Beato Santiago Alberione

Opera Omnia

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Registrazioni audio ssp 1961

Trascrizione del file: 1961-00-00_preghiera.mp3
durata 11'54''

Don Giacomo Alberione - 00-00-1961?, voce altalenante, manca l'inizio


Sulla preghiera


... perché si corrispondono: “Ego sum lux mundi”, dice Gesù, “Io son la luce del mondo”, e “Vos estis lux mundi”, “Voi siete la luce del mondo”.
Siamo però la luce del mondo se noi siamo stati davanti alla luce che è Cristo, se abbiam preso da lui. Perché noi dobbiamo prendere da Dio e dare agli uomini, sempre così: <come> prendere da Dio e servircene noi e poi dare agli uomini quello che Iddio ha dato a noi.
Quindi la preghiera respiro dell'anima.
Perciò sempre le pratiche di pietà. Vedo che le fate bene e finché si prega si va bene, eh?
Perché si facciano sempre più bene e si andrà sempre più bene: non sbagliamo. Ma non si sbaglia neppure, non si commette neppure degli errori gravi in amministrazione, che è la parte materiale, se si è illuminati da Dio, se si è guidati da lui, se si prega. Eh!, delle imperfezioni, delle piccole miserie... siamo uomini e quelle miserie, quelle imperfezioni devono tenerci umili, perché noi siamo così scarsi di intelligenza, siamo così poveri nelle nostre iniziative, suficientia nostra ex Deo est: la sufficienza nostra è da Dio. Il quale poi aggiunge il velle e il perficere: dà la buona volontà e la grazia di compire le opere buone.
Dunque tutte le pratiche di pietà; particolarmente non mettersi al mattino sulla strada, sulla via senza i fari: e i fari son la meditazione. Eh, se no dove si va, non si sa dove si cammina? Si va nel pozzo! Ci vuol la luce sufficiente.
E Dio vuole che parliamo con lui. “Dove sei stato?”. “Sono stato con Dio”. Eh, uno era mancato parecchio e non si sapeva bene dove fosse: “Dove sei stato?”. “Sono stato con Dio, ecco, mi son trattenuto con lui in conversazione, pregando”.
E quando si prega non si creda di produrre meno, perché anche nell'apostolato si trovano le vie più facili, le vie più sicure. Perché dei consigli ne riceviamo una quantità, ma dobbiamo sempre vagliare tutto innanzi al tabernacolo. Tutti gli uomini possono darci qualche buon consiglio, – quando ce lo danno il buon consiglio, perché alle volte ci danno dei consigli molto falsi, – ma quando noi prendiamo consiglio da Dio, allora ecco che le cose si indovinano di più, tutto si indovina, oh, e i scoprono i pericoli e si trovano i mezzi. E quando uno ha fatto quel che può, il Signore interviene a compiere e fare quel che egli non può, quello che egli non può. Sempre: da me nulla posso, con Dio posso tutto.
<Vogliamo> Abbiamo intrapreso una grande opera, abbiamo per le mani una grossa impresa: farci santi; e l'altra impresa, che sta d'accanto perché è poi l'occupazione quotidiana: l'apostolato. E sono lì i due fini delle costituzioni di qualunque istituto o secolare o religioso o ordine contemplativo: primo: la santificazione; secondo: l'apostolato. Anche gli ordini contemplativi – ha detto il Papa – devono avere il loro apostolato di esempio, di preghiera e di sofferenza, per contribuire alla salvezza degli uomini, ecco. Perché non si può adempiere solo un precetto: l'amor di Dio; ma si devono adempiere tutti e due e cioè: “amerai il prossimo come te stesso”. E come tu vuoi salvarti, così pregare che si salvino tutti, aiutare tutti a salvarsi, tutti.
Dunque abbiamo da orientarci bene nella vita. E l'orientamento sia da colui che ci chiama. E chiamandoci non ci lascia soli, ma ci dà lui la forza. E come l'aiuto, così sarà il premio eterno.
E allora noi camminiamo bene, camminiamo nella via di Dio sulla terra e camminiamo nella via che ci immette al cielo. E sì, è una strada stretta e qualche volta siamo tentati di prendere la strada più larga, sì, più comoda. È una via stretta però, ma mette capo al Paradiso, all'eterna felicità. Orientamento sempre.
E poi allora fa' quel che puoi e domanda a Dio quel che non puoi e Dio verrà in aiuto alla tua debolezza, sì, verrà in aiuto alla tua debolezza. Così hanno fatto i santi che ora sono in cielo.
Preghiera, ma preghiera buona! Perché noi dobbiamo far le pratiche, dobbiamo considerare molto specialmente i sacramenti, la confessione, la comunione, la messa, dobbiamo fare l'adorazione, dobbiamo fare le altre pratiche, come il rosario, e le altre. Ma preghiera buona, preghiera buona!
Ci sono in Oriente questi usi di montare come un orologio, il quale continua poi sempre a ripetere le stesse parole perché la preghiera sia continuata: quella è la preghiera dei pappagalli, anzi preghiera di uno strumento inanimato.
Noi bisogna che facciamo una preghiera buona: l'umiltà, la fede e la perseveranza: ecco le tre condizioni perché la preghiera sia buona. Sempre umiliarci davanti a Dio! Quando uno comincia a confidar con se stesso e in se stesso, è sull'orlo della rovina. Sempre confidare in Dio, il quale viene ad aiutare sempre l'umile. E l'acqua della grazia non si ferma sui monti, ma discende nelle valli, cioè agli umili. Ma fiducia in Dio, il quale non ci lascia mai soli. Dio poi lo troviamo nel nostro cuore, ricevuto nella santa comunione.
Sì, sempre preghiera buona! E quindi prima divozione: la devozione eucaristica; seconda devozione: la devozione mariana; e terza divozione: la devozione paolina, a san Paolo.
Ecco allora siamo certi che passeremo tra i pericoli e senza lordarci di peccato. Quando si va umilmente, si teme il peccato, si teme che la mente sia poi infestata da pensieri cattivi e il cuore sia infestato da sentimento non buoni e quando la volontà cominci a piegarsi a destra o a sinistra, ecco. Sempre temere e quindi sempre ricorrere a Dio in umiltà: Deus in adiutorium meum intende, Domine ad adiuvandum me festina. Vi è un santo padre il quale dice che questa è la più bella preghiera: “Signore vieni in mio aiuto! Signore, soccorrimi presto, presto!”.
Oh, perché? Perché abbiamo bisogno di aiuto.
Ma nella giornata ciascheduno ha il suo ordine di giaculatorie o di comunione spirituale, soprattutto i momenti in cui ricorda la meditazione. E allora si può così tenere sempre in comunicazione con Dio. E finché siamo in comunicazione con Dio, l'acqua della grazia continua ad arrivare, a fluire; e se invece chiudiamo il rubinetto, allora l'acqua non viene più. Bisogna sempre che teniamo il rubinetto aperto, cioè la comunicazione con Dio, e <non> il canale per cui arriva la grazia a noi non sia otturato.
Sì tenerci in comunicazione con Dio nell'abituale raccoglimento e nella letizia santa, perché chi sta con Dio è sempre lieto e un po' di letizia la sparge attorno a sé. Sebbene uno si presenti esteriormente serio, tuttavia effonde quello che ha nell'anima, cioè la letizia di chi vive unito a Dio, che è beatitudine, la stessa beatitudine.
Il Signore ci benedica tutti e ci dia la grazia, l'intelligenza della preghiera: che grande sapienza!
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-03-15_fervore.mp3
durata 25.33

Don Giacomo Alberione - Roma, 15-03-1961 - ai discepoli ssp

Il fervore, la prudenza, la pazienza, la Madonna, in preparazione alla festa di San Giuseppe


Il fervore si mostra in due cose: si dimostra nel lavoro spirituale, cioè nella preghiera e nell'emendazione e nell'acquisto delle virtù, crescendo in perfezione; e, secondo, si manifesta nel compiere il proprio apostolato. Quando vi è la generosità che precede dai lumi di Dio, quando vi è questa generosità, allora vi è il fervore di opere. Quindi il duplice fervore: spirito e opere.
E che cosa ci vuole di più per diventare santi? Quando uno è unito a Dio in spirito e quando uno fa il volere di Dio, cioè è unito alla sua volontà: ecco la via della santità.
Nell'apostolato avete operato bene, da quanto ho veduto nei resoconti, sì, operato bene si può dire tutti. E d'altra parte la vita è sempre secondo lo spirito interno. Si è generosi quando si ama il Signore, quando si vuole arrivare alla santità, quando si pensa al Paradiso, al Premio.
Sì, quanti vanno scioperando, perché vogliono aumento di stipendio e minori ore di lavoro; e sono sempre un po' indirizzati così gli scioperi: abbassare il lavoro, cioè diminuirlo, abbassar le ore e invece aumentare la paga. Voi non avete abbassato le ore, ma avete aumentato la paga. E la paga è sicura, più sicura che non il ricevere al sabato [il salario del]la settimana. Perché il ritardare vuol dire accumular le settimane, per ricevere tutto assieme; e più saranno le settimane e più grande sarà la ricompensa: la ricompensa che sarà fatta secondo una misura divina, mica la misura umana.
Abbiamo a Torino le impiegate che tengono gli uffici, contabilità, ecc. per mancanza di personale, e ci vuole una giornata a fare i conti, al sabato, ci vuole una giornata. Ma ciascheduna riceve secondo i contratti, i contratti privati e i contratti che son regolati dai contratti nazionali, per rimanere a posto in senso umano e in senso soprannaturale.
Ma il Signore ha un'altra misura; non fa tanti conti. I suoi conti sono tutti ispirati alla misericordia. “Una misura buona vi darà; vi darà una misura colma, pigiata e versante”: quattro aggettivi ha messo il Signore. E cioè la sua misura eccede i nostri meriti. Il Signore non castiga mai più di quello che uno merita; ma quanto a premiare e dare, lì non dà soltanto secondo la misura: “Non aestimator meriti, sed veniae, quaesumus, largitor admitte”. Ci vuole in Paradiso non guardando i nostri meriti, ma misurando la sua misericordia, che perdona le nostre deficienze e invece più opera secondo la bontà del suo cuore.
“Aspettate: chi ha fiducia non resterà confuso in eterno”. Dire bene l'atto di speranza, del Paradiso e delle grazie necessarie per fare per opere buone, per far bene l'apostolato, mediante “le buone opere che io debbo e voglio fare”. Duplice cosa: la speranza del cielo, la speranza delle grazie necessarie per meritare il cielo. E questo mediante le “opere buone che io debbo e voglio fare” che sono quelle stabilite secondo la vocazione del Discepolo; il quale, se ha buono spirito, cammina tranquillo, sereno, non guarda gli altri, non fa paragoni, bada a se stesso, è unito con Dio, compie dal mattino alla sera, da un anno all'altro, il santo volere di Dio. Ecco quello che volevo ricordare stamattina: chiedere la prudenza di san Giuseppe. [Nella] sua novena, suo mese, sua festa prossima, chiedere la prudenza a san Giuseppe.
La prudenza essenzialmente sta nell'ordinare la vita all'eternità. Chi è più imprudente di colui che fa il male e può morire in peccato? Chi è più imprudente di chi pensa solo alla terra e quando viene la malattia grave e si trova vicino alla morte, guarda e le mani son vuote e i peccati fatti son tanti. E anche se quel morente si trova in una gran sala, diciamo, almeno in una gran camera dove tutto è ben ornato e dove stanno i titoli dei suoi soldi, i contratti e i libretti che attestano il denaro che ha la banca, e se lui ha fatto tutto questo, miliardi, miliardi, ma per sé non ha fatto niente, per l'eternità, è il più povero che c'è! È infelice!
Lavorare solo per gli altri, accumulare, trovar lì nel contare i soldi la propria gioia e non poter fare un elenco dei meriti e delle opere buone che son compiute: la massima imprudenza è quella, l'imprudenza generale. Cosa vuol dire imprudenza? Imprudenza è il contrario della prudenza.
E invece è beato l'uomo il quale ha conosciuto che cosa sia la vita, a che cosa sia ordinata la vita, cosa si deve fare in vita, ecco. E allora ordina tutto silenziosamente nel volere di Dio, accumulando giorno per giorno tesori per l'eternità.
“Fidelis servus et prudens, quem constituit Dominus super familiam suam”: servo fedele e prudente, prudente san Giuseppe, al quale il Signore affidò la famiglia. Quale famiglia? Maria e Gesù, Maria e Gesù, ecco. Custode del suo Signore, fu Giuseppe, perché prudente; custode del suo Signore e custode della Vergine benedetta, della Vergine Maria, e difesa della Vergine Maria e difesa per la vita di Gesù. Nessuno poteva calunniare Maria; nessuno poteva operare più rettamente – possiamo dire – di san Giuseppe: sia quando “voluit occulte dimittere eam” e venne assicurato dall'angelo; sia quando si portò a Betlemme perché c'era la prescrizione di dare il proprio nome nel paese di nascita, di origine; e sia quando cercò a Betlemme un rifugio nella grotta; e sia quando, avvertito dall'angelo che Erode cercava il bambino a morte, partì e partì di notte e si fermò là finché erano morti quelli che volevano colpire il bambino, che ne volevano la morte.
Prudente in tutto è stato, ma più di tutto nel farsi santo. Ed è il più gran santo, dopo la Vergine. E allora? Chi può temere di non aver le grazie? e di essere in condizione di non potersi far santo come un altro? Lo spazzino può farsi più santo del Papa.
Abbiamo finito ieri di leggere la vita di una santa, la quale fu beatificata due secoli fa e fu canonizzata una sessantina d'anni or sono. Visse nascosta, in convento chiuso, e dove c'è il silenzio, sono come le trappiste in sostanza: cistercensi. Fu colpita dalla lebbra e caddero a poco a poco le dita delle mani, dei piedi, perdette la vista, le labbra caddero, ridotta in uno stato così pietoso. Eppure andava dicendo: “Più grazie di così il Signore non poteva farmi; perché io compio la mia missione e cioè soffrire perché c'è quella certa anima che ne ha bisogno, c'è quella certa grazia da ottenere alla Chiesa. Come mi adopera il Signore! come si degna di servirsi della sua serva per quello che è di sua gloria! E poi dopo essersi servito, premiare. E aspetto il premio”. Quando già le avevano amministrato l'olio santo e credevano che non raggiungesse la sera, ella visse ancora un anno, ancora un anno, perché il Signore vuole ancora che compia una missione riguardo ad una certa anima. E soffrì ancora quell'anno e quando la grazia fu ottenuta, ecco, dopo la comunione, disse: “Oggi muoio, ho finito la mia missione”, ecco.
Allora ciascheduno sulla terra ha qualche cosa da fare.
Prudenza [è] accettare il volere di Dio. Perché è prudente accettare il volere di Dio? Perché non ci può essere altri più sapienti di Dio e che ci ami come Dio; e allora quel che dispone sappiamo che è nel suo amore per noi e nella sua sapienza, sapienza che tutto regge e tutto ordina al fine, cioè alla salvezza, alla santità. Prudenza, prudenza!
Qualche cosa: gli imprudenti vanno con i meno buoni, con i meno saggi, con i meno sapienti, gli imprudenti; i prudenti cercano amicizie, invece con chi è migliore, con chi, camminando, impara quello che è la verità e quello che è il bene, quello che è la vita di disciplina nel senso giusto, la disciplina divina.
Ci dicevano sempre: “Se siete prudenti, fatevi e accompagnatevi con i migliori; se siete prudenti nelle malattie, cercate i migliori medici; se siete prudenti, cercate di operare con le migliori banche; se siete prudenti, comperate il macchinario dalle migliori ditte; se siete prudenti, cercate le migliori ditte per costruzione”; e così una serie di cose dove si mostra la prudenza.
Vi sono poi tanti mezzi di prudenza. Se tu apri proprio gli occhi e tutto vuoi vedere e quando esci e quando sei in casa, e qualunque proiezione e qualunque comunicazione di televisione; e se tu vuoi sentir tutto e interessarti di cose che non ti riguardano, tu spendi il tempo in cose inutili, anzi, ti crei tentazioni. Poi dici che è il diavolo che ti tenta, e magari sei tu che ti tenti.
Se con quel fratello tu sai che non ne guadagni, anzi che ne perdi, lui faccia la sua strada e tu fa’ la tua. Ma i meno buoni cercano i meno buoni, come i più buoni cercano i più buoni.
Un po' di esame qui sopra. Quando intervengono le mormorazioni, le critiche, quello è come un campanello: “Guarda che qui ti metti in pericolo per il tuo spirito: allora meno fervore, meno docilità, meno generosità”. Quel giudicare e condannare gli altri, se lo sentite, allontanatevi, che poi giudicherà e condannerà voi!
La nostra natura è stata guastata tanto dal peccato originale, non deformata, ma guastata; e allora le tentazioni son sempre continue e nessuno è mai sicuro.
L'anima che è prudente prega, vigila. Preghiera e vigilanza: “Vigilate et orate”, dice Gesù. Ci tentano e poi? Guardano il mondo dalla finestra e quasi lo invidiano e poi? Disastri della vita! Disastri! Perché uno perde tutto quel complesso di grazie che il Signore gli aveva preparato e in morte dovrà confessare: “Io non ho fatto sulla terra il volere di Dio, quello che il Signore voleva da me; e che cosa domanderò che egli mi paghi, se non ho fatto quello che mi ha ordinato?”. Come portando noi l'esempio: se il vetraio non ha fatto ciò che gli abbiamo ordinato, non lo si paga.
È meno grave la tentazione contro la purezza, un giorno, che non la tentazione contro la vocazione, vedete. Perché la purezza supponiamo che vada proprio male e ci sia un peccato: quod Deus avertat, che il Signore non lo voglia sicuro, dia tanta grazia di mai commetterlo. Ma quello è l'effetto di un momento e poi c'è la confessione. È peccato sicuro e grave, quando è grave. Ma la tentazione contro la vocazione riguarda tutta la vita, per cui uno è portato fuori di strada per tutta la vita, sempre in una posizione che non era quella che voleva il Signore.
Quindi che cosa riceverà dal Signore? Non c'è rimorso più acuto di questo: quando uno ha tradito la vocazione; in morte non c'è rimorso più acuto. Perché vi saran tante debolezze, fragilità; eh, sì, dobbiamo sempre armarci con la preghiera. Tuttavia debolezze, fragilità che non sono scusabili, certamente. Ma quale maggior gravità quando invece uno deliberatamente, coscientemente, dopo la quantità di grazie che ha ricevuto, decide di vivere non secondo Dio, ma secondo la sua volontà, secondo le sue passioni! Non lasciate entrare le tentazioni! “Et ne nos inducas in tentationem”. [...] Perché la tentazione è anche una prova; ma se noi non fossimo capaci di superarla, “ne nos inducas in tentationem”, “non permettere che siamo tentati”. E se poi [...] “libera nos a malo”, perché anzi facciamo, riportiamo una vittoria: per cui il premio eterno.
Vi è una prudenza diabolica, che si chiama “prudentia carnis”: quando uno tenta di ingannare e non vuole ammettere i suoi difetti, e cerca di far di nascosto, e si finge buono, ipocritamente. È chiamata “prudentia carnis” da san Paolo; e san Paolo sapeva bene.
Vi sono persone che non si lasciano correggere, non si lasciano aiutare, neppure dal confessore e tacciono le cause per cui ci sono le cadute.
E <vi è la superbia, cioè > vi è la “prudentia spiritus”, la “prudenza spirituale”, che è questa: essere aiutati a correggersi, essere aiutati a crescere in santità, prendere tutti i mezzi. Guai se il diavolo un giorno ci trova disarmati! cioè disarmati della grazia di Dio, perché non abbiamo pregato. E guai se noi facciamo imprudenze a non vigilare, a non stare attenti sui sensi, sulla fantasia, sul cuore, sui pensieri!
“Fidelis servus et prudens”: guardiamo a san Giuseppe, chiediamogli la fedeltà, chiediamogli la prudenza. Ma la prudenza è la prima virtù cardinale, neh? E quindi non ci sarà poi la giustizia e la fortezza e la moderazione: se manca la prima non ci possono venir le altre, come se non c'è il primo gradino, non si possono fare gli altri; perché le virtù cardinali sono la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza, che vuol dire moderazione.
Un “Padre Nostro” a san Paolo per ottenere questa grazia: prudenza generale per tutta la vita e prudenza particolare nelle varie occasioni.
Padre Nostro...
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-03-28_vocazioni.mp3
durata 27'31''

