Beato Giacomo Alberione

Opera Omnia

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CONSIDERAZIONI SULLA VOCAZIONE

Articoli consultati e utilizzati: Vocazione, su «Dizionario di Teologia Biblica», Marietti; Le dynamisme de la Vocation di Marcel Delabroye, su «La vie spirituelle», Supplemént, Febbraio 1967. Vedere anche Discepoli e apostolato di Schelkle K. H., Ed. Paoline, Roma, cap. 1.

La parola vocazione richiama un tema biblico estremamente ricco: una idea-chiave che potrebbe riassumere tutta la storia della salvezza sotto il concetto di chiamata di Dio e di risposta dell'uomo: dalla creazione come chiamata all'esistenza, alla redenzione come chiamata alla santità filiale per mezzo di Cristo, fino alla parusia come chiamata al Regno eterno e definitivo. Tutto ciò attraverso tappe o «vocazioni» successive, e grazie alla mediazione di molteplici chiamati individuali.
Fra questi chiamati, a cui Dio propone la dignità e la responsabilità di essere mediatori di popoli, gli esempi più indicativi sono quelli di Abramo (Gen 12) e di Mosè (Es 3), di alcuni profeti come Samuele (ISam 3), Isaia (Is 6 e 49), Geremia (Ger 1) e, nel Nuovo Testamento, del Battista (Luc 1), dei Dodici (Mar 3) e di S. Paolo (At 26, Gal 1,11s), per non parlare dei casi-vertice: la Madonna e Gesù (Luc 1).
Dal confronto dei testi che narrano i particolari di queste chiamate, emergono alcune indicazioni costanti: si tratta di fatti strettamente soprannaturali, da una parte, e profondamente umani dall'altra. Da una parte infatti si presentano come una straordinaria esperienza di Dio, che oggi chiameremmo mistica (non chiediamoci se si trattasse di visioni, rivelazioni o semplici ispirazioni, com'è più probabile); si tratta, in parole più semplici, di una grazia di conversione o di missione, comunque, di un richiamo interiore, che determina una trasformazione e un preciso orientamento morale nella vita del soggetto così «toccato» da Dio. L'uomo avverte che Dio gli si rivolge personalmente, lo «chiama per nome», gli propone qualcosa e sollecita una risposta, con un tormento che diviene rimorso nel caso di un rifiuto. E' innanzitutto la sollecitazione ad avvicinarsi maggiormente a Dio con una maggiore santità, per essere strumento di una particolare missione, religiosa o morale. L'atteggiamento più comune del chiamato di fronte a tali proposte è la trepidazione e il senso della propria inadeguatezza; ma Dio risponde con l'assicurazione: Non temere, io sono con te; o tu sarai con me. D'altra parte tuttavia, umanamente o storicamente parlando, le decisioni dei chiamati possono apparire motivate da un concorso di circostanze e di ragioni terrene, sociali, psicologiche, economiche, tipiche insomma della politica umana... (Osservata dal basso, la decisione di Mosè di lasciare la pastorizia e la tranquilla esistenza in casa del suocero per tornare in Egitto, si spiega con un impulso sociale e politico, o anche sentimentale; così, la rottura di Abramo con il suo clan ha numerose spiegazioni di carattere familiare, oltre che religioso). Ma la Bibbia ci insegna a leggere il lato provvidenziale (teologico, diremmo) di tali eventi, ossia ci presenta le due facce dell'unica realtà: quella divina e quella umana, la mozione di Dio e il libero concorso dell'uomo.
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Sta di fatto che nel concerto delle circostanze il soggetto è cosciente di ambedue gli elementi, e lo confermano gli interessati medesimi, che non esitano a dire in pubblico o a scrivere (come S. Paolo e Geremia) di essere stati chiamati da Dio fin dal seno materno. Ci potremmo chiedere come l'abbiano saputo, e la risposta potrebbe essere naturale: l'hanno compreso da sé, meditando sui casi provvidenziali della propria vita.
Dunque la vocazione è un mistero a due facce; è una chiamata personale, nominale, che ha per autore Dio e per scopo una missione, ma nello stesso tempo ha cause umane disparatissime; è intimamente legata a una esperienza vitale di Dio, ma anche a condizioni ambientali determinanti; è una scelta che isola spiritualmente il chiamato dal suo mondo (dalla «generazione perversa», come dirà il Battista e più tardi S. Pietro), ma per meglio disporlo a una missione in quel mondo stesso.
