Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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II
UNIONE NELLA VITA COMUNE1


Siete già arrivate ad un certo punto degli Esercizi spirituali. La prima parte degli Esercizi spirituali è per illuminare la mente sulle verità fondamentali, quelle che in generale sono riassunte nel Credo. La seconda parte è per vedere i comandamenti, le virtù, i consigli evangelici, parlando a religiose. E la terza parte la pietà, la preghiera, l’unione con Dio, specialmente la preghiera liturgica e poi la preghiera personale, in generale.
In questi giorni certamente avete trovato qualche cosa da togliere dalla vostra vita e qualche cosa da mettere. Se sono ben fatti gli Esercizi, troveremo sempre qualche cosa che non va ancora, che è da perfezionare, e troveremo sempre qualcosa che possiamo aggiungere a quello che già si faceva di bene.
E allora, se facendo gli esami di coscienza troviamo, nella nostra vita e nell’anno spirituale che è finito, molte grazie da Dio e qualche progresso, allora lodare il Signore, offrirlo al Signore, alla sua maggior gloria. E confermiamo quello che va già bene. Vi può essere qualche cosa di male, e quello è da detestare e quindi da correggere assolutamente. E vi può essere qualcosa che invece è sostanzialmente buono, ma ancora si può migliorare. Ecco allora che noi faremo, su questo che è da perfezionare, i nostri propositi per cominciare un altro anno di spiritualità, anno che corre tra gli Esercizi spirituali attuali e i prossimi Esercizi spirituali.
Sebbene abbiate già fatto buona parte di questo lavoro, penso di aiutare un poco riflettendo su quattro punti. Primo: siete suore, anime consacrate a Dio, e non in qualunque modo, ma nella vita comune, distinguendovi dagli Istituti Secolari, i
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quali riducono la loro vita comune al minimo. Secondo: riflettere che si è Paoline. Non soltanto suore, ma Paoline, quindi con Costituzioni proprie e spirito proprio. Terzo: siete in una casa determinata, la quale ha un fine che si deve raggiungere. Può essere una casa in cui c’è soltanto la propaganda, o un’altra che ha la libreria e il cinema. Ogni casa ha una propria destinazione, come questa dove attualmente siamo2. Ognuna ha poi il proprio ufficio. Quarto: in questa casa fare la nostra parte, fare la volontà di Dio particolarmente per ciascuna.
Quattro cose dunque. Primo, si è suore, cioè anime consacrate a Dio, se considerate il vostro stato attuale. Il che significa che un giorno, mentre si era in famiglia, si è sentita la voce di Dio. Già si era buone figliuole, si conduceva una buona vita cristiana, ma la voce di Dio chiamava a una maggior perfezione: «Se vuoi essere perfetto»3. E nel vostro slancio giovanile, nella vostra pietà, avete risposto sì all’invito di Dio.
Fino lì c’era l’osservanza dei comandamenti. Entrando poi, per invito di Dio nella Congregazione, che cosa si aggiunge alla buona vita cristiana antecedente? Si aggiungono in primo luogo i voti, e in secondo luogo la vita comune. Se prima si osservavano i comandamenti, ora anche i voti. Se prima si pregava e si aveva quella pietà che avete appreso in famiglia e nella parrocchia, poi bisogna prendere la pietà dell’Istituto. Non si può pensare così: Io porto la mia personalità nell’Istituto, vivo la mia personalità. Nessuno può portare la sua personalità e fare i voti.
Si portano nell’Istituto non la personalità, ma le doti, ossia le qualità di salute per attendere agli apostolati, di intelligenza per far bene gli apostolati, l’inclinazione alla pietà per prendere la pietà che c’è nell’Istituto. E così si porta nell’Istituto quel complesso di energie, di spirito d’iniziativa che si aveva prima. Con il voto di obbedienza tutte le qualità che si aveva-
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no non si distruggono, ma si incanalano, non nella personalità antecedente, ma nella vita comune. E come si dà al Signore il corpo per il voto di castità, così si dà al Signore la volontà per il voto di obbedienza. Si dà al Signore quello che potremo produrre con il nostro lavoro. Si portano alla Congregazione e si consegnano la qualità e l’abilità di amministrare, e si prende quel modo di praticare la povertà e di amministrare i beni della Congregazione nella Congregazione.