Don Giacomo Alberione - Ariccia, 28-03-1961, ai sacerdoti ssp


Esempio di Gesù e di San Paolo per i giovani - Doveri dei maestri


Questi due giorni [sono] consecrati intieramente allo studio e alla preghiera per la formazione dei religiosi, formazione dei sacerdoti paolini.
Educare in Cristo.
Consideriamo come il Padre celeste educò Gesù Cristo e lo preparò al ministero pubblico e come Gesù Cristo educò san Paolo e lo preparò al ministero pubblico.
E quello è il metodo divino: non è un metodo, è il metodo. Non ci son discussioni da fare: sempre vado dicendo – e bisogna dirlo –: prima che siano cristiani, prima che siamo cristiani, e poi allora religiosi, sacerdoti, secondo la divina vocazione che ognuno può avere, ecco.
E allora come educò il Padre celeste il suo Figliuolo incarnato?
Ecco: lo fece nascere in una stalla: estrema povertà.
E subito cominciò la sua formazione: l'esercizio della volontà di Dio, lo spirito di umiltà, “exinanivit semetispum, humiliavit semetipsum, factus oboediens usque ad mortem”.
E egli subito dovette sentire che cos'era il mondo: il mondo odia Gesù Cristo e odia coloro che son fedeli a Gesù Cristo, tanto più chi è apostolo di Gesù Cristo. Quindi l'odio di Erode: cercato subito a morte, deve fuggire in Egitto, rimanere là finché piacque al Padre celeste, [in] paese straniero. Poi lo ricondusse, il Padre celeste, nella terra d'Israele e anche lì timori, paura di Archelao, che regnava al posto di Erode.
E allora nella ispirazione a San Giuseppe, si ritirò a Nazareth, paesello piuttosto povero, sì, paesello che non aveva nessuna fama. “Quid boni a Nazareth?”, “È venuto qualcheduno buono da Nazareth forse?”, ragionavano, “e potrebbe venir uno che voglia dettare a noi la sua legge, una dottrina nuova?”, ragionavano.
E passa un anno, passano due, passano tre. E quel bambino è il Figlio di Dio incarnato. E come va? Come i bambini comuni: [ha] bisogno di tutto; la mamma deve nutrirlo [con] il latte; deve vestirlo [con] i pannicelli; deve preparagli un letticciuolo; deve preparargli poi una piccola vivanda; quando è già a tre-quatto anni, chiama mamma Maria, chiama papà san Giuseppe. Umiliazione!
E poi comincia a manifestarsi il pupetto. E Maria gli insegna le orazioni, lo invita a pregare; san Giuseppe comincia a disporre qualche cosa di lui; è mandato a prendere acqua alla fontana; è mandato a fare un po' di pulizia, a raccogliere i trucioli che cadono dal banco di san Giuseppe e avanti. E lo custodiscono come un bambino comune: che non vada coi cattivi compagni, che alla sinagoga al sabato lui vada con Maria e con Giuseppe.
E finalmente a 12 anni, secundum consuetudinem diei festi, come facevano Giuseppe e Maria, anche lui va a Gerusalemme a celebrare la festa prescritta secondo la legge. Là <come> si smarrisce, diciamo, o meglio <come> egli si premura del Padre celeste, della sua gloria: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. È cercato come se fosse un ragazzo abbandonato, sì, e non avessero avuto abbastanza cura Maria e Giuseppe. E lo sgridano: “Quid fecisti nobis sic? ecce pater tuus et ego dolentes quaerebamus te”. Dà il saggio di vocazione però: “Nesciebatis quia in his quae in Patris mei sunt opertet me esse?”.
E “descendit Nazareth et era subditus illis et crescebat sapientia aetate et gratia”, come un ragazzo dei nostri istituti, del nostro piccolo vocazionario, prima, seconda, terza media, media ginnasiale, un ragazzo comune.
E suo papà putativo già lo addestra un poco al lavoro, gli insegna e lui apprende a segare, a portar legno, a piantar chiodi, fare quei mobili più o meno intarsiati, ascolta come un garzoncello di bottega, di laboratorio.
Il Padre celeste che manda il suo Figlio sulla terra a fare il falegname: mistero, mistero!
Ma questo è solamente educativo per noi. Bisogna che li facciam santi nell'umiliazione, nell'esercizio dell'obbedienza e che passino di scuola in scuola, e che sian promossi e che studino e che tengan d'acconto e pratichino la povertà e vivano la castità, come Gesù, e la docilità: subditus illis.
E chi può dire qualche cosa qui sopra? Se ha obbedito il figlio di Dio incarnato! È più da ammirarsi che due creature comandino al Figlio di Dio incarnato o più da ammirarsi l'obbedienza, la docilità di Gesù a due creature?
E va avanti un anno, un altro e poi come fosse un figliuolo di famiglia comune: muore il papà, eredita la bottega, diciamo, cioè il suo mestiere, che già aveva imparato, lo continua. E vengono quei di Nazareth a ordinare il mobile e fargli aggiustare una sedia. “Nonne hic est faber?”, “Non è il fabbro del paese?”, si domandavano quando egli si mostrò qual era, il Messia. Lo stimavano così: il falegname del paese, come c'è il calzolaio del paese, di queste borgatelle.
E quando era solo con Maria, che santi discorsi! Ritirato, laborioso, abbondanza di preghiera, pazienza e carità con tutti, in tutte le virtù domestiche, tutte le virtù sociali che già cominciavano a essere da esercitarsi, crescendo 20 anni, 25, verso i 30.
Così il Padre prepara il sacerdote, prepara il religioso suo, religiosus Patris, prepara l'ostia di propiziazione, eh sì, così.
E Gesù a un certo punto lascia la Madre, lascia il paese e si ritira. Ha ancor da finir la preparazione al ministero, ché il Padre lo vuole. E deve fare ancora: 40 giorni di digiuno; ricevere il battesimo mettendosi in fila con quei che andavano dal Battista per essere battezzati, mettersi in fila [aspettando] il suo turno. “Dovrei io venire a ricevere il battesimo da te, perché tu vieni a me?”. Ma risponde: “È necessario che si compia tutta la volontà del Padre”. Quindi la preparazione fino alla fine. “Se non capisci, è necessario però che si compia tutta la volontà del Padre”, risponde. E discende nell'acqua ed e battezzato.
E la preparazione è finita. Allora il Padre celeste si affaccia dal cielo: “Questi è il mio Figlio diletto”. E tu quando accompagni quell'aspirante ai voti perpetui che possa dire: “È un figlio diletto”. Tu che accompagni quell'aspirante al sacerdozio, lì per la consacrazione: “Questi è il figlio diletto in cui mi sono compiaciuto”. Ha fatto bene la sua preparazione.
Dopo comparirà un'altra volta la voce del Padre che aggiungerà alle parole “Questo è il Figlio diletto che mi piace”, aggiungerà: “ipsum audite”, in quanto la preparazione è stata fatta bene.
Metodo divino!
Nel sacrificio, nell'umiltà, nell'esercizio della povertà, nel lavoro, stiano pure al banco della compositoria, facciano pure la pulizia anche ai gabinetti e specialmente quelli che hanno un po' di cresta o quelli che si mostran un po' più gentili, metterli agli uffici più umili, più umili, in proporzione dei doni che hanno. Perché dopo, se uno ha molti doni e sa vivere umilmente, farà tutto il bene che è nei disegni di Dio; altrimenti, gente magari vuota!
E notavo qualche volta al consiglio generalizio: “E questo?”. Mi risponde: “È un vanesio, un vuoto, pieno di se stesso, ma vuoto. Non si sa quanta scienza abbia, perché non va a fondo. Non si sa se abbia l'amore all'apostolato, se abbia un po' di zelo dentro al cuore, se abbia pietà. Vanesio! cosa volete?”. Eh cosa volete? Dopo danno il voto: due sì, due no. E bisogna che intervenga il superiore generale a mettere il suo sì o il suo no, prendendosi tutta la responsabilità. Signore, prendetelo come è, oppure dateci il lume per escluderlo.
E scriveva il Maestro Giaccardo, dopo che aveva prolungato il tempo dell'ordinazione quando era in Alba, direzione di casa Madre; a un certo punto mi dice: “O lo prendiamo com'è e ricaveremo ciò che può fare, oppure ora è tempo di dimetterlo: ha già la tonsura. Rifletti – è detto ancora – e fate il consiglio”. Tre contro uno. E dopo? Dopo si è sposato civilmente: ecco la fine. Eppure l'avevano ancor fatto stare a casa per sei mesi, perché: “Facciamo ancora una prova: stia a casa sei mesi; si confidi col suo parroco; sentiamo anche il giudizio del parroco, perché è troppo dubbio questo figliuolo”. Sei mesi ancora a casa. Il parroco finalmente dice: “Mi par d'averlo esaminato bene, mi pare che possiate procedere con sicurezza”. Se non riceviamo una visione da Dio, bisogna che giudichiamo secondo quel che si vede e il superiore generale deve dire il suo sì quando c'è tutto un consiglio e consiglio anche straordinario, perché il consiglio del parroco non era necessario, perché la congregazione deve giudicare in se stessa; ma per uno scrupolo di coscienza, [abbiamo voluto] interrogare anche chi è fuori.
Oh, così. Metodo divino! E si risparmia.
Si prende il ragazzo perché fa più apostolato con delle caramelle dolci. Ma se lo fate per quello, non amerà l'apostolato, bisogna che lo faccia per il Signore con entusiasmo. “E per questo, se farete così, una bella passeggiata”: e la passeggiata si farà lo stesso, la passeggiata si dà per riposo del fisico e per anche un sollievo, riposo dello spirito, sì, per altri motivi o perché si va a un santuario a fare una visita alla Madonna o un piccolo pellegrinaggio, eccetera, oh, e non cose straordinarie, non premi straordinari.
Quel che è necessario [sia dato] in abbondanza, quello che è solamente soprappiù sia educato al sacrificio, perché “chi vuol venir dietro di me rinneghi se stesso”, eh!
Se non li abituiamo al rinnegamento, all'abneget semetipsum, quando si tratterà di scegliere tra Dio e il mondo, non aspettiamoci che rinneghino il mondo! Si son mai rinnegati, quella gente, e sono stati lì perché volevano studiare, perché quello è meglio che andare a lavorare, è più leggero, e perché avevano servizio di tutto, non pagavano un soldo magari. E non prendetevi male se non pagano almeno qualche cosa, perché si veda se i genitori son disposti a fare qualche sacrificio e poi lo aiutino nel seguire la sua strada.

