Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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Anno XXXII
SAN PAOLO
Giugno 1957 - Numero speciale
Roma Casa Generalizia,

AVE MARIA, LIBER INCOMPREHENSUS, QUAE VERBUM ET FILIUM PATRIS MUNDO LEGENDUM EXHIBUISTI (S. EPIPHANIUS EP.)

«Adoriamo Gesù Cristo Sacerdote col quale ogni prete costituisce un unico sacerdozio, secondo la lettera di S. Paolo agli Ebrei.
Ringraziamo Gesù Cristo Sacerdote nel quale, per il quale, col quale glorifichiamo la SS. Trinità.
Ripariamo a Gesù Cristo Sacerdote i tradimenti che da Giuda seguirono nei secoli fino ad oggi.
Preghiamo Gesù Cristo Sacerdote perché chiami in ogni tempo un numero sufficiente di Sacerdoti che siano luce del mondo, sale della terra, la città posta sul monte».

Sac. A.


Alla vigilia del 50° di Messa del Primo Maestro
29-VI-1907 - 29-VI-1957

Una data importante come il Giubileo Sacerdotale del Primo Maestro Fondatore delle Congregazioni paoline, meritava una manifestazione solenne anche esterna. E per la verità, le idee e i desideri non sono mancati.
Si voleva fare una
Esposizione che testimoniasse quanto sono stati fruttuosi e benedetti questi 50 anni di Sacerdozio; si voleva affidare alla musica la voce della gioia che i figli, sparsi in tutto il mondo, nutrono verso il Padre. Si voleva... ma l'intervento dell'interessato ha consigliato a limitare ad una manifestazione puramente interiore e di ordine spirituale, quanto l'anima voleva esprimere. Del resto il Sacerdozio chiama come prima idea l'altare e le relazioni dell'anima con Dio: problemi questi che trascendono per loro natura la materia e le sue manifestazioni.
Sarà quindi una festa eminentemente dello spirito. Le Messe che tutti i Sacerdoti celebreranno per il suo Sacerdozio, la novena di preghiere e di sacrifici da parte di tutti i membri e di tutti gli aspiranti alla vita paolina, l'impegno di dare alla nostra vocazione un tono sempre più elevato e intenso di vita interiore, sono quanto di meglio sì possa desiderare per una circostanza come questa.
Tuttavia, non si è potuto trascurare del tutto anche qualche lato esterno. Il Santo Padre, con una Lettera Pontificia, si unirà a noi per fare i suoi voti augurali e inviargli la sua Benedizione; la Congregazione dei Religiosi invierà pure una lettera per dare un autorevole riconoscimento alle opere del Suo Sacerdozio; da ogni parte del mondo, dove la Congregazione è presente, Cardinali, Arcivescovi, Vescovi, invieranno telegrammi di augurio; le case direttamente dipendenti dal Superiore Generale si sono impegnate a raccogliere un fondo per far fronte alle prime spese per la Casa degli Esercizi di cui si è avuto in questi giorni, finalmente, il desiderato permesso di costruzione; altre case, si sono impegnate di esprimere in altre forme i loro auguri: per cui, se non ci saranno manifestazioni chiassose, la circostanza, non trascorrerà senza i dovuti rilievi.
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La nostra adesione al Primo Maestro

Noi abbiamo il privilegio dì vivere la nostra vocazione, vivente il Fondatore, il quale può veramente dire: io sono la vostra lettera viva.
Per sapere quali sono gli ideali della nostra vocazione, per dare alla lettera scritta delle Costituzioni la interpretazione autentica, per conoscere quali sono i disegni che Dio ha affidato alla nostra Congregazione, abbiamo solo da guardare a lui. E' al Primo Maestro che il Signore ha detto «io sono con voi, di qui voglio illuminare», e quindi in nessun caso, meglio si adattano le parole di Gesù: «chi ascolta voi ascolta me». Il nostro Fondatore può veramente dirci con autorità: io vi comunico il volere di Dio.
Questo comporta da parte nostra l'adesione assoluta a Lui: adesione di mente, di volontà, dì cuore. Chi non aderisce a Lui, come a Fondatore e guida della Congregazione, come espressione vivente delle nostre Costituzioni, diventa un tralcio avulso dalla vite e condannato alla sterilità. La mancanza di adesione sarebbe segno che si va perdendo lo spirito della propria vocazione e che vanno svanendo in noi gli ideali della nostra Congregazione e quindi i disegni di Dio su noi. Una mancanza di adesione sistematica e costante, segnerebbe il naufragio della propria vocazione e il tradimento della chiamata di Dio.
Egli è il Fondatore. Non ha solo raccolto lo spirito paolino in una forma perfetta, ma ne è la personificazione. Dobbiamo fare capo a Lui se vogliamo essere veri paolini.
Qualche volta, è vero, ci potranno essere in lui, cose che non riusciamo a capire: ma se già tutta la nostra vita deve essere retta dallo spirito di fede, come potremo pretendere di fare a meno di questa virtù seguendo Lui che deve comunicarci ideali che superano le realtà terrene, per innalzarci in un mondo che non può essere contenuto nelle semplici formule umane?
Questo certamente non mortifica le nostre possibilità, le nostre doti, i doni di intelligenza e le iniziative dei singoli: ma comporta che esse vengano innestate sulla «vite» da cui debbono ricevere la linfa, per moltiplicare i frutti, dilatare gli ideali, completare gli abbozzi. Non idee nuove che portano a deviazioni, ma idee nuove che realizzano i princìpi su cui è fondata la nostra Congregazione e la nostra vocazione.
Noi non siamo arrivati - e ci auguriamo di non arrivarci mai - nella necessità di riforme: ma abbiamo certamente bisogno dì ubbidienza. Non sono i figli che debbono insegnare la via al Padre, ma debbono seguirlo. E noi dobbiamo seguire il Primo Maestro. Se una riforma vogliamo veramente farla, realizziamola in noi stessi: riformiamo la nostra condotta sempre suscettibile di migliorie; riformiamo il nostro pensiero forse troppo ancorato ai princìpi umani. Questo ci metterà nella buona disposizione di seguire Lui, e in Lui Colui che lo ha mandato.
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La nostra devozione