Ecco: Ma io ho la mia personalità. La personalità sì, ma religiosa, paolina praticata in quella casa, in quegli uffici dove ognuna sta, e in quel determinato lavoro che le è affidato. Distinguere bene. La personalità \di prima/ non si porta nella vita comune, se ne porta un’altra che è in Cristo, che è la personalità religiosa, che è più sublime.
Come si lascia la famiglia, e non si tende a formarne una, per acquistare una famiglia spirituale più larga, così è per acquistare una personalità più alta. Questo è il distacco che dobbiamo fare, la separazione, la rinuncia propria che dobbiamo fare noi. Perché, quando la giovane va sposa, si consegna al marito. Dice S. Paolo: «La donna non ha la proprietà del suo corpo, ma l’ha il marito, e viceversa il marito rispetto alla donna»4. La proprietà vostra, individuale, dopo \la professione/ è di Gesù, lo sposo. Gesù è lo sposo della Chiesa. Ma cosa si intende per Chiesa? Non il cupolone di S. Pietro, s’intendono proprio le persone che compongono la Chiesa. Cos’è la Chiesa? È la società dei membri, ecc...Gesù è lo sposo di ognuna. Allora, noi diventiamo religiosi, proprietà di Gesù. Lui potrà disporre come vuole: noi siamo suoi. Non possiamo più dire: questo è mio, ma questo è in uso, è in uso a servizio di Gesù, come mi chiede Gesù. Ma io ho l’intelligenza, ho la capacità tale... Tu hai dato tutto a Gesù e vivendo in lui acquisti la personalità più alta, la personalità in Cristo, fino al «Vivit in me Christus»5, più abbondantemente, più perfettamente che non nella vita cristiana.
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E può essere che una suora non faccia mai la professione. Perché? Perché non rinuncia. Forse si illuderà di fare la professione, perché rinuncia ai beni materiali che forse a casa non aveva. E mi pare che quasi tutti noi, se fossimo stati in famiglia, non avremmo avuto tante comodità come abbiamo in Congregazione! Certamente, se foste state in famiglia, ad esempio, non avreste trovato la cura della salute che avete in Congregazione. E una persona che era pratica, aggiungeva: Non conosco un altro Istituto che abbia tanta cura della salute come voi.
Poi bisogna rinunciare a quello che davvero abbiamo: la salute, il corpo, le attitudini, il cuore che dobbiamo dare proprio a Dio, a Gesù, e concentrare tutti gli affetti in Gesù. E prendere i desideri di Gesù, i pensieri di Gesù, dare alla nostra vita i fini medesimi che Gesù ebbe nella sua vita: Gloria di Dio e pace degli uomini6. Il suo cuore era sempre rivolto al Padre e sempre rivolto agli uomini. Così, la gloria di Dio e la pace degli uomini. E per questo si è immolato sulla croce. L’immolazione della vita come avviene? Potrebbe avvenire l’immolazione violenta con il martirio. Domani ricorre la festa dei SS. Fabiano e Sebastiano7. Tutti conoscono un po’ la vita di S. Sebastiano.
E invece l’immolazione può venire giorno dopo giorno, quando consumiamo la salute, le forze, il tempo per la gloria di Dio e per le anime. Rinunziare così a questo: non farsi nella comunità una vita propria, stabilirsi lì quasi in un’amministrazione propria, e stabilirsi nelle abitudini che uno trova più facili: farsi un nidino e vivere di egoismo. Questa vita di egoismo è contraria al voto di castità, è contraria al voto di obbedienza. Bisogna che noi ci doniamo a Dio attraverso la Congregazione. E tanto uno opera per Dio, quanto opera per la Congregazione; e tanto toglie a Dio, quanto toglie alla Congregazione. Uno
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non può stare a giudicare, ma tutti mettersi sotto a prendere8 e poi operare nella missione che abbiamo.
Perciò vedere se si è fatto davvero la professione, e soprattutto se si vivono i voti, se si vive la professione, la nostra consacrazione, la nostra donazione intiera a Dio. Se si vive! Questo personalismo è opposto alla personalità, è un po’ la vita dell’egoista, di colui che attira tutto a sé, e vorrebbe quasi che tutti servissero lui, e vorrebbe tutto ciò che c’è in Congregazione per il suo comodo. Quanto invece al donarsi, quindi a vivere i voti, vivere la consacrazione, ci si mostra, a volte, alquanto restii, si dà il meno possibile. Allora bisogna che ciascuno di noi pensi a vivere la sua professione.