San Paolo: come lo ha formato il suo discepolo caro, quello che poi “his omnibus laboravi”? Oh, lo butta giù da cavallo con quella luce straordinaria, lo umilia e lo fa cieco, gli si rivela sgridandolo: “Perché mi perseguiti?”. Allora lui domanda: “Che cosa devo fare?”. “Va' a obbedire!”, comincia: “Va' in città! ti dirà cosa dovrai fare, ti diranno cosa dovrai fare”. E comincia con l'obbedienza, perché il Signore gli manda colui che doveva battezzarlo, istruirlo e iniziarlo quindi alla vita nuova, cristiana.
E lui, pieno ormai di amore a Gesù, sentendo di dover riparare il suo passato di persecutore, comincia a predicare. E Gesù: “No, non è tempo!”. A Gerusalemme di nuovo tenta di predicare: “No, non è il tempo! Va', non sei preparato”. E lo conduce per la grazia dello Spirito Santo nel deserto più di tre anni: far penitenza, lavorare, pregare e essere istruito, perché non fu istruito dagli apostoli, in generale, ma fu istruito direttamente da Gesù Cristo.
Passato quel tempo di preparazione, entra nell'apostolato? Non ancora! Torna al suo paese. Non era il tempo. E sta umile e comincia i suoi lavori e non si muove, finché non viene Barnaba a chiamarlo, finché cioè non abbia la chiamata canonica della Chiesa, perché Barnaba andava a nome del clero di Antiochia.
E va e si unisce e si mette l'ultimo là, nel clero di Antiochia. E negli “Atti degli apostoli” stessi son nominati quelli che appartenevano al clero: è messo l'ultimo: “E anche un Paolo c'era”, come fosse uno che contava poco, che non si era ancor distinto per niente. E non si mosse finché non venne la voce di Dio: “Segregatemi Paolo e Barnaba al ministero a cui li ho chiamati, destinati”. E allora digiuno, e allora la consacrazione, e allora obbedienza: “Partite!”. E divenne quel che sappiamo.
Questo è il metodo divino del Padre celeste e del Maestro educatore.
Fissiamoci proprio nella mente, mattino per mattino, domandare al Signore: “Che io sia un educatore come te, che segua il tuo metodo!”. Perché ognuno dei nostri riuscirà in quanto si sarà distaccato, si sarà sacrificato e avrà praticato l'abneget et tollat crucem suam et sequatur me.
E che cosa poi lui prometteva agli apostoli? “Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la croce e mi segua”. E quell'altro voleva seguirlo: “Guarda bene, eh!: rinnega te stesso, non solo, ma rinuncia a tutto ciò che possiedi, poi vieni e seguimi”. E all'altro: “Guarda però che, se vieni con me, le volpi han le tane, gli uccelli il nido, ma io non ti faccio mica ricco. Io non ho una pietra su cui posare la testa. Perché? Perché se mi metto in un posto a sedere o a riposare nella notte, può venire colui che è proprietario di quel terreno, quindi di quelle pietre, e mi dice: Va' via! questo è mio”. Come poteva venire il pecoraio, poteva arrivare alla capanna dove Gesù è nato, poteva dire: “Eh? cosa avete fatto? vi siete venuti a metter qui, dove la capanna è mia, la grotta è mia: bisogna che andate via!”.
E nacque senza nulla. E per sepolcro un sepolcro imprestato in carità.
Questa è la via divina: chi non si sente di educare così, non sarà mai un maestro e formatore. Sarà formatore di gente che va a cercare la vita comoda, che si risparmierà sempre i sacrifizi, che dirà sempre: “Questo è tropppo, chiedermi questo qui, impormi quel là” e “qui bisognerebbe ancora questa comodità”. Anziché vivere nella povertà, nei debiti, vai proprio nella stanza dell'economo: là c'è tutto. Ma guarda se lì può venire la benedizione in quella casa! Se tira su quella casa!
Scriveva don Zanoni pochi giorni fa dall'Oriente: “Dica pure, quel che già tante volte ho sentito a ripetersi a me: manchiamo di superiori e manchiamo di economi”. E io dico sempre: manchiamo alle volte di maestri, specialmente di confessori buoni, scrittori buoni e maestri che sappiano fare la direzione, capire ognuno, andare al fondo di un'anima e guidarla bene.
Ora il tempo è passato.
Educare al sacrificio, seguire il metodo divino: questa è sapienza ed è garanzia.
Se non ci sarà un gran numero, ci saranno dei cuori di apostoli, delle anime consecrate davvero a Dio, gente che prima si è fatta cristiana, – “rinneghi te stesso, le passioni”, – poi si è fatta religiosa, poi si è fatta sacerdote. Bisogna sempre predicarlo molto. Persone che si vogliono consecrare a Dio, ma non si fanno abbastanza cristiani, perché non hanno ancor la purezza, perché non hanno ancora il senso della giustizia. Amministrano come fosse loro cosa, mentre che tutto è della comunità. E non si può amministrare liberamente! Qualcheduno è poi ancora andato nello sproposito enorme, per cui si è sentito una sgridata ben forte, ma non da me.
La saggezza ci insegna delle cose sante. E, sì, tutte le case progredirebbero bene, tutte, se anche progredissero come fanno alcune case, parecchie case, forse il più delle case, sì, il più delle case senz'altro, anche economicamente, anche apostolicamente, anche spiritualmente, anche intellettualmente sotto ogni aspetto quindi.
Educare come ha educato il Padre celeste, ha educato Gesù e poi si è compiaciuto: buona riuscita: “Figlio diletto in cui mi sono compiaciuto”. Come Gesù Cristo stesso ha educato Paolo.
E sempre ci vogliono gli incoraggiamenti, ma che nascano da motivi di santità, di amor di Dio, da motivi di fede.
Domandiamo questa grazia di saper educare.
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-04-26_peccati.mp3
durata 31' 38''

Don Giacomo Alberione - Roma?, 26-04-1961 - ritiro ai sacerdoti ssp

I peccati mortali e i peccati veniali


Andiamo incontro alla Regina: mese di maggio. E allora dobbiamo prepararci con le vesti candide. Il mese di maggio è un mese di grazia, di letizia, un mese che porta sicuramente qualche progresso: preparazione quindi degna, conveniente.
E per questo purificazione, purificazione da tutto quello che può costituire un ostacolo alla grazia. Considerare i tre elementi negativi, diciamo, in riguardo alla santificazione, tre elementi negativi, per escluderli: il peccato grave, il peccato veniale, l'imperfezione volontaria.
Ora per questo penso che sia ottima cosa seguire il libro che avete stampato e ristampato: “Teologia della perfezione”.
In primo luogo: il peccato grave. E serve per la nostra considerazione, ma il titolo qui è: Le avvertenze per il direttore spirituale perché le anime a lui affidate sappiano vincere, allontanare il peccato.
Oh, allora ecco alcune verità che il sacerdote dovrà inculcare alle anime se vuole sottrarle al peccato. Indica subito i mezzi: primo: fuga delle occasioni pericolose; secondo: frequenza ai sacramenti; terzo: l'esame di coscienza quotidiano, che serve a reprimere le sorprese e anche a prevenirle, evitar le cadute; tenera devozione a Maria; evitare l'ozio padre dei vizi; preghiera frequente e fervente al Signore perché conceda la grazia efficace di mai offenderlo.
I danni del peccato grave. Possiamo leggerli attentamente, adagio, con qualche riflessione. «Il peccato mortale dev'essere un male gravissimo, dal momento che Dio lo punisce con tanto rigore. Nonostante la sua infinita giustizia e la sua sconfinata misericordia che non gli consentono di castigare i colpevoli più di quel che meritano, sappiamo che per un solo peccato mortale» [sono dannati]; e tuttavia non castiga quanto meritano: “citra dignum”, dice san Tommaso, parlando anche dei demoni e dei dannati dell'inferno, che li castiga citra dignum.
«Ciononostante:
– Primo: mutò gli angeli ribelli in orribili demoni per tutta un'eternità» e tuttavia Dio non li ha castigato ancora quanto meritavano;
– «Secondo: il peccato grave cacciò dal Paradiso i nostri progenitori e – ciò che più vale – sommerse l'umanità in un mare di lacrime, di malattie, di guerre, di morte». E quali peccati nella storia, quali infelicità! quali abissi! anche a sentir solamente nominare sei milioni di Ebrei passati nei forni crematori: quale abisso di male ha provocato quel peccato!
– «Terzo: il peccato mortale alimenterà per tutta l'eternità il fuoco dell'inferno, onde punire coloro che furono sorpresi dalla morte in peccato mortale». Possiam pensare a Giuda.
– «Quarto: Gesù Cristo nel quale il Padre aveva riposto tutte le sue compiacenze, quando volle rendersi mallevatore per l'uomo colpevole, dovette soffrire i tormenti della passione e soprattutto sperimentare su di sé l'indignazione della divina giustizia, fino ad esclamare: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”».
Questo per quel si può considerare il peccato dall'esterno, dagli effetti, dalle conseguenze.
«In sé il peccato grave. Tutto questo perché il peccato è un'ingiuria fatta a Dio, maestà infinita e racchiude una malizia in certo modo infinita: “Peccatum contra Deum commissum quandam infinitatem habet ex infinitate divinae maiestatis” (san Tommaso).
I danni che produce all'anima. Il peccato mortale nell'anima che lo commette causa:
– Primo: la perdita della grazia santificante, delle virtù infuse», in quella misura che sappiam dalla teologia «e dei doni dello Spirito santo.
– Secondo: la perdita dell'amorosa presenza della santissima Trinità in noi.
– Terzo: la perdita di tutti i meriti acquistati nella vita passata, fossero pure stati meriti molto insigni.
– Quarto: una bruttissima macchia, macula animae, che la ottenebra e la rende orribile.
– Quinto: schiavitù di Satana con rafforzamento delle cattive inclinazioni e i rimorsi della coscienza». Nella Scrittura dell'Antico Testamento “vermis non moritur” indica specialmente i rimorsi della vita presente; ma Gesù: “vermis eorum non moritur”, ma legato alle pene dell'inferno, quelle stesse parole.
– Poi «la impossibilità finché l'anima rimane in quello stato di acquistare merito», perché le azioni non procedono dal principio vitale che è la grazia, che è Gesù Cristo in noi, che opera in noi, “sine me nihil potestis facere”, non c'è più in noi.
– E poi «la pena eterna, il Peccato mortale è infatti l'inferno in potenza. Considerato nella vita, specialmente nella giovinezza, il peccato mortale rappresenta il crollo di tutta una vita spirituale e forse di una vita buona, cristiana e costituisce un vero suicidio dell'anima». E quindi il pericolo di eterna dannazione. Perché, se non ci stiamo buoni quando siamo in grazia, e così siamo deboli anche quando siamo in grazia, che cosa si può pensare poi quando l'anima è senza la grazia, è privata della grazia?
Oh, poi alcune parole sul peccato veniale.
«Il peccato veniale non è il peccato mortale e mille peccati veniali non farebbero un solo peccato mortale. E tuttavia è un male morale: esso si trova ancora sul piano del piano morale che è il maggiore di tutti i mali. Al suo confronto impallidiscono tutti i mali e le disgrazie di ordine fisico che possono ricadere su di noi e sul mondo intero. Né malattie né la morte sono così gravi. La conquista di tutte le ricchezze del mondo e il controllo sull'intera creazione non riuscirebbero a compensare il danno soprannaturale arrecato all'anima da un solo peccato veniale».
Natura del peccato veniale. E dice: «Ci troviamo di fronte a una delle questioni più difficili». Tuttavia non è il peccato veniale quello che opera contro Dio, ma è una deviazione dalla via che ci conduce a Dio. «Devia dal retto sentiero, senza tuttavia perdere l'orientamento fondamentale verso la meta».
E può essere il peccato veniale: ex genere suo, ex parvitate materiae, ex imperfectione actus.
«I peccati veniali non mutano di specie, son sempre veniali. Tuttavia un peccato veniale potrebbe diventar mortale:
– Primo: per coscienza erronea o anche seriamente dubbiosa riguardo alla malizia grave di un'azione che tuttavia si finisce con eseguire.
– Può diventare grave per il suo fine gravemente cattivo» e porta degli esempi che possono riferirsi anche alla vita di comunità, dove si può introdurre un'abitudine e si può introdurre qualche penitenza, la quale poi viene indicata.
– «Terzo: può diventar grave per il pericolo prossimo di cadere in peccato mortale.
– Quarto: per lo scandalo grave cui potrebbe dare occasione». E porta qualche esempio della vita del sacerdote.
– «Quinto: per il disprezzo formale di una legge che obbliga leggermente»: sì, il disprezzo formale della legge.
– Poi «per l'accumularsi della materia di molti peccati veniali». Questo tutti lo sanno: chi ha intenzione di rubar molto, anche che rubi poco per volta, materia leggera, la materia “coalescit”.
«Malizia. Vera offesa a Dio; secondo: disobbedienza volontaria alla sua legge; ingratitudine verso il Signore che ci ha favoriti. Per piccoli i peccati che siano, dai peccati avvertitamente voluti si degni Dio di preservarci. È tanto grave la malizia di un peccato veniale», per far capire con specie di paragone, «arreca tale offesa a Dio che:
– Primo: non si dovrebbe mai commettere, anche se con esso fosse possibile liberare tutte le anime del Purgatorio.
– Secondo: non lo si dovrebbe mai commettere anche per estinguere per sempre le fiamme dell'inferno.
Tuttavia per non agitare le anime delicate, ricordare che vi sono peccati veniali di pura fragilità e poi invece quelli che si commettono con piena avvertenza». [Per] quelli di fragilità, «l'unica cosa che conviene fare è cercare di diminuirne il numero ed evitare lo scoraggiamento, che suppone sempre un fondo di amor proprio, più o meno dissimulato, che si rivelerebbe fatale nel conseguimento della perfezione, come spiega san Francesco di Sales nella Filotea», sì.
Le parole sono: «Credetemi, Filotea, che come le ammonizioni fatte da un padre con dolcezza e cordialità ad un figliuolo per correggerlo hanno maggior forza delle collere e degli sdegni, così quando il nostro cuore avrà commesso qualche fallo, se lo riprenderemo con maniere dolci, tranquille, il nostro cuore, avendo più di compassione per lui che di passione contro di lui e animandolo ad emendarsi, il dolore che ne concepirà sarà molto più vivo, profondo, che non un dolore dispettoso, collerico, tempestoso».
E poi dice: «Per le anime che han buona volontà umiliarsi davanti a Dio, ma nello stesso tempo non meravigliarsi che l'infermità sia inferma e che la debolezza sia debole e che la miseria sia miserabile. Nondimeno detestate con tutte le forze le offese a Dio, allora con fiducia riprendersi».
Oh, dice poi che il peccato veniale riguardo ai religiosi è quello che in pratica spiega come dopo tante grazie, tante pratiche, tante – magari – prediche agli altri, siamo ancor sempre al punto quasi di prima. «Qualcheduno si meraviglia al vedere tanti religiosi che dopo aver vissuto quaranta o cinquant'anni in grazia, dicendo la messa tutti i giorni o facendo la comunione e praticando tutti i santi esercizi della vita religiosa e di conseguenza possedendo tutti i doni dello Spirito santo in grado fisico, in un grado fisico molto elevato e corrispondente a questa specie di perfezione della grazia che i teologi chiamano graduale, uno si meraviglia, dico, nel vedere che questi religiosi non danno nulla a conosce dei doni dello Spirito santo nei loro atti e nella loro condotta; al vedere che la loro vita è completamente naturale; che quando sono ripresi o disgustati mostrano i loro risentimenti; che manifestano tanta sollecitudine per le lodi, per la stima e il plauso; che si dilettano in questo, amano e cercano le proprie comodità e tutto quello che favorisce l'amor proprio. Non meravigliatevene: i peccati veniali, che commettono continuamente, trattengono come legati i doni dello Spirito santo. Non meraviglia che non se ne vadano avanti e non vedano in essi gli effetti» <in questi> in essi, cioè in queste venialità. «È vero che questi doni crescono assieme con la carità abitualmente nel loro essere fisico, ma non attualmente nella perfezione, che corrisponde al fervore della carità. Se questi religiosi procurassero la purezza del cuore, il fervore della carità crescerebbe in essi e crescerebbero sempre più i doni dello Spirito santo e si vedrebbero in tutta la loro condotta. Ma non si vedono mai molto appariscenti, perché vivono senza raccoglimento, senza tensione al loro interno, lasciandosi portare, trascinare dalle loro inclinazioni, non evitando se non i peccati più gravi e trascurando le cose che dicono piccole».

