. E poi molte cose sono da sopportarsi. Crediamo che la terra sia già il cielo? Lassù «neque dolor, neque luctus: non c’è né dolore, né lutto»12, ma sulla terra, sì.
Su questo punto è tanto utile ricordare che col nome di sofferenza non s’intende solo il dolore, ma anche la fatica: dolore e fatica, perché il lavorare nell’apostolato, certe fatiche della propaganda, del lavoro tecnico e del lavoro di redazione sono penitenza e pena più grande che certi mali che magari fanno stare a letto. Lavoro e fatica sono pena del peccato e nello stesso tempo sono mezzo di redenzione. Possiamo cambiare tutto in apostolato di sofferenza oltre che in apostolato di azione e guadagnare doppi meriti. Lavoro in latino si dice labor e significa tanto sofferenza quanto fatica; vuol dire che fatica e sofferenza si possono cambiare in mezzo di merito e di salvezza.
Allora facciamo una buona risoluzione davanti alla nostra Madre, Maestra e Regina Maria: Voglio osservare la vita comune, voglio contribuire alla vita comune, voglio mettere a servizio della Congregazione tutte le energie.
Al giudizio conteranno non le parole e i giudizi dati fuori tempo, ma i fatti: «Unusquisque mercedem accipiet secundum suum laborem»13. Tante volte metà parole e doppio di opere porterebbero più pace, darebbero più gloria a Dio, santificherebbero di più le anime e porterebbero più frutti di apostolato.
Il Signore quindi benedica i cuori; perché si uniscano e si fondino nella vita religiosa, nella comunità.
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* Meditazione tenuta a Roma il 7 novembre 1954, stampata in Prediche del Rev. Primo Maestro, Marzo – Dicembre 1954, Roma 1957, pp. 96-106, che assumiamo come originale. Esiste anche la trascrizione: A6/an 6b = ac 11b, con il titolo“La vita comune: avere una coscienza sociale”, con data 10 novembre. Tra lo stampato e la trascrizione ci sono piccole varianti che non toccano il contenuto. Queste pagine costituiscono come un commento degli artt. 163-175 delle Costituzioni delle Figlie di San Paolo (1953), e ribadiscono il pensiero di Don Alberione espresso più volte nella predicazione di questo tempo, sull’importanza specifica che hanno per lo spirito delle Figlie di San Paolo.

1 Cf AD 100.

2 Originale: missione.

3 Cf Costituzioni delle Figlie di San Paolo, ed. 1953, art. 1.

4 Cf Regina Apostolorum, Circolare interna delle Figlie di S. Paolo, 11(1953)1-7.

5 Cf Breviarium Romanum, pars autumnalis, 8 novembre, Ottava di Tutti i Santi, Lectio VIII.

6 Cf Mt 26,50. S. Bernardo utilizza questa espressione rivolta da Gesù a Giuda: «Che sei venuto a fare?» (Volgata), per invitare i religiosi a una revisione delle proprie intenzioni; cf Serm. 76, 10 su il Cantico dei Cantici, SBO, II, 260.

7 1Cor 13,8.

8 «Regni sola la carità», inno Egregie Doctor Paule. Cf Le preghiere della Famiglia Paolina, ed. 1960, pp. 375-376.

9 1Gv 3,14.

10 Originale: Odio a noi stessi! San Paolo, parlando di altro argomento, dice: Odiar la propria carne, odiar noi stessi.

11 Il Primo Maestro fa riferimento alla casa di Grottaferrata acquistata fin dal 1943 e destinata a diventare la casa delle scrittrici. Tuttavia fino al 1949 servì come luogo di convalescenza e per tre anni ospitò anche un gruppo di novizie. Il Primo Maestro non rinunciò mai a volerla come casa per la redazione. Nel 1952 vi furono mandate le studenti del corso di teologia insieme ad alcune incaricate del settore della catechesi. Così la casa cominciò ad acquistare la propria fisionomia.

12 Cf Ap 21,4.

13 Cf 1Cor 3,8: «Ognuno riceverà la sua mercede secondo il proprio lavoro».