L’osservanza della povertà, misurarla bene. È vietata l’amministrazione indipendente. Non perché uno è in un ufficio particolare può disporre, anche se è amministratore. L’economo in una casa è qualche cosa di diverso dal contabile e dal cassiere. L’economo ha quattro uffici: primo, cercare di fare arrivare le entrate necessarie; secondo: l’ufficio di conservare le case, i terreni e conservare i soldi che ci sono, i macchinari, e tutto quello che serve alla vita, dalla biancheria fino alle cose che sono di uso particolare; poi ha l’ufficio di provvedere sapientemente e bene. Terzo, amministrare secondo il Superiore generale: Sub ductu et dependentia superioris: Sotto la guida e la dipendenza della superiora, è detto nella legge canonica. Così se si tratta di uffici che sono direttamente dipendenti dalla Superiora generale, da questa. Se si tratta, invece, di uffici che sono dipendenti da una superiora locale o provinciale, da queste. Invece, se si tratta di uffici che sono di altra natura, collegati con amministrazioni che non sono ristrette alla Congregazione, si ha da avere sempre una certa dipendenza per uniformarsi alle intenzioni di chi ha affidato quell’ufficio, ma nello stesso tempo deve sempre essere presente la superiora, affinché tutto sia fatto sub ductu et dependentia superioris.
Il quarto ufficio è questo: bisogna allora esaminare bene se noi abbiamo i pensieri giusti e non si vada poi in eccessi o in sbandamenti. È falsa l’idea: Possiamo fare questa spesa e
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la facciamo. Occorre invece dire: La facciamo se prima viene approvata.
Quando uno ha ricevuto un dono, un’offerta, oppure ha avuto un’entrata superiore a quello che poteva prevedere, non può dire: Abbiamo abbondanza, dunque e facciamoci la casa con più lusso; facciamoci il salotto di lusso; facciamoci maggiori comodità, ecc. La povertà non deve essere una necessità: quella è privazione. La povertà è il mantenersi in quel grado di vita che è conveniente per chi è religioso. Se noi ricevessimo tappeti e ornamenti che portano lusso, noi potremmo farlo? No. Si dice: Ma me l’hanno dato. L’hanno dato, ma l’uso è un’altra cosa. E non può essere adoperato se non in dipendenza.
Inoltre, la professione importa la vita comune. La vita comune è sorgente di innumerevoli meriti, perché si tratta sempre di vivere, da una parte l’obbedienza, e di vivere in carità sotto l’altra parte. La vita comune quindi, ha due parti: l’obbedienza e la carità.
La vita comune è l’esercizio pratico dell’umiltà. Quand’è che noi pratichiamo l’umiltà? Quando siamo soggetti, non pensiamo e non facciamo come crediamo noi. Quando c’è l’orgoglio, domina non la personalità religiosa, ma il personalismo che è il nemico della vita religiosa. Noi invece dobbiamo praticare la sottomissione nella debita maniera. I membri stanno soggetti alla superiora; la superiora sta soggetta alla Superiora generale e al suo consiglio. In un reparto, ci può essere chi è capo reparto e ci possono essere le altre suore che collaborano nel reparto; quindi la sottomissione a chi guida quel determinato reparto.
L’obbedienza pratica, la sottomissione, la rinuncia ai nostri pensieri. Uniformare il giudizio a chi guida, il pensiero a chi guida. Sempre in questo senso, anche se ho delle ragioni contrarie. Quando è stabilita una cosa, occorre pensare, così: Il meglio per me è di obbedire. Solo se obbedisco, il Signore premierà quest’azione, questo lavoro. Il Signore non premia mai quello che si fa contro la sua volontà, quello che si fa da noi, per nostra iniziativa, per nostra convinzione. Allora perdiamo il merito, perché facciano la nostra volontà, non la volontà di Dio. E alla fine della vita corriamo il pericolo di aver fatto
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tante cose, ma quelle non erano nella volontà di Dio. Anche se una cosa poi è splendida, se ha avuto buon risultato: Magni passus, sed extra viam: Hai fatto dei buoni passi, ma fuori della strada9, perché hai camminato, supponiamo, verso Milano, mentre eri mandato a Napoli. Hai corso molto, hai fatto magari in un’ora settanta, ottanta, cento chilometri, grossi passi, ma sei andato al contrario, è tutta una via da rifare, tornare indietro. E allora, in punto di morte uno può avere solamente da domandare perdono, invece di gloriarsi di quello che ha fatto. Domandare perdono e supplicare Gesù che non solo abbia misericordia, ma che ci voglia applicare i meriti della sua obbedienza. L’obbedienza di Gesù quand’egli ha detto: «Padre, non sia fatta la mia, ma la tua volontà»10.