«Effetti:
– Primo: ci priva di molte grazie attuali il peccato veniale.
– Secondo: diminuisce il fervore della carità.
– Terzo: aumenta le difficoltà per l'esercizio delle virtù.
– Quarto: predispone al peccato mortale».
Questo nella vita presente. Nell'altra vita «il peccato veniale ha ancora una triste ripercussione nel purgatorio, nel cielo.
– Nel Purgatorio. “Tutto si paga”, diceva Napoleone, prigioniero nell'isola di sant'Elena». E cioè spiega: «in nessun campo questa sentenza è tanto vera quanto in quella relativa al peccato veniale». In cielo cioè «l'anima avrà per sempre un grado minore di gloria e di felicità in eterno in paradiso», perché ha trascurato di far l'opera buona, <invece che> lasciar la tentazione, invece che acconsentire.
– «Secondo: non solo avrà una gloria minore di quella che avrebbe potuto conseguire con una maggior fedeltà alla grazia; ma c'è una realtà ancora più deprecabile: per tutta l'eternità glorificherà meno Dio. Il grado di felicità proprio e di gloria divina sono commensurati al grado di grazia conseguito in questa vita. Perdita irreparabile, che causerebbe un vero tormento ai beati se potessero ancora soffrire!».
E poi viene la conclusione: «È necessario concepirne un grande orrore, senza il quale orrore al peccato veniale non vi sarà mai alcun progresso nella perfezione. Dobbiam lottare contro il peccato veniale con insistenza, senza mai darci pace. Occorre inoltre essere fedele agli esami di coscienza generale e particolare. Incrementare lo spirito di sacrificio e di orazione, conservare il raccoglimento interno ed esterno nella misura che lo permettono gli obblighi del proprio stato. Essere disposti sull'esempio dei santi a tutto sostenere pur di non commettere un solo peccato veniale deliberato».

Allora abbiamo da concepire questa sera un grande dolore per i peccati che avessimo commesso e nello stesso tempo un orrore per il futuro, onde evitare per sempre ogni peccato. Perciò diciamo: “Et ne nos inducas in tentationem”; ma non metterci noi o almeno poi uscirne vittoriosi, “et ne nos inducas in tentationem”; la giaculatoria che usiamo, che è presa dalle litanie dei santi, anche: “ab omni peccato” cioè e dal grave e dal veniale.
Tutto questo è detto per l'individuo, cioè per noi, cioè per noi ciascheduno; e secondo: per il direttore spirituale, che sia ammaestrato nel guidare le anime. Eh, bisogna che si faccia così!
Quando è venuto il maestro Giaccardo in seminario, allora io stavo in seminario. Al secondo mese, novembre – là si entra a ottobre – è venuto da me a dirmi che cosa doveva fare per farsi santo. È il primo passo questo: «Leggi “Il peccato veniale”!», quel bel librino che era uscito da poco tempo e adesso poi è stato ristampato varie volte: «Leggi “Il peccato veniale”! è un librino di centocinquanta paginette». Ne ha preso così orrore che credo che la vera ascensione per lui sia cominciata di là, da quel novembre. Per cui dopo, nella festa dell'Immacolata, tutto si è donato alla Madonna, chiedendo la grazia di conservarsi immacolato, non far mai discussione tra grave e leggero. È peccato? Abominarlo, fuggirlo <tamquam...> come dall'aspetto del serpente. E se Eva fosse fuggita dal serpente! Ma è inutile pensare a quel che è avvenuto in lei; dobbiam pensare a quel che dobbiamo fare noi e pensare a quel che dobbiamo insegnare.
Richiamo qui un discorso che mi venne recitato in questa settimana passata di nuovo e che lo sapevo, ho sentito altre volte a ripeterlo, del cardinal Schuster: «Vedete quanti mezzi adesso! E perché vogliono educare così e così. E divertimenti in abbondanza, perché si possa attirare la gioventù. Ah, portate ai sacramenti! portate all'odio al peccato! e poi fateli stare lieti!». La letizia allora diviene un mezzo per evitare la colpa. Ma bisogna combattere su un piano pratico: si tratta di un combattimento spirituale e ci vogliono i mezzi soprannaturali: la preghiera, la frequenza alla confessione, alla comunione, ecco, questi sono i mezzi fondamentali; gli altri sono di complemento, sì, e servono nella loro misura che possono servire. Tante cose si dicono adesso, ma il soprannaturale va considerato assai di più. Sì.
Nel programma dell'azione cattolica, scelto in questi giorni, vi è Gesù Cristo “luce” e, per i più alti dell'azione cattolica, Gesù Cristo “maestro”: da studiarsi, da spiegarsi, da proporsi nel corso dell'anno e da seguire.
E sono lì i mezzi: in Gesù Cristo.
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-03-27_vocazioni.mp3
durata 19'12''

Don Giacomo Alberione - Ariccia, 27-03-1961, ai sacerdoti ssp

Convegno di 2 giorni sulle vocazioni e formazione dei giovani
Introduzione


Ecco. Avete fatto forse un sacrificio a venire, ma abbiamo da trattare il problema più grave della congregazione, che poi allargando un po' la visuale, è il problema più grave della Chiesa: le vocazioni e la loro formazione.
Nel consiglio dei superiori, che si è tenuto tempo fa, si sono presentate anche delle cifre, come delle statistiche, delle riuscite e delle mancanze di riuscita. E allora è stata una... allora nel consiglio dei superiori è stata una voce sola: “Questo è un dramma!”. [...] ma quello è una cifra che non è unica; si sono ben considerate altre cifre. “È un dramma!” hanno esclamato insieme tutti i superiori. Qualcheduno ha usato una parola anche più forte.
Ma è facile scaricare le responsabilità sugli altri ed è più difficile dire: “Sono io”. Allora si è deciso di fare questa adunanza. E son contento, perché mi pare che ci siate tutti presenti gli invitati; [in] più ci sarà don Panebianco che dovrà anche parlare e don Speciale che deve prendere gli appunti.

Oh, qualche cosa di orientamento per le due giornate.
Non sono giornate soltanto di conferenze, no. Sono giornate in primo luogo di preghiera. Quindi tanto stamattina come per domani mattina nel programma era segnato la messa dello Spirito Santo: mancavano parecchi, ma fu applicata ugualmente, sebbene la liturgia non permetta la messa votiva oggi; ma l'applicazione è quella che dà il valore.
Ora per iniziare questi due giorni vediamo le condizioni che son necessarie perché sia assicurato il frutto. Un concentramento di Spirito, un mettersi in comunicazione col divino Maestro Gesù.
Occorrono due condizioni. Primo: entrare con fede, entrare con fede, cioè considerare Gesù Cristo Maestro unico di formazione e unico nella ricerca delle vocazioni, in quanto al suo metodo, al suo modo. Gesù Cristo è il Maestro unico, noi più ci modelliamo sopra di lui e più noi saremo degni di essere chiamati maestri e faremo la funzione, e adempiremo la missione che il Signore ci ha dato.
Metodi di qua, metodi di là... Gesù è il metodo vivente! Noi non dobbiamo seguire un metodo, ma noi dobbiamo seguire Gesù Cristo, che è il metodo vivente. Lo ha vissuto. Egli è la Via, la Verità, la Vita. La Via: per tutto quel che si richiede di sacrifi e di industrie per riuscire a formare i religiosi, i sacerdoti in modo particolare. Ed è la Verità perché ha parlato bene egli. Cosa bisogna dire a questi aspiranti? che cosa bisogna dire a quei parenti da cui aspettiamo le vocazioni? come bisogna parlare? e nello stesso tempo è colui che dà la grazia, la grazia.
Ora vengono fuori dei suggerimenti, metodi, ricerche: l'istituto ha già un proprio modo tradizionale di formare: e cioè intimamente dare Gesù Cristo Via Verità e Vita.
E in secondo luogo noi dobbiamo ancora tenerci a quella maniera che gradatamente va sempre più l'uniformarsi dei nostri superiori delle congregazioni dei religiosi e dei seminari. E certo non attribuiscono alla Società san Paolo quello che viene scritto, sebbene parecchie volte abbiam dovuto esporre la maniera con cui formare i nostri. E tenerlo. Perché è eccezionale ad esempio che ci sia l'apostolato tecnico e redazionale e divulgativo come è da noi. Eppure hanno adesso introdotto a poco a poco il lavoro, sentendo come la formazione non è completa se non vi è l'addestramento al lavoro, sì.
Dobbiamo tenere il modo tradizionale e dobbiamo pensare che questo spiritualmente <è in stato> è annunziato da Gesù Cristo, e cioè: “Io son la Via, la Verità e la Vita”.

Oh, in secondo luogo si richiede l'umiltà. Bisogna adesso, come introduzione, disporsi a migliorare la nostra formazione degli aspiranti, non pensare: “Io faccio abbastanza”. E allora bisogna cambiare certe idee per introdurne delle altre nella nostra mente, perché occorre sempre chiarire le idee per poter venire all'azione, sì. Se i nostri ragionamenti, i nostri principi sono giusti, allora l'azione di formazione è giusta.
Certamente che bisogna partire da alcuni principi. Primo: pensare che non solo la ricerca e la formazione degli aspiranti assicura la vita futura della congregazione, ma pensare che è un compito grave, è un compito faticoso, richiede una vita di continua immolazione. E chi non è disposto a immolarsi, a immolare tutti i suoi pensieri, le sue comodità, la sua maniera di pensare, il suo orario e la sua stessa salute, e tante cose che alle volte ci sembrerebbero bene e che invece dobbiamo lasciar da parte, ad esempio non caricarsi troppo di occupazioni... I maestri ne hanno delle occupazioni in abbondanza, perché una volta che ci sian 40 ragazzi da formare... Gesù aveva 12 apostoli, ne aveva 12, e ha impiegato nella formazione di essi la maggior parte del tempo del suo ministero pubblico: ne ha dedicato più a loro, del tempo, che non alle popolazioni. Allora presentarsi al Maestro divino e dire: “Ecco, quello che hai fatto tu, questo è ciò che devo fare io, guidami e dammi questa grazia di preparare a me una bella corona”. Quando un prete si troverà al giudizio di Dio ed avrà una bella corona di anime salvate da lui, specialmente di anime che sono arrivate a consecrarsi nella vita a lui, ecco la grande gioia, la grande felicità, la grande gloria, quello, sì.
Perciò escludere quello che impedisce ciò che è il principale ufficio, in quanto è possibile, per concentrare tutte le forze, lo studio e l'attività attorno a queste anime.
Non si ha dare dei buoni cristiani, in secondo luogo, ma si han da fare dei religiosi. Qui c'è un errore ancora un po' diffuso. Si cercan le vocazioni: “Se vuoi venire a farti prete”. No! “Se vuoi venire a farti religioso”: prete vien dopo. Come quando il cappuccino cerca i ragazzi, è già chiaro dalla sua veste, dalla sua barba che programma si prospetta il giovane, perché sa che cosa è il cappuccino, che vita deve condurre. A noi, non hanno ancora tutta la piena conoscenza della nostra vita: bisogna dirla chiaro qual è la vita: la vita religiosa. E certo che lì poi nei religiosi ci sono i sacerdoti e ci sono i discepoli. Ma che sappiano tutto chiaramente, sì.
E quindi anche non dire: “Ma io comincio a farli cristiani”. Ma no! Bisogna cominciare dal giorno in cui entrano a farli religiosi. “Ma non hanno tutti vocazione”. Si ritirino! O che vogliono ingannarci o che han sbagliato strada e la porta: allora vadano nella loro strada e trovino la porta che li introduce dove è bene che entrino, sì.
E quando uno mostri di non aver questa vocazione, dimetterlo; che è una grande carità a lui e all'istituto. Perché quelli fan perdere la vocazione agli altri, e in secondo luogo perdono il tempo. “Eh, ma siamo a metà dell'anno”. Se siamo a metà dell'anno o se manca ancora un mese alla fine, non continui! Aver questo coraggio, perché vi sono delle disposizioni gravi a questo riguardo. Pio XI aveva parlato chiaro: “Tutti quelli che non mostrano vocazione siano esclusi dai seminari e siano esclusi dagli istituti religiosi” – e lo ha lasciato scritto – [in] qualunque giorno. Oh, non commettiamo nessun errore fondamentale.
Poi abbiamo da pensare che per ricavare buon frutto dalla formazione è necessaria la direzione spirituale, cioè la comunicazione con uno ad uno. La disciplina serve a mantener l'ordine, per cui si potrà esigere che lo studio vada bene, che la pietà vada bene, che l'apostolato vada bene. Ma la formazione <non è> dei nostri non è una formazione semplicemente di uno studente, e non è la formazione di un semplice cristiano, di un figlio di famiglia. La formazione deve toccare tutto l'intimo, cambiare le idee e cambiare i sentimenti e cambiare i programmi e cambiare la vita. Se uno non si sente di far la direzione spirituale, non può fare il maestro, non può farlo. Sono venuti tutti quelli che hanno perseverato dalla direzione spirituale all'inizio.
Oh, questa direzione spirituale adesso verrà illustrata in questi giorni. Ciascheduno può dire qualche cosa e può domandare anche qualche cosa. Ma in realtà chi fa queste adunanze, le conferenze, siete voi. Non facciamo delle conferenze così, di indirizzo che devo dare io, ma siete voi che dovere fare le conferenze, cioè dire quello che avete fatto, quello che volete fare. Il programma è appunto fatto così.
Perciò tutti [date] il vostro contributo a questo grande problema! In questi giorni ognuno parli come sente nel suo animo. E quando uno ha qualche cosa di buono, non lo tenga per sé, lo metta in comune: questo sta bene nella vita comune. Anzi la vita comune è appunto per mettere insieme tutte le forze e tutti pensieri giusti, essere uno consigliere dell'altro. E dal sentire di tutti, ecco, si potrà ricavare quello che è l'indirizzo giusto da seguire.
Oh, raccomando di essere molto precisi nell'orario. Se non si è potuto proprio essere precisissimi prima di iniziare queste due giornate, che dovevano iniziarsi con la messa dello Spirito Santo e non tutti han potuto arrivare; ma saremo precisi nell'orario. Seguiamo l'orario esattamente, come è stato comunicato!
Ora andiamo nella sala delle adunanze e lì si potrà dar principio.
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-10-26_ssp_caritab.mp3
durata 23.36