La nostra devozione deve nascere dalla stima verso Colui che il Signore ha scelto per realizzare nella Chiesa di Dio «l'opera più grande del nostro secolo». Oso riportare questa testimonianza che è di un ammiratore della Società S. Paolo, perché ci persuadiamo a stimare sempre più la nostra Congregazione, il suo apostolato, le sue finalità e di conseguenza Colui che è strumento di queste realizzazioni.
Pensando alla nostra Congregazione, non dobbiamo fermarci solo al ritmo delle sue attività o al meccanismo che da corpo al suo apostolato: dobbiamo penetrare l'anima che informa tutto questo, per poter dare una valutazione oggettiva alla missione a cui Dio ha chiamato il Fondatore.
Una rivista Cubana, la «Quincena», chiudeva un articolo sul Primo Maestro con queste parole: «Nella nostra capitale è passato l'uomo che ha insegnato al mondo che tutta la tecnica meravigliosa del nostro tempo, che le nostre conquiste nel campo della velocità, del suono e delle immagini, possono e debbono essere messe al servizio dei valori spirituali. Nello stesso tempo ci ha ricordato che in mezzo al vortice e alla fantasmagoria in cui ci pongono le antenne e i motori a reazione, lo spirito deve sempre essere ancorato in Dio".
La spiritualizzazione della materia, l' elevazione dei mezzi umani per scopi divini, ci dicono che il nostro Fondatore non è solo una grande mente umana ma che egli ha sviluppato e sta sviluppando un grande disegno di Dio.
Egli è aperto a tutti i problemi, sente i bisogni di tutte le anime e di tutti ì popoli, e spinge i suoi figli verso ardue mete, perché possano valorizzare se stessi, e nello stesso tempo sentano il bisogno di stare legati a Dio, senza il quale è vano ogni lavoro apostolico.
Che nessun paolino sia talmente miope da considerare solo le ombre, per ignorare gli splendori che irradiano dalla sua missione.

Il nostro affetto

Nel programma di questa celebrazione dobbiamo pure elevare il nostro cantico di riconoscenza al Maestro Divino per aver reso così fecondo il Sacerdozio del Primo Maestro. Ognuno conosce quanto è stato fatto, i sacrifici compiuti, quanti sono coloro che conquisi dall'ideale da lui presentato, lo hanno seguito. La bella schiera di Sacerdoti, il bel gruppo di Discepoli perpetui, il folto stuolo di Chierici e di Discepoli temporanei, i Novizi e i numerosi gruppi di aspiranti che aumentano ogni giorno, ci dicono che la grazia di Dio in Lui non è stata vana e che il suo Sacerdozio è fecondo come l'albero piantato lungo le rive del fiume.
Benediciamo quindi il Signore, perché abbiamo tanti motivi di esultanza, e nel tripudio di questa gioia riconoscente, diciamo al Primo Maestro tutto il nostro amore.
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Tutti vogliamo bene al Primo Maestro, e forse gli si vuole un bene superiore a quello che a prima vista può apparire. Sappiamo dimostrarglielo.
Egli è giunto a un punto della sua vita in cui sente forse più grave il peso di quanto gli sembra di non aver compiuto, che la soddisfazione di quanto è stato fatto. Possiamo rendere gioiosi questi anni, dimostrandogli con il nostro affetto riconoscente che le sue fatiche non sono state vane e che i suoi figli hanno raccolto la sua eredità decisi, con l'aiuto di Dio, a seguirlo fedelmente, perché la Congregazione sia sempre all'altezza della chiamata di Dio.
Nella nostra devozione e nel nostro amore, egli potrà forse scorgere anche quaggiù, il segno dell'approvazione di Dio.