La vocazione di S. Paolo è esemplare al riguardo, ma non ci soffermeremo su di essa: rileviamo solo che la sua esperienza personale si riflette sulla teologia delle sue lettere; e proprio dalle sue lettere si coglie il lato più profondo del problema. E' lo Spirito di Dio, egli scrive (cfr. Rom 8,16), che ci fa sentire la Parola del Padre e risveglia in noi la risposta filiale. Perciò la vocazione alla fede e all'apostolato è una grazia, di cui bisogna continuamente ringraziare Dio, e per cui bisogna trepidare.
Ecco intanto espressa la parola: Grazia. La vocazione è infatti un aspetto concreto del mistero della Grazia, come è stato poi approfondito da S. Agostino e dalla Scolastica: il mistero del concorso tra la sovrana causalità di Dio e il libero arbitrio dell'uomo. In concreto è una grazia attuale, della stessa natura delle grazie quotidiane che ci si presentano come ispirazioni, che sono piccole vocazioni parziali al compimento della vocazione generale dell'intera vita.
Possiamo da qui trarre tutte le conseguenze circa la gratuità della vocazione da una parte e l'obbligo morale della corrispondenza dall'altra. Corrispondenza libera, come ogni risposta a Dio, ma che porta in sé la propria sanzione morale: chi risponde, si qualifica come collaboratore di Dio alla propria e all'altrui salvezza, e porta frutto; chi rifiuta si squalifica, almeno per quest'opera in concreto, e perde un'occasione provvidenziale, il cui merito poteva essere suo, ma di fatto non lo è. Dio farà altre proposte, offrirà altre occasioni, ma questo treno è perduto, con tutta la sua rete di coincidenze. Le conseguenze di tali omissioni si vedranno solo nell'aldilà, come d'altronde il frutto delle risposte affermative. (Pensiamo, per esempio, alla «posterità» di Abramo).
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Inoltre, essendo una scelta gratuita da parte di Dio, la vocazione può segnare una persona fin dalla nascita; ma non è detto che possa venire percepita subito. S. Paolo, predestinato fin dal seno materno (Gal 1,11), la percepì verso i trent'anni. Si pone qui il problema dello sviluppo intellettuale e morale che fa da supporto alla grazia e rende capaci di accettarla. La vocazione, osserva il Concilio, è presente fin dalla prima età; ma il pieno senso di responsabilità nel seguirla è condizionato dal raggiungimento della maturità umana, ossia intellettuale e affettiva. Perché? Le ragioni sono ovvie, ma fra le tante ne rileviamo una: «La voce del Signore che chiama - continua il Concilio - non va affatto attesa come se dovesse giungere all'orecchio... in qualche modo straordinario: essa va piuttosto riconosciuta ed esaminata attraverso quei segni di cui si serve ogni giorno il Signore per far capire la sua volontà ai cristiani prudenti» (Presb. Ord., 11). Ora, per avvertire il senso di quei segni, discretissimi e spesso ambivalenti, si richiede sensibilità e maturità interiore.
D'altra parte, tale sensibilità interiore può essere più precoce di quanto non si creda: all'età di 12-13 anni si dà il caso che un ragazzo avverta con certezza lo stimolo di Dio e non abbia dubbi sulla propria vocazione, anche se non può precisarla. Perché dobbiamo tener presente un duplice dato fondamentale: che la chiamata di Dio è rivolta alla persona e si adatta alla sua età (parla ai bambini da bambini e agli adulti da adulti), e che non è un richiamo unico, ma una serie di richiami, che si ripetono in età diverse e in forma sempre più nitida e impellente.
Per convincerci di questo dovremmo riferirci all'esperienza da noi personalmente vissuta. A quale età abbiamo chiarito a noi stessi la nostra vocazione? E quali sono stati i fattori che l'hanno costituita o rivelata? Forse inizialmente una circostanza molto casuale, estranea alla nostra volontà, persino buffa, ma provvidenziale, perché ha determinato una prima scelta di direzione; contemporaneamente una vaga aspirazione a essere più buoni, o a uscire da situazioni moralmente spiacevoli (sentimento di «conversione»); ammirazione generica per certe attività, forme di vita o persone che le incarnavano; poi desiderio di vivere più conformemente al Vangelo, zelo per la salvezza degli altri, e così via:
Quando sono intervenute le prime scelte coscienti? Forse alla vestizione, o in noviziato, e comunque rinnovate più tardi in vari momenti critici.