Don Giacomo Alberione - Roma, 26-10-1961 - alla SSP

La carità: omnia in charitate fiant


Abbiamo da fare una constatazione che ci deve portare letizia e ci deve dare incoraggiamento. Se i buoni cristiani fanno qualche opera di carità, qualche volta danno qualche elemosina, qualche volta assistono qualche persona in qualche difficoltà, eccetera, noi invece facciamo una vita tutta di carità, non qualche azione: ma la nostra è una vita di carità continuata.
Amare il Signore è amare la sua immagine, che è l'uomo, e questi due amori ne formano uno solo. Allora tutta la nostra vita resta di amore di Dio e di amore al prossimo.
In che maniera? in che maniera? chiaro! Tutta la nostra attività, le nostre forze sono impegnate per il prossimo più che non sia per esempio il sacerdote diocesano, perché vi sono ancora diversità notevoli.
Carità. Il chierico accumula in sé le cose che dovrà dare. E <il maestro dei chierici,> i maestri dei chierici accumulano, cercano di accumulare nella mente e nella vita quello che un giorno dovran dare e lavorare, <come radunare> come cuocere il pane, – diciamo così – preparare il pane con cui si avrà da sfamare il popolo, sì: “parvuli petierunt panem”.
Oh, poi nell'anno di teologia pastorale abbiamo questo: che si impara come dare quel che si è accumulato nel quadriennio teologico. Infatti il programma dell'anno di pastorale non è annunziato in questa maniera, tuttavia in fondo è: predicazione, cioè come istruire: catechismi e gli altri mezzi che servono come predicazione, specialmente la nostra predicazione coi mezzi tecnici. E poi la seconda parte riguarda il governo delle anime, sì, non tanto il governo giuridico esterno, quanto la condotta, la guida delle anime. E lì vi è tanto da imparare. E in terzo luogo come amministrare i mezzi di grazia che sono i sacramenti.
Quindi si impara a distribuire quel pane che è stato preparato durante i corsi di teologia.
Oh, perciò sia coloro che insegnano e sia coloro che apprendono, fanno tutta un'opera ordinata alla carità. Finalmente poi si arriva ed ecco che comincia la distribuzione di quanto si è andato accumulando.
Ecco, però noi abbiamo da fare questa attenzione: far tutto per motivo di carità: omnia in charitate fiant, questo è il pensiero della considerazione di stasera: omnia in charitate fiant, tutto in carità.
Quindi sempre avere l'intenzione di aiutare le anime, sì, di dare il nostro contributo alla salvezza delle anime, il nostro servizio alla Chiesa, che è la società dei fedeli, sì. In sostanza: tutto in carità. E se noi abbiamo questa intenzione, la nostra attività viene a essere vero ministero, viene a essere vero apostolato.
Quindi che ringraziamento dobbiamo al Signore, che ci adoperi a distribuire i suoi beni, i beni divini, che il Signore Iddio incarnandosi ha portato all'umanità! “Date voi da mangiare”: diceva Gesù agli apostoli e poi moltiplicò il pane e gli apostoli cominciarono a distribuirlo.
Omnia in charitate fiant: e la scuola e lo studio, l'apostolato.
L'apostolato è un esercizio di carità sconfinato: fin dove arriva il pensiero che si vuole comunicare, che in fondo è poi sempre il pensiero della salvezza eterna. Come la vita dell'uomo è ordinata alla vita celeste, la vita temporale è ordinata alla vita celeste, così tutto il nostro lavoro è ordinato a portare le anime alla vita celeste, aiutare le anime perché percorrano bene il cammino della vita presente e così arrivare alla Gerusalemme celeste, alla loro meta.
L'apostolato. E si fa redazione, e girano le macchine, e si fa la propaganda: tutto esercizio di carità. Ma noi teniamoci nelle nostre intenzioni sempre in questo pensiero, in questo desiderio, in questo sentimento, in questa finalità: tutto esercizio di carità.
Esercizio di carità: la predicazione. Cosa è la predicazione? La predicazione è l'imitazione di Gesù Cristo predicatore, maestro: o sia la predicazione con la parola, – la predicazione orale, – o sia la predicazione scritta, che è sempre la predicazione.
La predicazione è la prima necessità che ha l'uomo, perché è dalla fede che si parte per andare alla vita buona e alla grazia di Dio, eh sì.
Quindi l'opera dei catechismi. <Come si > A quante migliaia, a quante centinaia di migliaia e a milioni si è arrivati a portare il catechismo! E si continua e si sa il movimento che c'è in Italia. E in questo tempo ricevo buone notizie dalle organizzazioni che si vanno preparando nell'America Latina. I nostri come lavorano! e sono sempre così un po' afflitti per non arrivare a tutto, ecco.
Che cosa significa questo? Significa che non solo si fa la carità in quel che si dà, ma c'è ancora la carità, il motivo di carità che si vorrebbe far di più. San Paolo scrive ai Corinti: “Ho dilatato il mio cuore: voi ci state tutti dentro e ci state a buon agio, agevolmente. Dilatate anche voi il vostro cuore e mettetemi anche dentro al vostro cuore!”, cioè “amatemi!”. Ecco san Paolo esprime tutto il suo amore ai Corinti: “Mi state tutti nel cuore”.
Ora la predicazione ai fanciulli, ma la predicazione poi a tutte le classi, a tutte le età, sì.
Si possono dare alcuni pani in elemosina, si può procurare qualche vestito e si può fare qualche borsa di studio, eccetera: son tutti atti di carità limitati. Ma noi ci rivolgiamo alle moltitudini e il nostro apostolato non ha dei confini, non ha altro confine che la possibilità.
E allora se noi abbiamo tutte le intenzioni rette, quanto aumentano i nostri meriti. E dove non si può arrivare con l'opera si arriva col desiderio e il Signore premia anche i desideri buoni, premia anche i desideri buoni.
Poi carità, carità oltre che insegnare è portare la gente alla fede, portare la gente a nostro Signore coi sacramenti: il battesimo porta la grazia e poi il sacramento della confessione. Quante anime passano, a quante anime noi diamo la grazia, comunichiamo la grazia, e quante anime dirigiamo e non soltanto per mezzo della confessione, ma quante anime nutriamo con la comunione! Vedo che vanno quattro a dar la comunione. E perché? E perché son tante anime che aspettano, c'è tanto pane da distribuire.
Oh, che carità che si fa al mattino! Dare Gesù Cristo è il tutto. Dopo aver lavate le anime nel sangue di Gesù Cristo per mezzo della confessione e del battesimo, ecco le comunioni: dare Gesù. Ma che bene infinito che diamo noi!
Siamo proprio stati scelti a fare lo stesso lavoro di Gesù Cristo. Se lui ha detto: “Prendete e mangiate” e noi lo ripetiamo nella messa, perché la consacrazione è esposta, la ripetiamo in forma storica: “Accipite et manducate”, ecco; e noi ripetiamo questo e prepariamo il pane divino, Gesù pane che è la vera vita dell'anima, “la mia carne è veramente cibo”, l'alimentazione spirituale, di quell'uomo che sta sopra l'uomo naturale, cioè l'uomo di Dio, a cui portiamo il nutrimento adatto, all'homo Dei.
Così è <in> opera di grande carità l'insegnamento in scuola e l'ufficio di maestro di un reparto: di un reparto di giovani, di un reparto anche in particolare in una scuola, in un reparto della tecnica.
Magistero, insegnamento, ecco. Che cosa si fa?
Vi è chi fa la direzione spirituale. Il Signore non ci ha dato delle questioni da trattare in tribunale come legali, e non ci ha dato neppure la cura dei corpi, che pure è tanto nobile; ma ci ha dato la cura delle anime, che sono i tesori di Dio, queste anime. Noi abbiamo l'incarico di santificarle, di indirizzarle al Paradiso. Che gran cosa la direzione spirituale!
Poi tutto l'insegnamento che vi è nelle scuole inferiori e cioè ginnasio, avviamento, liceo, eccetera. Lì per apprendere le lingue, perché un giorno si possa capire la gente e predicare alla gente e farsi capire e comunicare. E così le scienze che servono di fondamento per meglio apprendere e meglio applicare le materie sacre. È tutto un lavoro di carità, ecco, quell'insegnamento quotidiano. Se noi lo facciamo proprio in carità verso quei ragazzetti, quei ragazzi già un po' più avanti, quegli aspiranti, quelli chiamati ad una vita più perfetta, chiamati ad essere anch'essi distributori dei doni di Dio, “admnistratores Dei sic nos existimet homo, ministros Christi, dispensatores misteriorum Dei”, è tutta una vita di carità. Anche se per la tecnica... La tecnica è quella che moltiplica il manoscritto, perché noi non vogliamo solamente portare il bene a uno. Ecco che i Benedettini avevano il loro scrittoio – e lo hanno ancora – e allora ognuno copiava, faceva una copia. Ma le macchine in una giornata quante copie fanno! Questo per moltiplicare la grazia, i doni, per una maggior ampiezza di carità.
Oh, le stesse amministrazioni sono un servizio di carità. L'amministratore è un servitore della carità: carità per tutta la comunità, perché abbia il sostentamento, abbia l'abitazione, abbia il vestito e poi quindi si possano compiere tutti gli altri doveri: servo della carità, ministro di carità: tutte le amministrazioni, che pure hanno il loro peso.
Poi vi è l'apostolato, quest'apostolato che dà al mondo il dogma e la morale e il culto.
Un ufficio ancora da ricordare: formare un ambiente di letizia, ecco, così che ci sia sempre piuttosto l'incoraggiamento, l'ottimismo, che serve sotto tanti aspetti e contribuisce sotto tanti aspetti alla formazione dei giovani.
Atti di carità: la preghiera comune, la preghiera per tutte le anime, la preghiera per i defunti, e per i peccatori, e per gli ignoranti, e gli eretici, i scismatici: entrare “pro nostra et totius mundi salute”, come diciamo nella messa: l'offerta del calice “pro nostra et totius mundi salute”. Come si dilata allora il nostro cuore! È Gesù che si immola pro totius mundi salute e noi entriamo nelle sue vedute, nelle sue aspirazioni, partecipiamo a questo ministero sacerdotale a distribuire i frutti della redenzione.
E pro totius mundi salute: quaggiù, ma gli effetti vanno anche al purgatorio e vanno anche ad allietare il cielo e vanno a dar gloria alla Trinità: tutto un complesso di carità, tutto un contributo alla preghiera. Breviario in plurale diciamo: in quel tempo rappresentiamo la Chiesa davanti a Dio, quando noi diciamo il breviario. Dirlo proprio bene!
Perché: la carità farla bene! Perché far la carità giova; ma farla anche bene! Sì.
Se la scuola è fatta bene, con garbo, si dimostra amore ai fanciulli e si interessano, si incoraggiano, si richiamano e così in tutto il resto. Non solo la carità, ma far bene la carità!
Altra cosa: dare il buon esempio. Il buon esempio è una predica continuata ed efficace e che opera direttamente sulle anime. Quando noi viviamo bene, si semina il bonus odor Christi, come ci comportiamo in ricreazione, a tavola, come ci comportiamo a studio, nella scuola, all'altare, in tutta la nostra giornata. Così anche allora tacendo, si continua a compiere un apostolato che è opera di carità: l'apostolato del buon esempio, come c'è l'apostolato della preghiera.
Adesso penso che si debba un momento riflettere sopra un punto, che mi pare sia la massima carità che possiamo fare, questa – massima carità oltre la preghiera, si capisce, oltre che dare i sacramenti, – massima carità: far conoscere bene il fine della vita, il fine della vita: “Perché, perché ci siamo qui? di donde veniamo? cosa abbiam da fare? dove andiamo?”. Questo pensiero fondamentale: “Venuti da Dio per passare qualche tempo e dar prova a Dio di vero amore, di vera fede, e poi finalmente, dopo averlo conosciuto, amato e servito, goderlo eternamente”.
Quando si imprime in un'anima questo pensiero, si potrà anche traviare, sì, può essere che per qualche tempo le passioni o il mondo travolgono un poco; ma alla fine il concetto della vita resta.
E per questo bisogna predicare i novissimi, il fine in generale, sì. Ma questo fine va concretizzato e cioè: è la morte con cui si chiude tutto e si apre un'altra vita, un'altra vita: vita non tollitur ma mutatur. E di là? il Paradiso: la predica; l'inferno: predica; purgatorio: predica; la risurrezione dei morti: la predica; la separazione al giudizio finale e di quelli che han seguito Gesù e di quelli che non l'han voluto riconoscere e che non lo riconoscono e poi la sentenza finale e poi l'entrata nelle due eternità e poi l'eternità stessa. Perché la predica del fine non si faccia solamente con parole e ragionamenti propri, ma proprio concretizzarla con la lunga meditazione dei novissimi.
Novembre dovrebbe essere un mese di meditazione sui novissimi, perché si imprima bene e così profondamente che non si scancelli mai più quel pensiero quella convinzione: “la vita è per l'eternità e mi aspetta l'eternità”. Sì, che non si scancelli mai più, anche se per un po' di tempo questo pensiero viene un po' coperto da altri pensieri e magari anche da qualche disordine, ma rimane, rimane.
Questa è la carità più grande che possiamo fare al mondo, la carità più grande che possiamo fare ai nostri: ordinare la vita verso un fine, un fine che viene concretizzato e un fine che ci si avvicina sempre di più man mano che passano i giorni della nostra esistenza. Questa mi pare che sia la carità bassa; tutto il resto è di aiuto appunto per conseguire il fine. Ma proprio sempre in mente: portare i nostri, portare tutte le anime e con la predicazione e con l'edizioni e con tutto quel che abbiamo di mezzi a nostra disposizione: il concetto della vita, il credo, creato, seguire la via giusta che è Cristo che poi è la Chiesa e arrivare al fine: il concetto giusto. È una grande carità il predicare i novissimi, predicarli bene.
Oh, dunque noi non siamo solamente persone che hanno da compiere qualche atto di carità, ma la vita nostra è carità; e come Iddio ci ha preferiti e come quindi è santificatrice la carità fraterna, che ruolo ha nella santificazione la carità fraterna e la carità sacerdotale.
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-10-26_propaganda.mp3
durata 22.27

Don Giacomo Alberione - Roma, 26-10-1961 - alla ssp

Messa, defunti, patentino per confessioni, propaganda


L’opera che facciamo come esercizio migliore più santo, più efficace, di carità, è la santa Messa, la quale glorifica la santissima Trinità e dà letizia al cielo, sollievo al Purgatorio, e raggiunge i confini della terra per la grazia.
Certamente la Messa è il sacrificio che noi uomini abbiamo a disposizione per tutte le grazie e per soddisfare i peccati e per santificarci. È anche il mezzo migliore di santificazione essendo anche inclusa la comunione.
Oh, allora dispensare la verità. La scuola [è] esercizio di carità. Dispensare la verità [è] esercizio di carità. “Omnia in charitate fiant”: abbiamo considerato ieri sera.
Devo leggere il monito del Santo Ufficio: dopo il richiamo per la Bibbia, [che] da noi è insegnata bene, questo riguarda la morale, l’insegnamento della morale. «Questa Suprema Sacra Congregazione, avendo saputo che qua e là sono state divulgate e vengono ancora propalate, molte e pericolose opinioni circa i peccati contro il sesto comandamento, ha creduto opportuno di pubblicare le seguenti norme:
1° I Vescovi, i Presidi delle Facoltà Teologiche, i Superiori dei Seminari e delle scuole per religiosi, esigano da coloro ai quali incombe l’ufficio di insegnare Teologia morale, o materia affine, che si conformino pienamente alla Dottrina tradizionale della Chiesa».
Sappiamo quale è e abbiamo da attenerci.
«2° I Censori ecclesiastici usino grande cautela nel recensire e giudicare i libri e le riviste che trattano del sesto comandamento.
3° Ai chierici e ai religiosi è proibito esercitare l’ufficio di psico-analista a norma del Canone 139 paragrafo secondo. È da riprovare l’opinione di coloro che affermano essere assolutamente necessario una previa educazione psico-analistica a coloro che vogliono ricevere gli ordini sacri e che i candidati al sacerdozio e alla professione religiosa debbono essere sottoposti a un esame e a una vera investigazione psico-analistica. Ciò vale anche se si tratta di esplorare l’attitudine richiesta al sacerdozio o alla professione religiosa. Similmente i sacerdoti e i religiosi di ambo i sessi non consultino uno psico-analista senza il permesso del loro Ordinario, da concedersi per motivi gravi».
Abbiamo avuto anche delle esperienze per cui [si è] andati fuor di strada, alle volte. Oh, perciò riceviamo con gratitudine e riverenza quanto il Santo Ufficio ha comunicato.