Strumento eletto dal Signore

Guardando la persona e l'opera del Primo Maestro non si può pensare che alle parole dette da Gesù Cristo ad Anania per rassicurarlo sulla futura missione di Saulo: «Egli è uno strumento da me eletto per portare il mio nome davanti alle genti... ed io gli mostrerò quanto dovrà patire per il mio nome» (Atti 9,14).
Il Primo Maestro nacque a Fossano il 4 Aprile 1884.
I genitori, gente semplice di campagna, ma profondamente cristiani, si fecero premura di non trascurare nulla di quanto poteva assicurare l'educazione religiosa di questo loro figliuolo.
Nell'ambiente semplice dei campi si sviluppò nel cuore del fanciullo il desiderio del Sacerdozio. Egli scrive: «Ricordo un giorno dell'Anno scolastico 1890-1891. La Maestra Cardone, tanto buona, delicatissima nei suoi doveri, domandò ad alcuni degli 80 alunni, che cosa pensassero di fare in futuro, nel corso della vita,
Io fui il secondo interrogato; riflettei alquanto, poi mi sentii illuminato, e risposi risoluto tra la meraviglia di tutti i compagni: «mi farò prete!».
Era la prima luce chiara; prima avevo sentito qualche tendenza, ma oscuramente, in fondo all'anima, senza conseguenze pratiche. Da quel giorno i compagni, e qualche volta i fratelli cominciarono a designarmi col nome di «prete»; a volte per burlarmi, altre volte per richiamarmi al dovere... La cosa ebbe per conseguenza: lo studio, la pietà, i pensieri, il comportamento e persino i giuochi che si orientarono in tale direzione.
Anche in famiglia incominciarono a considerarmi futuro prete e disporre le cose che mi riguardavano verso quella meta.
Da quel giorno ogni cosa rinforzava in me tale decisione. Ritengo che sia stata frutto delle preghiere di mia mamma e anche di quella maestra tanto pia, la quale chiedeva sempre al Signore che qualche scolaro divenisse sacerdote. Ne benedico il Signore».
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Ultimate le scuole elementari il piccolo Giacomo Alberione, entrò nel Collegio = Convitto di Bra, cittadina consacrata alla Madonna dei Fiori e situata ai confini dell'Archidiocesi di Torino.
Il collegio funzionava come piccolo Seminario di Torino.
Quivi egli compì i corsi ginnasiali, distinguendosi tra i suoi compagni per serietà, per uno spiccato amore ai libri e alla lettura e specialmente per forza di carattere; tipo sempre volitivo, energico, costante.
In questo periodo delicatissimo nella vita di ogni ragazzo, Giacomo doveva sperimentare egli stesso - come disse - «il male della stampa cattiva». Era un'esperienza quasi necessaria per lui che nei disegni provvidenziali di Dio doveva diventare il futuro Apostolo delle Edizioni. Poiché era guidato dal Signore e assistito dalla Vergine Santa, quest'esperienza, che avrebbe potuto essere nefasta, doveva sviluppare tutto il lato positivo di convinzione e di difesa. Da essa nacque in lui il senso della spaventosa responsabilità che si assumono gli editori e lo zelo più ardente per opporre a questo male la più salda barriera, neutralizzando la stampa cattiva e la cattiva propaganda, opponendo mezzo a mezzo, espediente ad espediente, tecnica a tecnica, organizzazione ad organizzazione.
Giacomo intanto si preparava a passare dal Piccolo Seminario di Bra, dipendente dall'Archidiocesi di Torino al Seminario di Alba: trascorse le vacanze di quinta ginnasio, fece domanda al Seminario di Alba e vi fu accettato. Uno zio che portava lo stesso nome insisteva perché scegliesse il Seminario di Torino, dove avrebbe potuto godere di una borsa di studio che un altro zio vi aveva costituito a favore d'un membro della famiglia Alberione.
Ma avendo Giacomo, per considerazioni di varia natura, preferito il Seminario di Alba, quello stesso zio si adoperò per far trasferire la borsa di studio da Torino ad Alba. Non essendovi riuscito, contribuì a pagare gli studi al nipote, che vennero soddisfatti in parte da lui e in parte dal Padre del ragazzo. Così fu sino agli ultimi quattro anni di vita del Padre, perché, poi essendo questi rimasto paralitico, Giacomo, non potendo gravare troppo sopra la famiglia trovò aiuti da persone benefiche e contrasse anche i primi debiti per studi supplementari ai comuni studi che la Divina provvidenza aiutò a soddisfare.
L'entrata del giovane al Seminario di Alba e la sua provenienza dell'archidiocesi di Torino non destarono meraviglia tra i compagni perché la sua famiglia era Braidese ed abitava in parrocchia della diocesi di Alba.
Il carattere riflessivo, la riservatezza nelle parole dell'Alberione fecero subito una singolare impressione sui compagni. Nelle ricreazioni egli amava ritirarsi a passeggiare, evitando, quanto più possibile, i giochi chiassosi. Più volte il Canonico Chiesa (più tardi suo Direttore Spirituale) dovette invitarlo a partecipare alle ricreazioni per distoglierlo dalle sue meditazioni.
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L'8 Dicembre del 1900, nella festa dell'Immacolata, i nuovi liceisti vestirono l'abito clericale. Era consuetudine del Seminario Albese differire la vestizione di un anno a quei giovani che provenivano dal Ginnasio Pubblico o da un altro Istituto, ma non fu solo questa la ragione per cui l'Alberione non ricevette l'abito quel giorno. La sua anima non era ancora orientata; sentiva fortissimo l'impulso alla vita missionaria. Pensava di seguire i Francescani in Cina, oppure i Padri Bianchi in Africa; il fascino di quella vita tutta immolata al servizio delle anime, dominava il suo spirito che già tanto fortemente sentiva il problema della salvezza dei fratelli lontani. E perciò nell'incertezza tra la vita sacerdotale diocesana a quella del religioso, rimase senz'abito nella calma attesa di conoscere meglio i disegni di Dio. Il Signore, infatti, non opera a precipizio; questo l'Alberione già sapeva, né si mostrò turbato per la mancata vestizione. Anzi, al Can. Danusso, Rettore del Seminario, che gli chiese un giorno se non se ne era disgustato, il giovane semplicemente rispose: «No, no! Si potrà pur essere buoni anche senza abito!».
La risposta piacque al Rettore e gli servì per aumentare la stima e la considerazione per il nuovo giovane.
Questa mancata vestizione diede occasione al giovane Alberione di contrarre buona amicizia con un altro compagno, Agostino Borrello; oriundo da Canove (Govone), il quale, pur essendo già al secondo anno di Filosofia, non era stato ammesso alla Vestizione.
Dovendo sempre accompagnarsi con questo giovane, (i compagni chiamavano scherzosamente questi due borghesi «i revidibili»), poiché gli altri andavano a passeggio per loro conto, divennero presto intimi amici, nel senso più cristiano della parola.
Cosa che molto sorprese, anzi meravigliò Superiori e compagni fu che il Borrello, dopo qualche tempo, pareva trasformato, non solo nella sua condotta, ma anche nella sua persona. La parola suadente del giovane Alberione e più il suo esempio avevano finito per trionfare sull'animo leggero e mondano dell'amico, il quale, colpito quell'anno stesso dal male che non perdona, se ne volava al Cielo.