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Gli itinerari spirituali possono essere molto diversi, ma le fasi comuni (di carattere psicologico più che cronologico) possono essere così riassunte:
1) Disponibilità a Dio, che suggerisce, che domanda o che comanda (a seconda della nitidezza del richiamo alla coscienza). E' l'atteggiamento di S. Paolo sulla via di Damasco, e del chiamato che ancora non sa che cosa gli si chieda, ma dimostra la sua disponibilità nella fedeltà al dovere quotidiano e nell'apertura alle risposte di Dio, che attraverso gli avvenimenti gli segnalano oscuramente ma sicuramente la strada da percorrere. Quest'atteggiamento è già una risposta. Arriva poi un avvenimento più saliente che determina una svolta ascen dente e una presa di posizione nel senso della chiamata.
2) Autoesame di fronte a una vocazione specifica; sentimento della propria inadeguatezza, o per lo meno della propria incompetenza a giudicare del proprio caso; quindi ricerca di consigli qualificati e della «scrutatio Spiritus» sulle proprie disposizioni ed attitudini.
3) Oblazione: «Eccomi, Signore! manda pure me» (Isaia). Desiderio espresso di votarsi a Dio, contando non sulle proprie doti, ma sulla divina fedeltà. Come Maria: «Ecco la serva del Signore», anche se vi è trepidazione (la quale è sempre indizio di autenticità).
4) Accettazione canonica e compimento della propria vocazione, in una risposta affermativa sempre in atto. Accettazione come conferma autorevole della Chiesa a nome di Dio. Perché la vocazione, come Grazia, viene sì dall'alto, ma è amministrata dalla Chiesa, ossia dalla mediazione umana, che può essere più o meno ufficiale, ma è sempre ministeriale, o sacramentale nel senso ampio della parola. E poi risposta sempre mantenuta sul sì, perché la vocazione non è la proposta e l'accettazione di un momento, ma un ripetersi di indicazioni che segnano una strada, la quale va percorsa finché dura, e che si può anche smarrire, perché i crocicchi sono frequenti. Perciò, corrispondere alla vocazione significa «camminare alla presenza del Signore» come Abramo, per essere pronti ai suoi cenni; significa disponibilità continua all'obbedienza (come sacramento umano della divina volontà), perché «le opere di Dio nel mondo non si compiono automaticamente, ma con la collaborazione di uomini fedeli» (M. Delabroye). L'ideale al riguardo è l'esempio di Gesù, il perfetto chiamato, che ascolta sempre la voce del Padre, che fa sempre la sua volontà, che porta a compimento la sua missione, fino al giorno supremo e al supremo sacrificio. Allo stesso modo, l'uomo scelto da Dio è sempre in stato di chiamata, fino al termine della sua carriera; e quando la sua vocazione gli si oscura, deve «riattizzarla», come raccomanda S. Paolo a Timoteo. Solo a questa condizione, corrispondendo cioè di fatto, anche i dubbi si chiariscono, perché, scrive Marcel Delabroye, «io percepisco la mia vocazione nella misura in cui vi rispondo; e proprio nella mia risposta io percepisco sempre più nitidamente che Dio mi chiama». E', come vediamo, il mistero della Grazia, ossia del Signore, che si avvicina e si rende sensibile quanto più uno l'accetta e risponde.
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A questo punto si situa lo spinoso problema della formazione e dell'orientamento delle vocazioni, cui accenneremo qui solo per un a-spetto particolare.
Se la vocazione è un percorso e una traiettoria, più che un inizio, o meglio è una crescita d'organismo vivente, è chiaro che dev'essere guidata, orientata, «educata» nel senso socratico della parola, da un «maieuta» (ostetrico), ossia da un maestro che se ne occupi ex-professo, o da altri cui il giovane guarda e si forma a sua immagine e somiglianza. Allora ogni adulto che conviva con giovani deve sospettare in partenza di essere un formatore, anche a sua insaputa, e deve essere cosciente del peso dei suoi atti. Ma al formatore ex professo, in particolare, si richiedono due requisiti: che egli sia in stato di cammino, sotto la mozione della «grazia di vocazione», e che abbia idee chiare sul termine a cui vuol pervenire e condurre gli altri.