Nel “San Paolo” ultimo si dice: «Per i nostri defunti. La famiglia paolina non si dissolve con la morte; soltanto per essa un membro muta la dimora.
Ogni giorno il calendario paolino ci ricorda chi è passato all’eternità, ci richiama il pensiero di chi ci ha preceduto nel grande passo, i buoni esempi di chi ci ha lasciati ed edificati, e il dovere di suffragare.
L’elenco dei nostri cari defunti si allunga, e ci ammonisce, siamo attesi lassù; il premio sarà proporzionato ai meriti; noi stessi, spontaneamente siamo portati a pensare chi ha lasciato i migliori ricordi durante la sua vita. Allora ricordiamo, oltre ai nostri, le persone defunte verso le quali abbiamo maggiori doveri di riconoscenza o di carità per vincolo di sangue o di religione; ricordare le persone defunte che ebbero maggiori responsabilità in vita quaggiù», specialmente Vescovi e sacerdoti, religiosi, s’intende; e per conseguenza vi è chi ha l’abitudine di mettere nella Messa anche l’Oremus che si potrebbe cambiare, quello che riguarda Vescovi e sacerdoti, per le maggiori responsabilità; «le persone defunte che possono trovarsi in Purgatorio per occasione della stampa, del cinema, della radio, della televisione», possono trovarsi in Purgatorio per occasione della stampa, del cinema, della radio, della televisione, perché o ne abbiano abusato come produttori o ne abbiano abusato come lettori, spettatori, ecc. «Poi ricordare le persone defunte che possono trovarsi in Purgatorio per nostra responsabilità, per esempio per mancanza di zelo, i cattivi esempi ecc. La carità verso i defunti attira la misericordia di Dio, e la remissione dei nostri debiti con Dio. Quindi sempre “sancta et salubris est cogitatio pro defunctis exorare”».

È stato chiesto un chiarimento circa il patentino per le confessioni che viene dato ai sacerdoti novelli. Risposta: «Per confessare un membro, un novizio o un aspirante della Pia Società San Paolo: 1° se si tratta della validità, essendo la giurisdizione personale e non locale, vale ubique terrarum»; la domanda veniva dall’estero; «2° se si tratta della liceità, invece, è sempre necessaria la licenza del Superiore locale; 3° se poi si dovesse confessare un membro, un novizio o un aspirante ubique locorum, in un oratorio o in una chiesa parrocchiale, occorre pure il permesso del Parroco o del Rettore della chiesa o oratorio. È evidente che l’uso della facoltà di confessare deve essere ragionevole e regolato dai legittimi Superiori».

Il “San Paolo” poi ci mette davanti una grande parte dell’apostolato delle edizioni, una parte importante, e cioè la propaganda. È la terza parte dell’apostolato. Allora comprenderne, della propaganda, la natura, l’importanza, i mezzi.
Che cosa significa propaganda? Significa l’estensione nello spazio, cioè in ogni luogo, e il prolungamento nel tempo, cioè in ogni secolo, dell’opera del Maestro divino, il quale ha predicato, del quale dobbiamo ripetere gli insegnamenti.
«Gesù Cristo, apostolo del Padre, per indicare la via della salute ai figli smarriti, compiuta la sua missione, ritornò al Padre, dopo aver affidato alla Chiesa l’incarico di continuare l’opera sua». E quindi come si perpetua la presenza reale eucaristica, così si perpetua la missione dei sacerdoti perché sia diffusa la dottrina che Gesù Cristo ha portato.
Ora, questo porta a comprendere bene la differenza fra un propagandista paolino e un propagandista che sia un commerciante, un libraio, oppure che diffonda soltanto allo scopo di guadagnarsi il pane, come sarebbe disposto a vendere qualche merce ordinaria, per esempio gli alimentari. Non fanno distinzione, spesso, perché la loro fede non arriva; ma per noi [è] apostolato.
«L’apostolo studia i maggiori bisogni spirituali e morali delle popolazioni, quindi scrive, diffonde dal pulpito tecnico come il predicatore dal pulpito della Chiesa».
L’offerta che si chiede per il sostentamento dell’apostolo, così come si chiede l’offerta per la messa, deve essere <chiesta un’offerta che sia> sufficiente per il mantenimento, lo sviluppo dell’Istituto.
Arrivare a quanto più si può di persone, «pervenire a tutte le anime, ma specialmente alle più bisognose. L’apostolo fa come il Buon Pastore, che assicurato il gregge fedele, espone se stesso per la pecorella smarrita. L’apostolo abbia dunque le sue preferenze per i derelitti, gli avversari, i poveri, i vergognosi, che non osano cibarsi del pane spezzato dal pulpito alla massa dei fedeli, per gli infedeli, per i bambini, per tutti quelli insidiati nella fede, per i dubbiosi, gli assorbiti da cure di governo, di ufficio, di lavoro», ecc.
Il propagandista è «l’angelo che a tutti ricorda i destini eterni, e le vie della salvezza; l’angelo che parla del cielo a quei figli di Dio che si preoccupano soltanto della terra».
Una parola anche sopra la necessità. «La propaganda costituisce il gran problema dell’apostolo della stampa; ad essa sono ordinati e la redazione è la tecnica. L’apostolato del propagandista è come un dispensario, prende dalla Chiesa i tesori e li distribuisce alle anime».
Si consideri ognuno come servitore di Cristo e dispensatore dei Misteri di Dio.
«Dispensario che non <si> limita la sua azione a pochi indigenti, ma la estende agli uomini», a quanti può arrivare. E «basta considerare un momento il mondo, la sua condizione, per comprendere quale sia la necessità di questa distribuzione».
«La vera causa è la mancanza di propagandisti. Mancano gli apostoli che, fattisi voce di Dio, chiamano le pecorelle all’ovile di Gesù Cristo». A queste pecorelle molte volte si può arrivare con la propaganda e non si può arrivare con altri.
Mobilitare tutti i mezzi di diffusione e di propaganda.
La mancanza di propaganda a cosa si può assimilare? Ottima redazione, ottima tecnica è il libro portato in magazzino: la lucerna è accesa, ma è messa sotto il moggio! E allora che cosa abbiamo? Abbiamo lavorato, fatte spese e poi? Si raggiunge il fine? Il fine si raggiunge quando si raggiungono le anime, si raggiungono i lettori e accompagnando il lettore con la preghiera: allora confidiamo che alla luce esterna si aggiunga la luce interna, interiore: “Nemo accendit lucernam et ponit eam sub modio”, ma “super candelabrum ut luceat omnibus qui in domo sunt”.
Ecco, svuotare i magazzini. Non solo, ma allora dare più possibilità allo sviluppo della redazione e allo sviluppo della tecnica. Facciamo il punto qui sopra, perché abbiamo da considerare che la parte della propaganda è difficile. Già se uno volesse fare soltanto un libraio o un commerciante, troverebbe già difficoltà; ma fare l’apostolato della propaganda vuol dire più difficoltà. E d’altra parte le condizioni per un buon propagandista sono “innocens manibus et mundo corde” e zelo.
I tesori della Chiesa sono aperti a tutti, ma bisogna che, se sono aperti a tutti, arrivino. «L’errore capitale di oggi è questo», che è stato scritto: «che il grande tesoro della verità, che le ricchezze della fede, le ricchezze dei Padri della Chiesa, rimangono sepolte, mentre i nemici di Dio e delle anime, applauditi e pagati, seminano la zizzania a piene mani».
Esempio di Gesù Cristo: non aspettò le anime, ma andò a cercarle; e così disse il Maestro: “Andate!”. Andare, bisogna muoversi! Poi la Chiesa insegna il modo pratico e cioè la Chiesa ci incita ad arrivare. E la parte che riguarda la stampa è sempre stata usata nei secoli, dalla Chiesa: oltre alla parola viva, sempre ci sono state le Encicliche, le Circolari e tutto quello che ci è venuto dalla Santa Sede e dai Vescovi.
«È necessario un esercito di religiosi e religiose che si consacrino esclusivamente alla diffusione, e che essi si associno dei collaboratori laici, o religiosi suscitati da Dio, che si mettano al servizio della Chiesa e che da essa siano accettati nella mistica vigna: “Andate anche voi nella mia vigna, e quello che meritate vi sarà dato”».
Quanto alla propaganda presso di noi, prima è stata più una propaganda capillare, di casa in casa, da individuo a individuo, che ha dei lati molto positivi per il contatto personale. Poi [c'è stata] la propaganda collettiva: questo è stato un passo, quando si presenta una collettività, o si offre un complesso di libri, periodici, pellicole, ecc. Passare alla propaganda più razionale, in cui il lavoro di diffusione è preceduto dal lavoro intellettuale di organizzazione, e cioè dallo studio di quello che si ha da dare, lo studio delle persone a cui si deve dare, e lo studio dei mezzi per far arrivare utilmente; questa presenta i vantaggi della collettiva, e ne aggiunge altro.

Oh, allora preghiamo perché si compia questo grande esercizio di carità e vi siano coloro che siano così armati e forniti di virtù da potersi dedicare; e nello stesso tempo che siano molto illuminati e che sappiano organizzare e che sappiano prima disporre di tutto, perché così si possano risparmiare molti passi e nello stesso tempo si fanno passi più lunghi. Così per quello che riguarda le persone o anche risparmio di fatica, e nello stesso tempo maggior soddisfazione e per le anime maggior frutto.
Preghiamo per i propagandisti, per le propagandiste e incoraggiamo sempre e illuminiamo perché questa parte sia compiuta santamente, largamente, in carità: distribuzione della Verità.
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-12-03_messe_votive.mp3
durata 22.16

Don Giacomo Alberione - Roma, 03-12-1961 - ai sacerdoti della casa di Roma

Commento alle nuove messe votive per le vocazioni religiose


Nel 1950 si è tenuto il Congresso Internazionale dei religiosi. Fra i voti del Congresso c’è stato questo: ottenere dalla Santa Sede il permesso di celebrare una messa votiva in die professionis religiosorum e poi un’altra in die professionis religiosarum, per le suore; e quindi una messa per chiedere al Signore maggior numero di vocazioni religiose e la perseveranza di coloro che sono chiamati e che si sono consacrati a Dio.
Ora è utile che seguiamo un momento per capire il senso; e questo a onore di Maria Immacolata, la Vergine, la prima religiosa, il modello di ogni religioso; mettendo sotto la sua protezione tutte le vocazioni religiose e chiedendo alla Vergine la grazia di corrispondere e di accrescere il numero delle vocazioni e soprattutto il progresso dei religiosi.
Nella prima messa in die professionis religiosorum: questa messa unica pro singulis occasionibus, est votiva II classis, et celebratur aut de mandato aut de consensu respectivi Ordinarii; in ea adhibetur color albus.
L’introito di questa messa dice: «In capite libri scriptum est de me, ut facerem voluntatem tuam: Deus meus, volui, et legem tuam in medio cordis mei»: ci porta subito a contemplare il religioso del Padre, «In capite libri scriptum est de me, ut facerem voluntatem tuam, Deus meus».
Oh, nell’oremus si dice: «Omnipotens sempiterne Deus, qui famulos tuos, a mundi periculis ereptos, ad plenius sectanda Filii tui vestigia vocare dignatus es: praesta, quaesumus; ut propositam sibi evangelicam perfectionem consequantur. Per eundem...» ecc. E cioè si domanda al Signore che coloro che stan per fare la Professione, o che l’hanno appena fatta, «ut propositam sibi evangelicam perfectionem consequantur», conseguano quella perfezione di cui hanno preso l’impegno.
Quanto all’Epistola è bene che la leggiamo subito in italiano. È tratta dalla Lettera di san Paolo ai Filippesi, capo terzo, versetto settimo. San Paolo dopo aver parlato delle cose passeggere, dice: «Ma tutte queste cose, che per me erano guadagni, io le ho stimate invece una perdita, per amore di Cristo, anzi considero tutto una perdita di fronte alla superna cognizione di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale mi son privato di tutto e tutto ho stimato come immondizie, allo scopo di guadagnare Cristo e ritrovarmi in Lui non con la mia giustizia, che deriva dalla legge, ma con quella che si ottiene con la fede in Cristo; giustizia che vien da Dio e riposa sulla fede. Così conoscerò Cristo e la potenza della sua risurrezione; così parteciperò ai suoi patimenti, riproducendo in me la morte sua, nella speranza di giungere, a Dio piacendo, alla risurrezione dei morti. Non che già abbia conseguito il premio o raggiunto ormai la perfezione, ma continuo a correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, non credo di averlo ancor raggiunto, ma una sola cosa faccio: dimentico quello che è indietro e, proteso a ciò che è avanti, corro verso la mèta, per conseguire il premio di quella superna vocazione di Dio in Cristo Gesù».
Quindi viene ricordato quello che fa il religioso lasciando il mondo con la sua Professione e quello che vuole conquistare, lasciando da parte le cose a cui prima si dava tanta importanza. Ora invece si cercherà solamente le ricchezze che sono in Cristo, ricchezze della dottrina, ricchezze della grazia.
E allora, siccome si fa la Professione, o prima o dopo, il Graduale: «Introibo in domum tuam in holocaustis, reddam tibi vota mea, quae distinxerunt labia mea. Venite, audite, et narrabo, omnes qui timetis Deum, quanta fecit animae meae». E poi segue, continuando il Graduale, post Septuagesimam e tempore paschali.
Il Vangelo è preso da san Marco, capitolo decimo, versetto decimosettimo: «In illo tempore: Cum egressus esset Iesus in viam, procurrens quidam, genu flexo ante eum, rogabat eum: Magister bone, quid faciam, ut vitam aeternam percipiam? Iesus autem dixit ei: Quid me dicis bonum? Nemo bonus, nisi unus Deus. Praecepta nosti: Ne adulteres, ne occidas, ne fureris, ne falsum testimonium dixeris, ne fraudem feceris, honora patrem tuum et matrem. At ille respondens, ait illi: Magister, haec omnia observavi a iuventute mea. Iesus autem intuitus eum, dilexit eum, et dixit ei: Unum tibi deest: vade, quaecumque habes vende, et da pauperibus, et habebis thesaurum in caelo, et veni, sequere me». Il Vangelo è molto chiaro, già molte volte è stato considerato.
La Secreta: «Famulorum tuorum, Domine, sacrificium benignus accipias»: il sacrificio di questi che si propongono di seguire Gesù Cristo; «et tibi paupertatem, castitatem et obedientiam voventes, tua caritate confirmes. Per Dominum nostrum Iesum Christum».
L’antifona poi ad communionem: «Gustate et videte, quoniam suavis est Dominus; beatus vir, qui sperat in eo».
E poi il postcommunio: «Pretioso corpore et sanguine Filii tui referti, te, Domine, deprecamur; ut, qui sacra vota te inspirante emiserunt, eadem te adiuvante custodiant. Per eundem Dominum nostrum Iesum Christum».

La Messa poi per la Professione delle suore è più adattata al sesso; tuttavia si domandano le stesse grazie. La Epistola è presa dalla Lettera ai Corinti, e il Vangelo delle vergini prudenti e delle vergini stolte.