Questa morte fece molta impressione a tutti i Chierici, ma più al suo amico Alberione: da quel giorno divenne ancor più silenzioso, più paziente, più pio.
La grazia affinava il futuro strumento che doveva servire a realizzare la grande opera dell'apostolato dell'Edizione.
Quell'anno scolastico 1900 fu infatti pieno di luce e di grazia. La prima idea del futuro Istituto nacque proprio nella prima notte del secolo.
Fu quello, infatti l'anno in cui comprese quale sarebbe stato l'orientamento definitivo, quale il campo d'apostolato, quale la particolare missione che l'attendeva.
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La notte che divise il secolo XIX dal XX, dopo la solenne Messa di Mezzanotte, i seminaristi di Filosofia e di Teologia ebbero facoltà di fermarsi in Duomo, davanti a Gesù solennemente esposto pro-traendo quanto credevano la loro adorazione. Due esigenze fondamentali, espresse una, da un invito del S. Padre Leone XIII e l'altra da un discorso del Toniolo, avevano fatto profonda impressione al giovane Alberione. Il Santo Padre parlava di preghiere per il secolo nascente, e metteva in risalto la necessità dell'organizzazione delle forze cattoliche in tutti i settori per far penetrare nelle masse il S. Vangelo; il Toniolo aveva lanciato un appello angoscioso: «Uniamoci! Il nemico se ci trova soli, ci vincerà uno per volta!».
Davanti al S. Tabernacolo, in una veglia tutta dominata dal desiderio di offrirsi a Dio per la realizzazione di questo programma, il giovane Alberione comprese quali erano i disegni di Dio in cui egli avrebbe dovuto entrare come servo e collaboratore: ché il secolo nascesse in Cristo Eucarestia e ché i nuovi apostoli risanassero le leggi, la scuola, la letteratura, la stampa, i costumi, usando al bene quei mezzi potenti di diffusione e di propaganda che i figli delle tenebre sapevano così acutamente usare per fini non buoni. La veglia era durata quattro ore; ne uscì con l'impegno a servire la Chiesa organizzando gli apostoli di questo nuovo slancio vitale e missionario, intonato ai tempi nuovi.
La Pia Società S. Paolo era, si può dire nata in quella prima notte del secolo, nella luce di Gesù Eucaristia. Da quel momento, letture, studio, preghiera, formazione del giovane si orientavano in quel senso e l'idea, dapprima confusa, incompleta, a poco a poco si chiarì sino a concretarsi nelle opere.
In seminario, intanto compiva la sua preparazione, non trascurando i minimi servizi di carità, non sdegnando anche le umili mansioni del «Circolo del Fanciullo Gesù» detto scherzosamente dai Seminaristi il «Circolo degli Scopatori». Aveva infatti il compito di curare la pulizia degli ambienti; Giacomo Alberione era entrato volentieri in questo circolo, perché per la sua indole riflessiva e meditativa, poco amava giocare. Il Direttore Don Occhetti, quando non trovava più nessuno per la pulizia si rivolgeva a lui, sicuro di non ricevere mai un rifiuto: come avviene spesso nella comunità, in queste cose ci sono i generosi e quelli che trovano pretesti per svignarsela, si che il più delle volte son sempre gli stessi che si prestano. Ma anche le esperienze del «Circolo degli Scopatori» doveva avere un riflesso lontano: Giacomo imparò quanto poi mise in pratica nelle sue fondazioni e cioè, che era ottima cosa che tutti insieme, divisi a gruppi, ognuno per la sua parte provvedesse alla pulizia dei locali.
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In quest'epoca l'ufficio di Direttore Spirituale del Seminario non era ancora obbligatorio. Ma l'Alberione, prevenendo i tempi, si scelse per Direttore Spirituale il Canonico Francesco Chiesa, allora professore di Filosofia, poi di Teologia, sociologia, diritto.
Tale scelta fu veramente provvidenziale. Il Canonico Chiesa divenne il vero Anania del giovane Chierico, non solo per la direzione e formazione spirituale e intellettuale, ma anche per la fondazione e per lo sviluppo dell'Opera che il Signore preparava. Sulla parola illuminata del suo Direttore, D. Alberione camminò sempre sicuro. Molte previsioni, confidategli dal Canonico Chiesa, si avverarono alla perfezione, ed egli fu così unito, così legato alle vicende della nuova Congregazione, che sul letto di morte, con verità poteva confidare a due Sacerdoti Sampaolini, andati a fargli visita: «Io sono sempre stato della Pia Società S. Paolo... e sono contento e ringrazio il Signore di esserlo stato, specialmente ora, che sono vicino all'eternità».
L'esempio dell'Alberione nella scelta di una direzione fu seguito da altri, così dopo qualche tempo un buon numero di Chierici aveva il suo Direttore Spirituale. Nei corsi di Teologia l'Alberione aveva acquistato tanta fiducia e stima tra i suoi compagni che diversi di essi scelsero a loro Direttore lui stesso, sebbene non fosse ancora Sacerdote.
In Seminario si facevano gli Esercizi Spirituali due volte all'anno in ottobre, all'entrata e in giugno prima delle vacanze, nelle quali poi i giovani Seminaristi erano impegnati ad uno studio seriissimo, perché l'esame di tutta la materia dell'anno scolastico precedente era riservata ad ottobre, mentre durante l'anno si facevano due esami semestrali. Gli studi erano in quell'epoca in notevole progresso, dovuto molto al lavoro personale di quei valenti Seminaristi. La Sacra Scrittura insieme con l'ebraico cominciò ad insegnarla in Seminario nel 1905-1906 il Vescovo Mons. Francesco Re.
D. Alberione ricevette un'impressione incancellabile al commento delle lettere di S. Paolo ai Romani. La scuola di storia era anche molto apprezzata. D. Alberione vi si distinse per il suo amore alla storia Ecclesiastica e civile e alle Scienze Sociali. C'è una profonda ragione della predilezione che l'Alberione ebbe per queste materie: la scuola di storia civile nei corsi di filosofia e ancora più la scuola di Storia Ecclesiastica nei Corsi di Teologia, gli davano occasione di rilevare i mali e i bisogni delle nazioni, i timori e le speranze; particolarmente la necessità delle opere e dei nuovi mezzi rispondenti al secolo attuale. Durante il corso Teologico trovò tempo per leggere e annotare i volumi della storia universale del Cantù e del Rohrbachker e fu destinato ad insegnare storia ai Chierici di Teologia.
Ordinato Sacerdote il 29 Giugno 1907, iniziò il giorno seguente il suo Ministero alla frazione di Cherasco di Briccofraule: il parroco era in necessità di aiuto, il neo Sacerdote doveva farne le veci e alla domenica predicare. Ma la gente, stanca per le dure fatiche dei campi e per il caldo, sonnecchiava volentieri.
D. Alberione non si perdette d'animo: provò a leggere e commentare dal pulpito la Sacra Scrittura; in breve il suo uditorio fu tutt'occhi e pendeva dalle sue labbra con un interesse insospettato. Ciò contribuì a crescere nell'animo dell'Alberione l'amore al Sacro Testo.
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La fondazione dell'opera