In primo luogo (cito sempre M. Delabroye) il formatore dev'essere convinto che «non si è mai finito di scoprire la propria vocazione; che la scoperta del nostro avvenire è assolutamente legata alla sua realizzazione, e che vivere il sacerdozio o la vita religiosa è in definitiva una continua riconversione... Quando - continua il Delabroye - un prete o un religioso ha perduto coscienza del dinamismo della propria vocazione, egli reca una contro-testimonianza, e si rivela fondamentalmente incapace di condurre efficacemente un'azione pastorale a favore delle vocazioni». Dal momento che «il cammino della vocazione si iscrive nel cuore di un'esperienza spirituale che abbraccia tutta la vita... l'azione pastorale che pretenda di favorire quest'itinerario... non può che partire dalla medesima esperienza. Le vocazioni infatti si trasmettono per contatto, diremmo per osmosi, da colui che si lascia guidare dal proprio dinamismo interiore a colui la cui giovane esistenza è tutta una chiamata».
In secondo luogo, abbiamo detto, occorre che si abbiano idee chiare sul termine da raggiungere. E qui mi riferisco alla vocazione in concreto, ossia allo stato di vita cui si vuol condurre il giovane.
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Ogni chiamata mira in definitiva alla santità e contemporaneamente a un servizio: Dio chiama per mandare, ossia per degli scopi definiti e attuali, non passati né futuri. Nella Chiesa le mansioni sono molte, e bisogna saper scegliere, o meglio capire la scelta di Dio, e perciò pregare perché Egli la riveli. E' quanto fecero gli Apostoli al momento di eleggere il sostituto di Giuda (At 1,15-26). Ma occorre inoltre tener presente che, per quanto numerose, le vocazioni nella Chiesa si raggruppano in alcuni tipi fondamentali, che hanno le proprie note caratteristiche e le proprie leggi, perché hanno struttura e finalità diverse. Vi è la vocazione alla «consecratio mundi» propria dei laici, ossia il conseguimento della santità tramite i rispettivi compiti coniugali, educativi, professionali nel mondo. Ma in tal caso non si parla di vocazione propriamente detta. Vi è poi la vocazione al sacerdozio in cura d'anime, e la vocazione religiosa, che sono dette vocazioni superiori. La prima è di carattere ministeriale, legata alla struttura gerarchica della Chiesa e caratterizzata dal servizio di Dio in seno al mondo; essa attinge la sua legge e la sua spiritualità dal magistero dell'Incarnazione: nella assunzione e nella valorizzazione di tutto ciò che nel mondo vi è di buono, per aiutare i laici a consacrarlo. La vocazione religiosa è invece di carattere carismatico ed escatologico, e mira a realizzare la forma più perfetta della santità evangelica, seguendo i consigli oltre ai precetti comuni. Ora i consigli implicano il superamento del mondo, ossia la rinuncia a ciò che nel mondo vi è pure di buono «in vista del regno dei cieli»: tale è il celibato o verginità consacrata, tale la povertà volontaria, tale l'obbedienza spontanea in una vita associata. La vita religiosa si pone polemicamente fuori del mondo, come testimonianza escatologica, ossia affermazione pratica della superiorità dei beni celesti rispetto ai beni terreni, siano pure cristianamente valorizzati. E' il mistero della Resurrezione attraverso la Croce.
Tale distinzione fra le due vocazioni superiori non è artificiosa, anche se richiama le note posizioni degli incarnazionisti e degli escatologisti in campo storico. E' una distinzione che riflette la duplice polarità di tutto il mistero cristiano e che in campo ecclesiastico ha la sua controprova storica, nel fatto che le due condizioni di vita corrono parallele dai tempi subapostolici fino ai nostri giorni. E se in certi periodi si sono fuse (particolarmente dal tempo della Riforma, con la nascita dei canonici o chierici regolari), oggi si ritorna alla chiarificazione, almeno teorica: la vita religiosa come tale, teologicamente e storicamente, non è legata al sacerdozio. Lo diviene solo quando si pone in funzione di un ministero o apostolato propriamente sacerdotale.