Poi la seconda Messa che riguarda i religiosi, ma serve anche per le religiose: Missa votiva, ad vocationes religiosas petendas et fovendas: sia per chiedere le vocazioni, come per domandare la perseveranza e il progresso.
L’introito, preso dal salmo: «Respice de caelo et vide, et visita vineam istam: et perfice eam, quam plantavit dextera tua»: il Signore che guardi la sua vigna, che è l’Istituto «et perfice eam, quam plantavit dextera tua».
L’oremus indica appunto le due grazie che intende la Chiesa che noi domandiamo, per tutti i religiosi professi e per le vocazioni: «Familiam tuam, quaesumus, Domine, propitius respice», quindi la grazia delle vocazioni; «et nova prole semper amplifica: ut et filios suos ad propositam sanctitatem perducere, et aliorum salutem effìcaciter valeat procurare». Quindi «ad propositam sanctitatem perducere, et salutem effìcaciter valeat procurare» per gli altri, per le anime a cui si è destinati.
La lettera agli Efesini: «Lectio Epistolae beati Pauli Apostoli ad Ephesios», capitolo quarto, versetto primo fino al sesto, poi qualche versetto preso più avanti e cioè 23 e 24.
In principio: «Pertanto io che sono prigioniero per il Signore, vi scongiuro a tenere una condotta degna della vocazione a cui siete stati chiamati, con ogni umiltà, dolcezza e pazienza, sopportandovi gli uni, gli altri, con amore, e studiandovi di conservare l’unità di spirito nel vincolo della pace. Non c’è che un solo corpo e un solo spirito, come per mezzo della vostra vocazione siete stati chiamati ad una sola speranza. Non c’è che un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Non esiste che un solo Dio e Padre di tutti, il quale è al di sopra di tutti, opera in tutti, ed è in tutti».
Più avanti il 23 esorta a «rinnovarvi nello spirito dei vostri pensieri e rivestirvi dell’uomo nuovo che è stato creato ad immagine di Dio, nella vera giustizia e santità. Lasciate quindi la menzogna e parli ciascheduno al prossimo secondo la verità, perché siamo membra gli uni degli altri». Quindi san Paolo dà delle regole per conservare l’unità di spirito.
Il Vangelo è preso da san Luca, capo nono, versetto 57: «Sequentia sancti Evangelii secundum Lucam. In illo tempore: Ambulantibus discipulis in via, dixit quidam ad Iesum: Sequar te quocumque ieris. Dixit illi Iesus: Vulpes foveas habent, et volucres caeli nidos; Filius autem hominis non habet ubi caput reclinet. Ait autem ad alterum: Sequere me. Ille autem dixit: Domine, permitte mihi primum ire, et sepelire patrem meum. Dixitque ei Iesus: Sine ut mortui sepeliant mortuos suos; tu autem vade, et annuntia regnum Dei». E il terzo caso: «Et ait alter: Sequar te, Domine, sed permitte mihi primum renuntiare his quae domi sunt. Ait ad illum Iesus: Nemo mittens manum suam ad aratrum, et respiciens retro, aptus est regno Dei». Quindi si riferisce tanto alla perseveranza come al miglioramento, al perfezionamento.
E questo corrisponde al versetto del Graduale: «Servite Domino in laetitia, introite in conspectum eius in exsultatione. Scitote quoniam Dominus ipse est Deus, ipse fecit nos et non ipsi nos. Benedicti vos a Domino, qui fecit caelum et terram».
La Secreta: «Sacrificium nostrae devotionis, quod tibi, Domine, offerimus, benignus assume; ut familia tua fideliter tibi servire mereatur, et nova semper accipiat incrementa». e cioè che fedelmente la famiglia serva il Signore e che prenda sempre progressi, nuovi progressi in tutto e cioè nell’osservanza, vuol dire, e nell’apostolato.
Allora l’Antifona della Comunione: «Ecce quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum; quoniam illic mandavit Dominus benedictionem».
La conclusione di questa Messa, che è ordinata alla perseveranza e alla corrispondenza, dice: «Huius, Domine, virtute sacramenti, da nobis, quaesumus, perseverantem in tua voluntate famulatum»; poi: «ut in diebus nostris, et merito et numero, familia tibi serviens augeatur»: perché nei nostri tempi la famiglia cresca in santità e in numero: «familia tibi serviens augeatur».
Oh, allora è utile che nel giorno della Professione, permettendolo il rito, si celebri la Messa la quale «est votiva II classis, et celebratur aut de mandato aut de consensu respectivi Ordinarii»: così per la Professione dei religiosi, come per la Professione delle religiose.
Si era fatto osservare che si dava tanta importanza all’ordinazione, con la solennità delle funzioni; e invece meno e insufficiente importanza si attribuiva alla Professione religiosa, quando l’Aspirante, colui che vuole emettere la Professione, che si consacra a Dio, si vuole che decisamente tenda alla perfezione, alla santità.
E poi sempre questa messa votiva, ultima, è possibile; si può allora celebrare, affinché ci sia la perseveranza e non solamente lo stare nell’Istituto, nelle Congregazioni, negli Ordini, ma si stia utilmente, cioè in progresso continuato.
Oh, queste grazie chiediamole per intercessione di Maria Immacolata, la quale è Madre e Regina dei religiosi.
È utile spiegare il contenuto di queste Messe, votive, sia ai Novizi, sia ai Professi e anche incominciare a darne una qualche nozione agli Aspiranti.
Con questo la Santa Sede dimostra, concedendo queste Messe votive, quale importanza attribuisca alla vita religiosa, non solamente perché il numero dei religiosi aumenti e i religiosi perseverino, ma ancora perché corrispondano, progredendo sempre secondo lo spirito di san Paolo.
Protendersi sempre in avanti, come abbiamo letto, non guardando il bene già fatto: guardiamo quello che è da fare, e con l’aiuto di Dio perseverare. Perseveriamo, finché troveremo il Paradiso aperto, perché si è cercato solo Dio. Troveremo il Paradiso aperto ed entreremo nell’eterna felicità.
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-12-10_Il sacerdote cattolico.mp3
durata 21' 15''

Don Giacomo Alberione
Intervento al III Convegno Nazionale della Pontificia Unione Missionaria del Clero
in occasione del XIX centenario dell'arrivo di S. Paolo Apostolo a Roma - 10 dicembre 1961

Il sacerdote cattolico


L'attuale impegno sacerdotale è sempre quello dei grandi periodi storici, il medesimo di san Paolo. È un meraviglioso spettacolo quello che presentano i cinquecentomila sacerdoti sparsi in tutto il mondo. Vale anche per oggi la constatazione di san Paolo: “Spectaculum facti sumus mundo et angelis et hominibus”. E perché? Tutti impegnati con piena dedizione a compiere il divino mandato: “Andate, fatemi discepole le nazioni”.
Primo: diffondere la verità in carità e difenderla dagli inquinamenti.
Secondo: fronteggiare l'odierna immoralità ed elevare il costume privato e pubblico.
Terzo: lottare contro il peccato e comunicare la vita di grazia “ut deleatur iniquitas et adducatur iustitia sempiterna”.
Questo triplice ufficio nostro corrisponde ed è lo stesso triplice ufficio di Gesù Cristo sacerdote. Egli aveva dato di se stesso varie definizioni nel corso dei tre anni. Ma infine adoperò una espressione riassuntiva: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”. In quest'espressione sono i tre elementi del sacerdozio pieno. Vivere in Cristo sacerdote: ecco tutto e solo il sacerdozio cattolico.

Gesù: “Io sono la Via”. La santissima vita di Gesù Cristo segna il nostro cammino. “Imitate me”, “venite dietro di me”, “imparate da me”. Il suo insegnamento morale è riassunto nel duplice precetto della carità: amore a Dio, amore al prossimo; con l'occhio all'ideale altissimo: “Siate perfetti come è perfetto il Padre mio che è nei cieli”.
Egli [è] mediatore tra Dio e l'uomo; perciò è un passaggio obbligatorio per ogni uomo che vuole andare a Dio. Quanti sono i sacerdoti ornati di molte virtù, esempi viventi del come tradurre nella vita pratica la perfezione evangelica, fedeli imitatori della carità, umiltà, povertà, pazienza, fortezza di Gesù Cristo! Seguono Gesù. “Videant opera vestra bona et glorificent Patrem vestrum qui in caelis est”.
San Paolo affermava decisamente: “Imitatores mei estote sicut et ego Christi”. Dare santi esempi: “Propter eos”, dice Gesù, “propter eos sanctifico meipsum”. La predica del buon esempio è la prima, possibile a tutti, la più necessaria. “Semper mortificationem Iesu in corpore nostro circumferentes ut et vita nostra [Iesu] manifestetur in corporibus nostris”. Sacerdoti santi, veri mediatori tra le anime, a loro affidate ed il cielo, con la preghiera e la sofferenza. San Paolo lo è stato: “Ideo omnia sustineo propter electos ut et ipsi salutem consequantur, quae est in Christo Iesu”.
Il decoro e la bellezza di una vita illibata della quasi totalità del clero non viene offuscata da qualche ombra, che anzi dà più risalto alle luci. Ci porta alla riflessione l'espressione di Gesù Cristo nella vigilia della sua passione. Egli disse degli apostoli: “Hi de mundo non sunt”, non sono mondani; ed aggiunse di sé: “sicut et ego de mundo non sum”. Non essere mondani, segregati dal mondo: non lo erano gli apostoli, non lo era il maestro.
Educare la gioventù moderna: grande compito! Formare dei caratteri forti, veri cristiani, come quelli di cui parlava san Giovanni evangelista: “Scrivo a voi giovani, perché siete forti”. Nessuna nostra arrendevolezza verso il mondo e i suoi principi; nessun ripiegamento verso una morale che tenta di scalzare le basi della coscienza e dell'autorità. L'educazione del clero tale che non ci lasci perplessi per il futuro: che tutti sentiamo anche oggi la piena validità della perfezione predicata e vissuta da Gesù Cristo. Chiederemo sacerdoti santi per la Chiesa. Ognuno possa dire: “Io son la vita per i miei”.

“Io sono la Verità”. Gesù Cristo è la Verità stessa; venne a rivelarcela: “Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum ut testimonium perhibeam veritati”. E la confessione della verità gli valse la condanna. Il suo ministero di tre anni fu tutto un ministero di predicazione: il “magisterium”. Perciò sempre egli veniva chiamato “il Maestro”.
La nostra salvezza è condizionata all'accettazione della sua dottrina: ad essa legò la sanzione eterna: “Chi crede sarà salvo, chi non crede è già condannato”. Che se egli disse: “Ego sum lux mundi”, aggiunse: “Vos estis lux mundi”. Perciò il grande mandato agli apostoli ed ai successori: “Andate e predicate, sarete miei testimoni”.
Gli apostoli adempirono il divino mandato. San Paolo afferma: “Evangelium in quo positus sum ego praedicator”. E quando egli è vicino a morire, trasmette il mandato e scrive al suo discepolo Timoteo: “Praedica verbum, insta opportune, importune”. E il mandato è stato lasciato in eredità a noi.
La predicazione attiva è impegno santo ed ufficiale: “necessitas mihi incumbit”. La predicazione è mezzo vivo ed indispensabile: “placuit Deo per stultitiam praedicationis salvos facere credentes”. La predicazione è sempre più necessaria in giorni di tanto travolgimento di idee: “cum sanam doctrinam non sustinebunt”. Ogni sacerdote ha la grazia della predicazione. Molte anime aspettano tale pane e tanti anche fra coloro che ne ostentano la nausea; poiché se non si è depravati, in ogni uomo vi è sempre il testimonium conscientiae.
San Paolo ammonisce il suo discepolo perché sia un buon operaio: “Recte tractantem verbum Dei”: che predichi bene, cioè che sia veramente parola di Dio la nostra, “tamquam Deo exortante per nos, quasi sermones Dei”, dove si senta Dio che parla, del quale il sacerdote di fa altoparlante. Non sottigliezze, non argomenti mondani, non alterco scolastico, non l'uomo, ma il ministro di Dio, il padre ai suoi figli; non discorsi da sala, non ripetizioni noiose, non un complesso di avvisi, non invettive, fosse anche per gli assenti. Curare la qualità della predicazione ancora prima della quantità: una predicazione che è un imbandire una spirituale mensa per l'uditorio; una predicazione che ha il triplice ufficio: illuminare, muovere i cuori, indirizzare moralmente la vita secondo i bisogni del tempo e dei fedeli; una predica piena di teologia, piena di Bibbia, piena di liturgia, e pure di Patristica; ordinata, sentita, preceduta dalla preghiera. E sottolineare ancora la Scrittura, secondo san Paolo che scrive al discepolo: “Serviti delle Scritture nel predicare, Scritture che hai imparato da fanciullo”. “Omnis scriptura divinitus inspirata utilis est ad docendum, ad corripiendum, ad erudiendum in iustitia, ut perfectus sit homo Dei ad omne opus bonum instructus”.
I grandi argomenti: la Chiesa, Gesù Cristo, la grazia, i sacramenti, la fede, i novissimi, la carità, i doveri sociali e famigliari. Nella gerarchia delle forme di predicazione il primo posto è tenuto dalla catechesi ai piccoli, alla gioventù, agli adulti. Un catechismo però aggiornato, organizzato, progressivo.
E ancora un ammonimento da san Paolo: non solo egli parlò, ma scrisse. Le sue lettere si riflettono sulla dogmatica, sulla morale, sulla liturgia, sulla sociologia, sull'ascetica, sulla mistica, eccetera, e sono più durevolmente efficaci dei suoi discorsi stessi. Quale potenza oggi nella stampa e cinema e radio e televisione e quale influenza sul fanciullo e sull'uomo maturo! Errori, vizi, idee contrarie ad ogni ordine. E a noi un'amara riflessione: fra tanta colluvie di libri, giornali, trasmissioni di radio, pellicole, eccetera, per un'intera settimana, sette giorni, la nostra predichetta domenicale udita da una modesta e forse distratta percentuale di parrocchiani, ci fa qualche volta pensare: “Vox clamantis in deserto”. Opporre allora stampa a stampa, pellicola a pellicola, il bollettino parrocchiale, il settimanale, il quotidiano cattolico, la biblioteca: “clama ne cesses”, “opus fac evangelistae”. All'apostolo non è lecito scoraggiarsi. Se anche tre parti del seme evangelico è andata male, una parte è caduta in buon terreno ed ha riparato bene il seme perduto, poiché ha prodotto il trenta, il sessanta, il cento per uno.

E terzo: Gesù dice: “Ego sum Vita”, la Vita divina. È venuto a portarcela dal cielo, “veni ut vitam habeant et abundantius habeant”. “Per questo sono stato ordinato”, dice ognuno di noi, ”perché gli uomini abbiano la vita e l'abbiano abbondante”.
Il peccato ha introdotto la morte nel mondo. La morte di Gesù Cristo ha introdotto la vita per l'anima e per il corpo: “Ego sum resurrectio et vita”. A questo fine è ordinata la predicazione, così la gerarchia, la legge, l'attività varia del sacerdote, il messaggio della salvezza, la redenzione tutta. La quale ha per frutto: “Dedit eis potestatem filios Dei fieri”, il potere di diventar figli di Dio, “qui non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis, neque ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt”. Nati da Dio per il battesimo, siam figli di Dio, dunque suoi eredi e coeredi di Gesù Cristo: “Si filii et heredes”. L'uomo è così estremamente nobilitato: “divinitatis consortes”; “ubi abundavit delictum superabundavit et gratia”.
La messa: la gioia di ogni nostra mattina, il culmine della storia. Il sacrificio della croce e la sua rinnovazione sull'altare è e rimane la fonte sempre feconda della grazia, sorgente della salvezza e di ogni santificazione, la continua riconciliazione col Padre. Gesù Cristo, il Figlio suo, che a lui è piaciuto “per proprium sanguinem introivit semel in sancta aeterna redemptione inventa”.
La messa che ha il duplice aspetto: “Gloria in excelsis Deo”: è l'adorazione e la lode a Dio di infinto valore; “et in terra pax hominibus”, la soddisfazione e la supplica per il ministro, pro omnibus circumstantibus, pro fidelibus defunctis, pro nostra et totius mundi salute.
Da tale fonte vediamo in gioia dividersi l'acqua “saliens in vitam aeternam”, i sette rivi copiosi: dall'altare al battistero, al confessionale, alla balaustra, cresima ed olio santo: il primo complemento del battesimo, il secondo complemento del viatico. E per la società umana il matrimonio e per la società santa, la Chiesa, l'ordine sacro. Quanta ricchezza!
“Quid retribuam Domino pro omnibus quae tribuit mihi?”. La corrispondenza sta nell'usare per Dio e le anime i poteri e doni di Dio, che tanto ci ha prediletti. Prendere e dissetare il nostro spirito per vivere il nostro sacerdozio in Cristo, degni ministri del battesimo “ex aqua et Spiritu sancto”; sacerdoti che amano il confessionale, “quorum remiseritis peccata”; zelo per le comunioni e le cresime dei piccoli; impegno per le comunioni frequenti ed agli infermi; preparazione dei fidanzati al sacramentum magnum; incessante lavoro per le vocazioni, reclutamento e formazione. Tutte le attività indicateci dalla santa Sede sono da seguirsi. Ma il fine di tutto è portare l'uomo alle fonti della vita, ai sacramenti.
Quale pena! Città piene di uomini e piene di attività; si direbbe: quanta vita! Eppure città cimiteri, perché a tanti manca la vita della grazia, la vita eterna. Ma non vengono a noi. E andiamo a loro! “Euntes”, dice Gesù, “euntes”. E san Paolo scrive ai Tessalonicesi: “Voi mi siete stati testimoni perché mi son portato come un padre verso i figli”: Quanto mi curai di ciascheduno, egli dice, non solo della massa: “unumquemque deprecantem vos et consolantem”, per supplicarvi, per consolarvi. Allora le nostre iniziative, ma sempre ordinate alla comunione, cioè alla vita.