Sempre più compreso e preoccupato del male che la stampa cattiva, a servizio degli scrittori e propagandisti del Socialismo e del modernismo andava seminando nelle anime, nelle famiglie, nella società, sollecitato internamente dalla grazia, illuminato dalle direttive dei Sommi Pontefici, specialmente di Leone XIII e di S. Pio X, il giovane Sacerdote andava maturando nell'anima il disegno di organizzare una grande opera.
Aveva pensato dapprima ad un'organizzazione cattolica di scrittori, tecnici, librai, rivenditori cattolici, ai quali avrebbe dato indirizzo di lavoro, spirito di apostolato. Verso il 1910 la luce divina gli fece vedere scrittori, tecnici, propagandisti, ma religiosi e religiose, che ad un'alta perfezione evangelica unissero una perfezione specifica per questa nuova forma di apostolato. Vide quindi chiarirsi l'idea d'un organizzazione religiosa le cui forze unite in un sol blocco, la cui dedizione totale, la cui vita pura, costituissero una nuova milizia al servizio della Chiesa, per la più grande mercede: «Riceverete il centuplo e possederete la vita eterna».
La pubblica deplorazione da parte della Santa Sede dei giornalisti Cattolici del Trust, avvenuta nel 1911, contribuì a confermare Don Alberione nei disegni dell'opera che Dio andava preparando per il trionfo di Gesù Cristo nel mondo: la fondazione di un Istituto Religioso per la formazione di scrittori e propagandisti della Stampa Cattolica, a servizio della Santa Sede.
Confidandosi in quei giorni con un suo caro amico, D. Alberione parlava così: «Questi giornalisti non hanno una cultura religiosa completa, per questo si trovano talvolta nei loro articoli gravi imprecisioni sia di morale, sia di dogmatica, e condannati, difficilmente essi hanno l'umiltà di sottomettersi, così succedono gravi scandali, e si rinnovano pericoli di scissioni... E necessario fondare un Istituto Religioso che abbia come missione, come vero apostolato quello della stampa».
«Perché non affidare tale compito a un Istituto religioso già esistente?» obiettava l'amico.
«Perché - rispondeva convinto e calmo lui - gli Istituti esistenti non possono porre in seconda linea il fine già dichiarato nelle Costituzioni approvate, e che li caratterizza!».
Il primo mandato di occuparsi della stampa D. Alberione lo aveva ricevuto dal suo Vescovo, Mons. Re, nella festa del Nome di Maria, il 12 Settembre 1911, nel Santuario della Madonna della Moretta, in Alba.
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L'obbedienza che è il segno di garanzia delle opere di Dio, doveva stare a fondamento di questa come di ogni altra opera; una duplice obbedienza anzi, una rispondente all'ispirazione avuta davanti a Gesù Ostia, confermata dal Direttore Spirituale; l'altra espressa esplicitamente dai Superiori Ecclesiastici.
Era quello il primo riconoscimento della vocazione Sampaolina e la prima conferma. Ma nel 1913, a raffermare sempre più Don Alberione nella sua speciale vocazione, intervenne per la seconda volta l'Autorità stessa della Chiesa sempre nella persona del suo Vescovo, il quale gli affidava la direzione della «Gazzetta d'Alba», settimanale cattolico della diocesi.
Questo giornale diocesano era allora in gravi crisi. Crisi economica per i molti debiti, crisi morale per il poco credito che godeva. La prima crisi era dovuta a conseguenze di un processo finito male; la seconda, era causata da divergenze di vedute e di idee tra i collaboratori. La «Gazzetta d'Alba» non piaceva più a molti, che pur conoscevano le lotte da essa sostenute contro l'anticlericalismo allora dominante, e l'appoggio dato all'Unione Popolare voluta dal Papa.
Il gruppo avversario aveva nel frattempo dato vita a un nuovo giornale: «L'Alba nuova», stampato dalla tipografia Vertamy, e diretta da Don Scalenghe, Cappellano alla Madonna dei Boschi, presso Vezza d'Alba. Si temette una scissione in mezzo al Clero. Ma fortunatamente la Redazione della «Gazzetta d'Alba» dovuta alla mente aperta di Don Alberione, si impose presto a tutti: «L'Alba nuova» divenne presto «vecchia»... e dovette cessare la pubblicazione.
Finalmente nel 1914 quando alcuni giovanetti già erano legati con tutta l'anima a Don Alberione, egli ritenne giunta l'ora di dar principio all'opera che Dio nella sua Provvidenza voleva realizzare a bene degli uomini.
11 lavoro di stampa pareva chiederlo.
Circostanze speciali, incoraggiarlo.
Intervenne il consiglio e l'autorevole appoggio di Sacerdoti dotti e santi e di alcuni prelati della Chiesa.
Il 14 Luglio il progetto fu presentato a Mons. Re, Vescovo di Alba, che l'approvò.
Il 24 luglio D. Alberione prese in affitto lo stabile; il 26 acquistò le prime macchine e i mobili indispensabili per la casa.
Cominciava con ancora 70 lire di debito vecchio, aggiungendo i nuovi. E finalmente, dopo aver a lungo pregato ai piedi della Madonna dei fiori di Bra e della Moretta di Alba, il 20 Agosto, festa di S. Bernardo, cantore della Madonna, rinnovatore dell'Europa, difensore della fede e della Chiesa nel suo tempo, si apriva la Casa, nasceva l'opera apostolica: La Pia Società S. Paolo.
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Data memoranda