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In questo quadro, dove si situa la vocazione paolina? Una risposta affrettata potrebbe dire che la nostra si pone tra la vocazione ministeriale e quella religiosa come un compromesso, ormai canonizzato da un uso secolare, ma nel quale è opportuno distinguere i due elementi e porre tra essi un ordine di priorità. Ora la risposta più autentica ci viene dalle Costituzioni della nostra Società, particolarmente dai due primi articoli che ne definiscono la natura e gli scopi. La Società San Paolo è definita «congregazione religiosa clericale», il cui fine generale o primario è «la gloria di Dio e la santificazione dei membri» (perfetta carità), «mediante l'osservanza dei voti di obbedienza, castità e povertà» (consigli evangelici), «nella vita comune, a norma dei sacri canoni, ecc.» (struttura ecclesiale). (Art. 1). Nell'articolo 2 si precisa il fine specifico, che è «la divulgazione della dottrina cattolica per mezzo dell'Apostolato dell'Edizione, cioè stampa, cinema, radio, televisione, ecc.». All'articolo 6 si dice che «la Pia Società San Paolo è composta di chierici e di laici, i quali, distinti per divina istituzione, ma fusi nell'unità della stessa società, devono tendere al medesimo fine, ognuno secondo la propria vocazione e le proprie attitudini...». Infine l'art. 8 ribadisce che «tutti i membri professano la stessa vita religiosa, sono retti dalle medesime costituzioni, godono delle stesse grazie spirituali e privilegi...». Ritroviamo in questi articoli le tipiche note dell'antica vocazione religiosa, snellita e resa funzionale in senso apostolico moderno, ma in cui l'elemento escatologico prevale su quello ministeriale. Si può osservare che la congregazione si qualifica come clericale, ma è opportuno ricordare che tale nota interviene come specie rispetto al genere, e il genere, di «congregazione religiosa», ha una priorità almeno di natura rispetto alla specie. Piuttosto riteniamo che la qualifica di clericale, di sapore canonico, acquisti tutto il suo valore se posta in relazione all'apostolato paolino, che è tipicamente sacerdotale nel contenuto, anche se laicale nella sua forma tecnica, e inoltre se intesa come qualificante tutta la congregazione in senso sacramentale, legandola all'Ordine e quindi alla sacramentalità della Chiesa gerarchica. In tal senso tutta la congregazione è un corpo sacerdotale, ma nel cui seno la gerarchia dei valori è costituita dalla gerarchia dei fini: santificazione religiosa in primo luogo e solo secondariamente apostolato, e quindi distinzione di ministeri. Pertanto ciò che più importa è di essere buoni religiosi, e lo si è in proporzione che si pratica il Vangelo nella perfezione dei consigli, come si è buoni paolini in proporzione che ci si ispira a S. Paolo nell'apostolato, ognuno al proprio posto.
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Ci si perdoni la lunga digressione, ma crediamo che solo in base a questi princìpi si possa impostare la ricerca e la formazione specifica delle nostre vocazioni con effettiva imparzialità, come d'altronde è stabilito nel capitolo IV delle stesse costituzioni (articoli 30 e sg.). Purtroppo, in alcuni casi, sembra che la prospettiva di una vocazione laicale in seno alla nostra congregazione sia del tutto ignorata nel reclutamento e anche nell'orientamento degli aspiranti. Conosciamo peraltro esempi di congregazioni clericali in cui si esige dagli aspiranti stessi l'assoluta disponibilità per ambedue i rami (sacerdotale e laicale) fino al noviziato, quando i giovani stessi saranno in grado di compiere una scelta matura, o abbastanza conosciuti dai superiori per venir consigliati in un senso o in un altro.
Non intendiamo suggerire indicazioni pratiche, sapendo d'altronde quanto sia spinoso questo problema; ma solo richiamare l'attenzione su un fatto a cui forse non si bada seriamente e tuttavia è di estrema importanza per noi: la selezione oculata, in base a criteri obbiettivi, fra aspiranti al sacerdozio e aspiranti discepoli. Non è questa la sede per precisare quali siano questi criteri obbiettivi, e sino a che punto si debba urgere la loro applicazione, considerando il fatto che la vocazione resta pur sempre un mistero; ma se crediamo che generalmente lo spirito sì rivela attraverso i segni sensibili, e che la Grazia suppone la natura, noi ci permetteremmo di suggerire una maggiore utilizzazione delle moderne scienze dell'uomo, e soprattutto una maggiore attenzione alla convergenza delle doti che sembrano legate alla struttura profonda della persona. L'essenziale è che attraverso gli indizi umani si possa individuare l'autentica vocazione divina, e che grazie a chiari princìpi si imposti una formazione pressoché comune e non lasciata alla libera sperimentazione degli esordienti.