Secondo, la carità vicendevole tra le persone. Vi sono, a volte, circostanze in cui una ha un ufficio, la libreria, ecc., lì nessuno la tocca. Tu sei solo superiora!. All’agenzia, nessuna ci deve entrare... E se entra la superiora, la si guarda di brutto... Sei solo superiora! Sei in una casa, non puoi fare quello che a te sembra meglio, ma devi fare quello per cui sei mandata.
L’umiltà richiede la carità, ho detto. Stimare le persone che stanno accanto, pensarne in bene, desiderare il bene, fare, per quanto si può, del bene e parlarne in bene. I partiti sono una pessima cosa, sono contrari alla vita comune: tre o quattro sono d’accordo tra di loro, e le altre sono d’accordo, fanno un altro gruppetto... E queste si confessano che non c’è la vita comune? E quando ci comunichiamo, come stiamo? Noi abbiamo il segno di amare Gesù se amiamo gli altri. Ma se non li amiamo?S. Giovanni ha dato la regola: «Noi siamo sicuri che amiamo Gesù quando amiamo i fratelli»11, quando amiamo le sorelle. Ma se quest’amore non c’è, bisogna subito che diciamo: Sono freddo, o Signore! Sto poco bene con il Signore, perché sto poco bene con le persone che convivono con me.
La carità religiosa si dimostra con la preghiera, ma soprattutto con il dare buon esempio, con il compatire e sopportare.
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Dare buon esempio! Se si comincia a rompere la vita comune, ecco che si fa un’apertura, e allora in quella porta che cosa non passerà? È molto più facile introdurre i disordini che non mettere il bene, che non mettere l’ordine!
La vita comune importa poi di mettere insieme le forze. Non considerarci singolarmente. Mettere insieme le forze, perché siamo una società, una congregazione. Ora, in una società, fosse pure una società commerciale, fosse pure una società di gente che vuol fare un’impresa di costruzione, non si fa come ciascuno pensa. No, si mettono insieme, combinano, guardano... Quando c’è l’orgoglio di fare da sé, allora si usa un modo di fare che annulla la vita comune. La vita comune è per mettere insieme le forze, l’intelligenza, l’abilità, il consiglio. Così, sottomesso il nostro pensiero, il nostro lavoro, il nostro articolo scritto, o l’iniziativa che si voleva prendere in quell’ufficio, ecc., si sente il parere degli altri, delle altre, e ci si corregge e ci si aiuta. Da tutti c’è qualcosa da prendere e qualche cosa da togliere. Quando ognuna fa da sé si annulla la vita comune, si annulla anche se vi siete messe insieme. Mettere insieme le preghiere, mettere insieme le energie, mettere insieme l’intelligenza, mettere insieme lo spirito di iniziativa.
Vi è stato un anno, per portare un esempio, in cui c’è stato un grande progresso. Non voglio citare né l’anno, né il posto, perché è facile che si indovini, un grande progresso. Non si era verificato da parecchi anni e non si è più verificato per diversi anni. Perché? Perché avevano stabilito la Sala San Paolo12 dove tutto veniva combinato e discusso assieme. Si trattava anche solo di una copertina: la si metteva lì per quattro, cinque giorni, che tutti la vedessero e dessero il loro giudizio. Così un articolo: lo si faceva leggere. E tutte le iniziative venivano discusse nella ricreazione. Dopo, chi era a capo, molto umile, registrava tutti i pareri, i sentimenti, le cose e gli avvisi che
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venivano dati, i difetti che si trovavano, eliminava i difetti, metteva ciò che era buono, ciò che avevano suggerito e che ancora mancava.