20 Agosto 1914.
Data memoranda nella storia della Chiesa e dell'umanità!
La mattina di quel giorno moriva il grande e Santo Pontefice Pio X. In quegli stessi giorni avevano inizio, dopo le dichiarazioni di guerra, le prime operazioni militari sui vari fronti europei: principiava il crollo spaventoso di un mondo superbamente costruito senza Dio e contro Dio.
Pio X moriva, vittima di amore e di dolore, dopo aver indicato nel ripudio di Gesù Cristo e della sua Chiesa, la causa dei mali che travagliavano l'umanità e i popoli del suo Pontificato, «supremamente diretto secondo un disegno di amore e di Redenzione» (Pio XII), per restaurare ogni cosa in Cristo, Via, Verità e Vita, egli andava a conseguire il meritato premio.
Già nella sua prima Enciclica (4 Ottobre 1903), egli scriveva: «Proclamiamo di non avere nel Supremo Pontificato altro programma se non questo: restaurare ogni cosa in Cristo, in modo che Egli sia tutto e in tutti».
Sul tumulo di questo Pontefice santo, spuntava l'albero della Pia Società S. Paolo, la quale prendeva in consegna, come una sacra eredità, il testamento di Pio X, la sua anima, il suo Spirito, il suo programma: «Riportare all'umanità Gesù Cristo, luce di verità, via di santità, sorgente di vita divina, presente e operante nell'Eucarestia»: riportarLo per mezzo dell'Edizione, «Voce viva dei popoli» (Pio XII), per mezzo della liturgia, per mezzo di un rinnovamento di opere pastorali.
Povertà e umiltà, contrassegno delle grandi realizzazioni, brillarono luminose sulla culla del nuovo Istituto.
I due primi giovanetti, Tito Armani e Desiderio Costa, che la carità di Don Alberione aveva raccolto, il primo di 15 anni, il secondo di 13, furono le prime pietre vive dell'Istituto, mentre Giuseppe Giaccardo, in Seminario, attendeva l'ora della chiamata di Dio.