Ma è tempo di concludere con alcune conseguenze più pratiche:
1) Se la vocazione è un fatto principalmente teologico, mistero di Grazia, l'atteggiamento con cui va affrontata dev'essere religioso prima che scientifico, ossia da sacerdoti prima che da psicologi. Con ciò non vogliamo svalutare la competenza psicologica, che al contrario va rivalutata, contro certe tradizionali diffidenze; vogliamo solo metterci in guardia dalla infatuazione per certi sistemi scolastici, talvolta anche male applicati. Atteggiamento religioso, non disgiunto da certa trepidazione, come di fronte a ogni realtà soprannaturale, per non meritare il rimprovero di Gesù a coloro che detenevano le chiavi del Regno, e non vi entravano essi né permettevano agli altri di entrarvi.
2) Credere alla divina causalità, che resta sempre la primaria e la più interessata, e affidare a Dio le sorti delle vocazioni, sia per non inquietarci oltre il necessario, sia per metterle al riparo dei nostri errori o avvicendamenti. Quando, per esempio, abituiamo i giovani al dialogo col Maestro Gesù, il dialogo con noi può interrompersi (nel passaggio di reparto) senza che ne risentano troppo.
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3) Se la vocazione è un concorso di Grazia e di motivazioni umane, non allarmiamoci se inizialmente i giovani, o anche gli adulti, non hanno idee chiare. Guardiamo piuttosto all'autenticità del movente religioso o spirituale.
4) Se la vocazione che dobbiamo proporre in concreto ai nostri aspiranti è quella paolina, ricordiamo che è religiosa, cioè tendenzialmente escatologica, e perciò è consigliabile abituarli alla scelta del meglio, rinunciando ad alcune delle soddisfazioni legittime a un cristiano nel mondo, secondo l'ammonimento di S. Paolo: «Tutto è lecito, ma non tutto è conveniente; tutto è permesso, ma non tutto edifica» (1Cor 10,23).
Se la nostra vocazione è all'uso dei mezzi di apostolato «più celeri ed efficaci», abituiamoci a considerare le persone come i più efficienti di tali mezzi; e se per le macchine si suggerisce l'adozione delle tecniche più aggiornate, si faccia altrettanto per la qualificazione delle persone, su ogni piano.
Infine un rispettoso invito ai nostri superiori: tengano anch'essi presente che quando un religioso è arrivato al sacerdozio o alla professione perpetua, non è al sicuro dalle crisi di vocazione (come una dolorosa esperienza dimostra), e che talvolta sarebbe preferibile che essi cedessero ad altri un po' del loro lavoro per aver maggior tempo da dedicare agli incontri personali. Non è forse vero che un religioso adulto è un sopravvissuto fra centinaia di compagni perduti per strada, e che salvarlo da una crisi, quando è possibile, sarebbe la più meritoria opera vocazionaria?

D. Sgarbossa Eliseo

DECLARATIO
De continuitate celebrationis Missarum
Tricenarii Gregoriani

Tricenario Gregoriano, quod ex improviso impedimento (e. g. superveniente morbo), aut ex alia rationabili causa (e. g. celebratione Missae funeris vel sponsalium), interrumpitur, ex dispositione Ecclesiae, fructus suffragii servantur, quos eidem Tricenario praxis Ecclesiae et pietas fidelium hucusque agnoverunt, firma obligatione Sacerdotis celebrantis quamprimum complendi celebrationem triginta Missarum.
Ordinarius vero opportune invigilet ne in re tanti momenti abusus irrepserint.
Datum Romae, de mandato Summi Pontificis Pauli VI, die 24 Februarii 1967.

+ Petrus Palazzini, A Secretis
Florentius Romita, Subsecretarius

(AAS, N. 3,31/3/67)
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