Questa è l’essenza della vita di Congregazione: mettere tutto insieme. È Società delle Figlie di San Paolo! Società! Non è un bel nome soltanto, ma è una bella vita! Mettersi insieme per unire le forze e fare più cammino. Quante società si costituiscono anche solo per fini materiali, per fini culturali, e magari, a volte, per fini ben cattivi, come sono le società, supponiamo, bibliche protestanti. E come si consultano, come raccolgono offerte, e come combinano le loro iniziative! E si radunano da una parte all’altra del mondo, per fare i loro concili e prendere le decisioni.
Allora mettere insieme le energie! Fare vita comune. Che non vuol dire solamente: la stessa minestra, lo stesso abito, la stessa casa di abitazione, e neppure solo lo stesso orario. Ma ci sono in noi delle qualità che si portano in Congregazione e si incanalano nella Congregazione, per i fini della Congregazione, cioè santificazione e apostolato. Questo spirito di socievolezza, qualche volta, viene a mancare, e resta non congregazione, ma disgregazione. Vigilare su questo e confessarsene bene, perché è proprio un obbligo stretto che abbiamo di portare il nostro sassolino alla Congregazione, il nostro contributo di intelligenza, di salute, di capacità, di iniziative, ecc. Siano cose per la santificazione dei membri o siano cose per l’apostolato. Tutto insieme, in quella giusta misura che viene consigliata.
Fare veramente questo: lasciare davvero il mondo, ma lasciare noi stessi! È poco lasciare quod est, ma lasciare quel che sei, quod es, lasciare te stesso è tutto. Abbiamo lasciato noi stessi? Viviamo la professione? L’abbiamo intesa così la professione? Siamo diventati di Dio, ma attraverso la Congregazione, la vita religiosa. Approfondire allora l’esame di coscienza, affinché alla fine della vita possiamo dire: Sono vissuto come avevo professato, cioè sono vissuto come anima consacrata a Dio, nell’amore di Dio, nel servizio di Dio e spendendomi tutto per la sua gloria e per l’apostolato, secondo i due primi articoli delle Costituzioni.
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1 Meditazione tenuta a Grottaferrata il [19] gennaio 1959 in occasione degli Esercizi spirituali alle superiore. Trascrizione da nastro: A6/an 60a = ac101b.

2 La casa di Grottaferrata fu aperta nel 1943 come casa per le convalescenti e per le propagandiste. Per un triennio (1947-1950), fu sede di una parte del noviziato e dello studentato. Nel 1949 Don Alberione diede a questa casa la finalità di essere la casa delle scrittrici, divenuta quasi subito casa del Catechismo. Cf C. A. Martini, o.c., p. 269.
3 Cf Mt 19,21.

4 Cf Ef 5,21-24.28.
5 Cf Gal 2,20: «…ma Cristo vive in me».

6 Cf Lc 2,14.
7 Fabiano (III sec.), pontefice a Roma dal 10 gennaio del 236 al 20 gennaio del 250, promosse il consolidamento e lo sviluppo della Chiesa. Subì il martirio durante la persecuzione dell’imperatore Decio e fu sepolto a Roma nel cimitero di S. Callisto. Sebastiano (263 ca. – Roma, 304 ca.), militare romano, subì il martirio durante la persecuzione di Diocleziano e fu sepolto nelle catacombe che da lui hanno preso il nome.

8 Prendere dallo studio, dalla pietà e poi operare nell’apostolato.

9 “Grandi passi ma fuori dalla strada”. Frase attribuita a S. Agostino.
10 Cf Lc 22,42.
11 Cf 1Gv 3,14.

12 Sala San Paolo all’inizio (1937), era un locale della comunità di Roma, via A. Pio adibito a biblioteca e a studio per il gruppo delle studenti di teologia. In seguito divenne la sede delle suore che si occupavano della redazione. Il 2 febbraio 1952 la redazione, con particolare indirizzo catechistico, si trasferì a Grottaferrata. Cf Giovannina Boffa, Gli studi e la redazione nella storia delle Figlie di San Paolo in Italia 1915-1971, Figlie di San Paolo, Roma 2011, p. 190.