SI SCIRES DONUM DEI!

Il regalo più prezioso


La ricorrenza del cinquantenario dell'ordinazione sacerdotale del Primo Maestro susciterà certamente nei membri della Famiglia Paolina una lodevole e utile gara per attestare al Fondatore e Superiore generale la stima e l'amore filiale con doni materiali e spirituali, che ogni casa e ogni membro dell'Istituto offrirà secondo le proprie disposizioni e possibilità. Tali doni sono tuttavia transeunti e occasionali, come transeunte e occasionale è il cinquantenario che vogliamo celebrare. La celebrazione di questa data ha lo scopo di onorare il Sacerdozio del Primo Maestro che, per sua stessa natura, è eterno.
I doni occasionali e transeunti per il cinquantenario devono quindi significare il dono stabile e duraturo che vogliamo e dobbiamo fare, che stiamo facendo e intendiamo continuare e perfezionare, onde rimanga come monumento perenne, continui a produrre nella Chiesa frutti di grazia e di efficacia apostolica anche dopo la nostra morte, e meriti al Primo Maestro e a noi tutti la corona di gloria che il Maestro Divino prepara in cielo ai suoi discepoli e apostoli.
I cinquant'anni di sacerdozio spesi dal Primo Maestro al servizio dell'ideale apostolico che il Maestro divino gli ha fatto brillare nell'anima fin dalla fanciullezza, sono per tutti noi un esempio e un monito a impegnarci per conoscere sempre meglio la nostra vocazione paolina, il grande dono che Dio ci ha fatto, e per corrispondervi sempre più generosamente.
Esempio di fedeltà alla propria vocazione e di dedizione di tutto noi stessi per corrispondere alla volontà di Dio; monito, che ci ripete silenziosamente ed eloquentemente l'esortazione del Maestro divino: «Vi ho dato l'esempio, perché come ho fatto io, così facciate anche voi» (Gv. 13,15); un monito a tener sempre presente l'ideale e l'obbligo della nostra santificazione e dell'attività apostolica, per tendervi sempre e con tutte le nostre forze.
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Fondando la Famiglia Paolina e servendola con la preghiera, la sofferenza e l'instancabile attività sacerdotale, il Primo Maestro non poteva e non doveva mirare ai nostri doni transeunti e occasionali. Egli certamente pensò e volle, sofferse, faticò e spese la sua lunga esistenza per avere con sé e lasciare dopo di sé una schiera innumerevole di religiosi e di sacerdoti santi, che siano apostoli nel senso più moderno e completo.
Il dono più bello e il regalo più prezioso che possiamo e dobbiamo offrire al Primo Maestro e per mezzo suo al Maestro divino, è pertanto quello della nostra vita e della nostra attività interamente impostata nella via per condurci nella quale il Primo Maestro ha pregato, sofferto e lavorato.
Il regalo più prezioso è quello della nostra vita interamente impegnata per acquistare e comunicare la Verità e la Vita, la perfezione cristiana e religiosa nello spirito della nostra vocazione paolina. Il dono più prezioso e gradito che i figli possono fare al padre e i discepoli al maestro è quello di camminare e progredire nella via tracciata dal padre e dal maestro.

Il dono della sequela disciplinare-magisteriale


Non è certamente presunzione dire che a ciascuno di noi il Primo Maestro ripete l'invito del divino Maestro che egli ci rappresenta: «Chi vuol venire dietro di me (e quindi essere mio discepolo) rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,24). Non è certamente presunzione dire che il Primo Maestro ci ripete l'ammonimento di Gesù: «Si scires donum Dei!» Il Maestro divino, Via, Verità e Vita filiale e incarnata, domandò un dono alla donna di Samaria: «Da mihi bibere!» e le promise in cambio il dono dell'acqua viva, che disseta in eterno. Il sacro testo non dice se la samaritana abbia realmente offerto al divino implorante l'acqua del pozzo e se Egli abbia bevuto. Dice però come il «donum dei» fu spirituale e reciproco. La donna dissetò spiritualmente Gesù dandogli il pentimento, la fede e l'amore; in cambio ricevette da lui la Verità che purifica e santifica col perdono e con la grazia, fu trasformata in discepola del Maestro e in apostola della Verità unica e vivente. Essa offrì al Maestro il pentimento, la fede e l'amore; in compenso fu santificata dalla Via, Verità e Vita incarnata, fu inverata nel Maestro, ebbe tutta l'attività vitale unificata in Lui Via, fu vivificata dalla Verità e dalla Luce, santificata dalla Bontà, vivificata dalla Vita e dalla Grazia di lui. Fatta dal Maestro divino discepola della Verità e della Vita magisteriale, ne divenne tosto apostola attiva ed efficace.
Per mezzo dell'esempio del Primo Maestro e nella muta eloquenza del Suo cinquantennale Sacerdozio, ci giunge dal Maestro divino l'invito a ricevere e a dare il «donum Dei», a dare la nostra purezza, fede e amore e a ricevere la Verità e la Vita, la Santità e la Via; ci giunge l'invito a conoscere sempre meglio la nostra vocazione paolina, essenzialmente disciplinare e magisteriale e a impegnarci per corrispondervi col lavoro assiduo per la nostra santificazione e per la salvezza del prossimo.
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«Si scires donum Dei!» Chi di noi può dire di comprendere perfettamente e di corrispondere interamente al dono della vocazione paolina?
Il cinquantennio sacerdotale del Primo Maestro ci ricorda che per essere apostoli e agire con efficacia nell'attività editoriale, sia pure con i mezzi più moderni, più celeri ed efficaci, occorre prima santificarsi nel discepolato seguendo la Via, la Verità e la Vita magisteriale.
La nostra vocazione, come sequela della magisteriale comporta la fede e l'amore alla Verità, la sincerità e la lealtà. Di conseguenza comporta la fuga dall'ignoranza, dalla menzogna, dalla finzione e dall'ipocrisia, in una parola da quanto si oppone alla Verità.
Come sequela della Via magisteriale, la nostra vocazione comporta l'unità nella carità e la carità unificante l'attività vitale, le menti, la volontà, i cuori, le opere. Di conseguenza comporta la fuga da quanto si oppone al cammino nella via dell'unità e della verità: la divisione, l'incomprensione, la dispersione, l'antagonismo e da quanto impedisce l'unione fraterna tra noi membri, l'unione filiale con i superiori, l'unione disciplinare con la Chiesa nel Capo e nelle membra, l'unione di conoscenza e d'amore con la Santissima Trinità, nella quale ci immette e ci fa vivere la Via.
Come sequela della Vita magisteriale, la nostra vocazione comporta che la nostra vita conoscitiva e libera mediante la fede, la speranza e la carità verso Dio e il prossimo abbia per oggetto, movente e motivo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo con la Via e Santità, la Verità e la Luce, la Vita e la Grazia magisteriale e trinitaria. Di conseguenza la nostra vocazione comporta la purificazione dalle passioni che sviano la nostra attività, la fuga dal peccato che causa le malattie e la morte spirituale, l'uso frequente e fruttuoso dei mezzi di vita.
L'efficacia apostolica è conseguenza necessaria della santità interiore. Vivendo e agendo da veri discepoli, della Verità e della Luce, della Via e Santità, della Vita e Grazia magisteriale, attireremo gli uomini al discepolato e saremo veramente apostoli. Rigenerati e ispirati nel Maestro e nella Trinità, saremo gli strumenti efficaci per rigenerare e ispirare i fratelli dando loro la Verità, la Via e la Vita con la nostra attività apostolico-editoriale.
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Rev.mo e amatissimo Primo Maestro,
Partecipo con gioia grande, tutta dì figlio, alle sue Nozze d'oro sacerdotali. Attribuisco a Lei le parole, che tante volte Lei ha attribuito ad altri Sacerdoti in simili occasioni, perché ognuno veda quanto siano vere più per Lei che per altri.
«Cinquant'anni dì sacerdozio sono una grazia grandissima: solo in cielo la comprenderemo. Cinquant'anni di sacerdozio ben vissuto sono una catena di meriti preziosissimi. Cinquant'anni di sacerdozio attivo, pio, esemplare, meritano la riconoscenza di tante anime. Cinquant'anni di sacerdozio in Cristo e nella Chiesa sono consolazioni per la vita e per la morte.
Cinquant'anni di sacerdozio paolino nella pratica dei voti e della vita comune sono garanzia di salvezza.
Cinquant'anni dì apostolato della verità, della giustizia e della pace preludono ed annunziano l'ultima rivelazione nella visione beatifica per Cristo Maestro Divino».
Se dai frutti si conoscono gli alberi buoni, dobbiamo dire che i suoi cinquant'anni di sacerdozio sono stati cinquant'anni di un lavoro intelligente, generoso, ricco di grazie e di benedizioni.
Sono stati gli anni che il Padre ha passato in mezzo al suo gregge, spendendo e sopraspendendo per esso, tempo, forze, tutta una vita a somiglianza del Buon Pastore Gesù che disse: «Do la vita per le mie pecorelle». Il suo gran segreto di riuscita a servizio della Chiesa, della Congregazione e delle anime sta in quello che tante volte ha insegnato a noi: nella preghiera umile, fiduciosa e perseverante, in intimità con Gesù-Ostia, Maria, S. Paolo.
«Sia benedetto Dio, e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre di misericordia, e Dio di ogni consolazione» per i suoi innumerevoli doni e conforti; e sia premiato il Servo Buono e Fedele che «alia quinque talenta» ha raccolto e può presentare sereno al Datore di ogni bene.
Il nostro cuore in questo fausto giorno, che coincide provvidenzialmente con la festa del nostro protettore San Paolo - al quale Lei ha voluto che dedicassimo questo anno per meglio conoscerlo, amarlo ed imitarlo - gioisce col suo e ne condivide i palpiti e l'esultanza. Ringrazio a nome dì tutti i Confratelli Sacerdoti e Discepoli per la bella vocazione paolina che il Maestro Divino per suo mezzo ci ha dato; per la sua pazienza, bontà, generosità e amore che sempre ci ha mostrato e per la provvidenza che mai ci è mancata per le case dell'anima e del corpo. Ad multos annos!
Altri anni, altri meriti, altre consolazioni Le auguriamo e chiediamo al Signore per l'intercessione di S. Paolo e di Maria Regina Apostolorum.
Ci benedica mentre ci stringiamo attorno a Lei promettendole docilità e ubbidienza incondizionata.


aff.mo figlio D. S. M. G.

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