Conclusione.
Il nostro sacerdozio in Cristo sacerdote.
Le anime hanno dei diritti presso di noi. San Paolo: il sacerdote “pro omnibus constituitur”, dice; ed egli: “omnibus debitor sum”.
Hanno diritto di vedere in noi come si vive il cristianesimo nella nostra vita pratica: che siamo la via! Hanno diritto al pane della divina parola, alla verità: che sappiamo amministrarlo santamente! Hanno diritto a ricevere la grazia e abbondante, la vita.
Allora sdebitiamoci! E chi vive bene ed insegna il bene è degno di doppio premio: il cielo.
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-04-26_peccati2.mp3
durata 33.06

Don Giacomo Alberione - Roma, 26-04-1961 - alla ssp

Vari tipi di peccati, le imperfezioni volontarie


Maria concepita senza peccato, Maria Immacolata nella sua concezione e in lei non vi è stato macchia, neppure attuale. Allora riceverla, Maria, che viene a noi sempre come Madre, Regina, Maestra, riceverla con cuori puri, mondi.
E l’intenzione particolare per questo mese di maggio prossimo: la purificazione e dalla colpa grave e dalla colpa veniale e anche dalle imperfezioni volontarie. Quindi quando si dice: “Secondo le intenzioni del Primo Maestro”, si sa che si deve dire agli altri, ai giovani, agli aspiranti, ai discepoli, che questa è l’intenzione del Primo Maestro, cioè la purificazione, che Maria venendo a noi trovi tutto bello, santo!
Vi sono peccati diversi uno dall’altro.
Primo [è] il peccato di ignoranza. E questo si può capire più facilmente in gente poco istruita nelle cose di religione, che non ebbe l’educazione cristiana che abbiamo avuto noi. E può essere che anche fanciulli che vengono, entrano, [abbiano] mancanze che allora non conoscevano che avessero la gravità che forse in realtà avevano; tuttavia, forse, un certo pudore li avrebbe trattenuti dal male; tuttavia si possono aiutare più facilmente perché, se l’ignoranza aveva la sua parte, forse sono più sensibili ai richiami delle verità eterne. Predicare contro il peccato grave e veniale e le imperfezioni.
Secondo: vi sono i peccati di fragilità: persone che ammirano i buoni, vorrebbero essere come loro, però non si impegnano sufficientemente per diventarlo. Queste disposizioni non le scusano dal peccato, anzi sono più colpevoli di coloro che peccano per ignoranza. Questo: considerare qualche volta i santi e vederci così lontani. Sono deboli, di scarsa energia di volontà, fortemente inclinati ai piaceri, e irriflessivi.
Terzo: i peccati di indifferenza: tanto fa dire una parola santa, come una parola non santa. Un sacerdote che era andato in famiglia [nel] periodo delle ferie e aveva un fratello, ma non aveva lasciato una buona impressione. Il parroco dopo diceva: “In quella famiglia il più cristiano è il fratello, il meno cristiano è il sacerdote, a sentirlo parlare”: il fratello che era un buon operaio. Quando c’è l’indifferenza è difficile far sentire i motivi soprannaturali. Dice: «La loro conversione è molto difficile, data la continuata infedeltà alle mozioni della grazia, la consapevole noncuranza dei principi morali, e quasi il disprezzo sistematico dei buoni consigli e della delicatezza di coscienza».
Quarto: i peccati di ostinazione e di malizia. E qui i richiami alle volte non valgono; anzi, si offendono ai richiami. Tuttavia sempre richiamare, aiutare, compatire di più, perché la malattia è più grave, e quasi si direbbe malattia fatale. Allora fare come Gesù: quante volte ha richiamato Giuda! particolarmente nell’ultima cena e fino all’estremo: “Amice, ad quid venisti?”. Era il supremo invito, la suprema grazia.
Ma adesso arriviamo all’altro punto e cioè alle imperfezioni. Purificarsi dalle imperfezioni è il terzo punto per chi vuole attendere alla santificazione, il terzo punto – diciamo – nella parte negativa: togliere il male, per chi vuole esser perfetto; quindi togliere il peccato grave, togliere il veniale, e togliere le imperfezioni volontarie e lottare contro; togliere le imperfezioni volontarie e lottare contro quelle involontarie.
Bisogna subito pensare così, per stabilire il principio, come qui lo stabilisce un po’ a lungo: altro è il cristiano, altro è chi ha risposto: “Si vis perfectus esse”. Non c’è discussione: quella è stata la tua chiamata, la tua vocazione, diventar perfetto! Fin che ci son dei difetti, e ce ne saran sempre, lotta, togliere! Perciò se alcuni consigli si possono dare soltanto ai buoni cristiani, – e alle volte ce ne sono che sono veramente persone delicate, persone che odiano il male e cercano il bene, – per noi poco c’è da dire: la professione è l’accettare il mestiere del perfezionarsi. Perché il primo articolo delle costituzioni dice così e dice così per tutti i religiosi del mondo. È quello il punto essenziale.
E come faccio a conoscere se ho vocazione? Vedi un po’ l’impegno che hai di togliere il male e di far meglio.
Uno può essere che arrivi <come> con un bagaglio di mondanità; e quando arriva bisogna metterlo come a un ospedale in cura di un buon medico, cioè di un buon direttore spirituale; è veramente persona malata. Ma quando c’è questo impegno, lo si cura, risponde, ecco allora si può scoprire. E sant’Agostino non è arrivato a un’eminente santità? E non ce ne sono un buon numero di santi anche elevati agli altari che avevano avuto una gioventù un po’ disordinata? Certamente che chi ha avuto molte grazie da principio e non ha corrisposto, dopo deve fare uno sforzo a vincersi e poi a perfezionarsi, uno sforzo maggiore.
Quindi “si vis perfectus esse” è la vocazione, allora, [a] perfezionarsi, toglier cioè le imperfezioni volontarie.
«Il terzo grado di perfezione nel suo aspetto negativo è l’assenza di imperfezioni volontarie», dice. Però va considerato in due maniere: perfetto Breviario; perfetta Messa; perfetto insegnamento in scuola, far davvero il maestro, dal suono, dal segno di entrare, in uscita; la correzione dei compiti, la preparazione, la perfetta scuola; una perfetta conversazione, ricreazione; perfetto sollievo; perfetto rosario; perfetta adorazione; perfetto l’esame di coscienza; queste imperfezioni che riguardano le azioni quotidiane: perfetto comportamento con i fratelli, perfetto comportamento quando si è a contatto con persone estranee che possono essere buoni cristiani, possono essere non buoni cristiani. Dobbiamo lasciare dietro di noi un certo profumo, del bonus odor Christi, perché concepiscano che il prete non è come loro.
«Benché sia una questione ancora vivamente dibattuta tra i teologi, riteniamo che l’imperfezione anche volontaria si differenzia dal peccato veniale»: be’, questa è una questione fra teologi; «tuttavia, secondo san Giovanni della Croce, peccato veniale e imperfezioni si distinguono nettamente»: questa discussione non è per la meditazione.
«Il santo sottolinea con forza la volontarietà di queste imperfezioni, per distinguerle da quelle di pura fragilità e inavvertenza, che è impossibile evitare del tutto». Dice: «Dico così perché senza avvertenza e cognizione e senza libertà, l’anima potrà di certo cadere in imperfezioni e peccati veniali, essendo che di tali peccati, non tanto volontari, sta scritto che “il giusto vi cadrà sette volte al giorno e se ne rialzerà”; ma in quanto agli appetiti volontari, che sono peccati veniali avvertiti, benché di minime cose, basta un solo appetito immortificato per impedire l’anima. È tuttavia chiaro distinguere tra qualche atto isolato, benché volontario, e l’abito radicato di volontarie imperfezioni», quando l’abito è radicato e neppure ci si vuole correggere; «quest’ultimo abito radicato, volontarie imperfezioni, impedisce la perfetta unione con Dio».
«Per appetito immortificato, però, qui intendo il tale abito perché alcuni atti sporadici di appetiti differenti non sono di tanto impedimento, quanto gli abiti sono mortificati; tali imperfezioni abituali sono per esempio: l’abitudine di parlare troppo; l’attaccamento a piccole cose che l’anima mai si decide di lasciare, come sarebbe l’affetto di una persona, ai vestiti, a un luogo, a una camera, a quel tal genere di cibi, di relazioni, a quelle piccole soddisfazioni, alla mania di udire novità e simili. Se l’anima porta affetto abituale a qualsivoglia di queste imperfezioni, incontra maggiore ostacolo a crescere in virtù, maggiore ostacolo che se cadesse ogni giorno in molte altre imperfezioni e peccati veniali saltuari, che non procedessero da mala consuetudine.
Finché duri uno degli accennati abiti, è impossibile che l’anima progredisca nella perfezione, benché l’imperfezione sia piccolissima. Difatti che importa se un uccellino stia legato ad un filo sottile piuttosto che ad un filo grosso? Per quanto il filo sia sottile, è sempre quello a cui l’uccellino è legato, e sino a che non lo spezzi non potrà volare. Senza dubbio il filo più tenue è più facile a rompersi; ma pur deve rompersi, perché altrimenti l’uccello non si potrà liberare. Così avviene all’anima unita con l’affetto a qualche cosa: benché fornita di molte virtù, non giungerà alla libertà dell’unione divina».
Questa dottrina trova la sua conferma in san Tommaso. E spiega: «Secondo san Tommaso la carità e tutti gli altri abiti infusi crescono per un atto più intenso dell’abito che attualmente si possiede. L’imperfezione è per sua natura un atto debole, la negazione volontaria dell’atto più intenso. È impossibile quindi progredire nella perfezione se non si rinuncia ad imperfezioni volontarie.
Questa è la causa perché nella pratica si frustrano tante santità in potenza, e scarseggiano i veri santi. Sono moltissime le anime che vivono abitualmente in grazia di Dio e che non cadono mai in peccati mortali, e si sforzano anche, talvolta, di evitare i veniali; tuttavia si vedono paralizzate nella vita spirituale; passano gli anni ma rimangono sempre uguali, se non con maggiori imperfezioni.
Che cosa è avvenuto? È semplice: non si sono preoccupati di sradicare le loro imperfezioni involontarie; non hanno cercato di spezzare il filo sottile, che le teneva legati alla terra e non hanno potuto spiccare il volo verso le altezze».
E allora segue il lamento, l’accento di tristezza di san Giovanni della Croce: «È un peccato vedere alcune anime che, mentre a guisa di navi cariche di ricche mercanzie, sono ricolme di tesori di opere e di esercizi spirituali, di virtù, e anche di doni celesti, tuttavia, perché non hanno il coraggio di finirla con qualche piccolo gusto, o attacco o affetto, il che è tutt’uno, non vanno mai avanti e non arrivano al porto della perfezione. Eppure il porto sarebbe tanto vicino! Basterebbe non più che spiccare un buon volo, rompere quel filo di affetto, staccarsi da quella remora di appetito: cosa veramente lacrimevole.
Il Signore ha loro concesso di spezzare ben altre funi più grosse di affetti e peccati e vanità; ed essi poi, non volendo staccarsi da un’inezia che Dio chiede loro di vincere per amor suo, non volendo, dico, recidere quel filo, trascurano di arrivare a un tanto bene, cioè a una santità distinta.
E il peggio è che non solamente non vanno avanti, ma bensì, a cagione di quell’affetto, tornano indietro. Perdono così il vantaggio del cammino che han fatto da tanto tempo e fatica. Poiché si sa bene che in questo cammino il non andare avanti è un tornare indietro, il non guadagnare è perdere. Questo volle significare il Signore: “Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde”. Chi non si cura di riparare la fenditura di un vaso, o della nave, benché fenditura sottilissima, vedrà trapelarne a poco a poco tutto il liquido in esso contenuto, se è un vaso, e l’acqua che invade la nave se si tratta di una nave. “Chi disprezza le cose piccole”, dice l’Ecclesiastico, “a poco a poco andrà cadendo”».
E poi dà la spiegazione che viene da san Tommaso, spiegazione piuttosto lunga; e c’è il commento di san Giovanni della Croce. Ma noi veniamo alle conclusioni.
Conclusione è questa: «Si impone quindi come qualche cosa di indispensabile, se vogliamo giungere alla perfetta unione con Dio, una lotta incessante contro le imperfezioni volontarie»: questa è la conclusione. «L’anima deve porre tutto il suo impegno e spiegare tutte le sue energie, facendo uso di tutti i mezzi a sua disposizione, per diminuirne il numero delle imperfezioni e tendere sempre verso quello che è più perfetto, procurando di fare tutte le cose con la maggiore intensità possibile». E spiega che «non si tratta di una intensità fisica, organica, ma di perfezionare l’azione e i motivi per cui l’azione si fa; e particolarmente con maggior purezza di intenzione» e cioè «glorificar Dio, rimanere sotto l’azione dello Spirito Santo, nel tempo e per l’eternità, senza riguardo ai nostri gusti e ai nostri capricci. Perfezionarsi consiste semplicemente in una conformità sempre più perfetta e docile al volere di Dio su di noi, fino a lasciarsi portar da Lui senza resistenza, ovunque Egli vorrà, fino alla morte, alla morte totale dei nostri personali egoismi e alla piena trasformazione in Cristo che ci permette di dire con san Paolo: “Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me”.
È evidente che questa profonda trasformazione del nostro essere e questo rinnegamento totale del nostro io egoista, è un’impresa superiore alle forze umane. E però vi sono quelli che cercano di perfezionarsi al modo umano», cioè per semplici motivi umani; e dice: «Non può conseguire la purificazione della parte più intima del suo essere che opera solo a togliere difetti per motivi umani; è necessario che lo Spirito Santo compia questa trasformazione profonda nel suo duplice aspetto negativo e positivo» e cioè: togliere le imperfezioni, far vivere Gesù Cristo in noi; Gesù Cristo che è piaciuto al Padre, ecco: “Questo è il mio Figlio in cui mi sono compiaciuto”. Il Padre celeste, vedendo questo nostro sforzo, questa tendenza alla perfezione, si compiace di noi: “Questo è un figlio che mi piace, perché è un’immagine del Figlio”, e cioè vive secondo Gesù Cristo: ”Vivit vero in me Christus”.
Lavorare per la perfezione e far lavorare le anime per la perfezione; perfezione prima nelle cose esterne che è più facile, la preghiera, la scuola, l’apostolato, le parole, i discorsi, letture, la vita quotidiana; e poi questa perfezione nell’interno, nell’intimo, per la gloria di Dio e per arrivare a maggior santità.
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-12-16_ideale.mp3
durata 22.50

Don Giacomo Alberione - Roma, 16-12-1961 - ai sacerdoti ssp

Formare l'ideale - L'ideale paolino


La meditazione di questa mattina fa parte dell’argomento che dovremo considerare nel ritiro mensile; riguarda il modo di formare, di educare, non solo quindi di istruire e di far eseguire, ma sentendosi ognuno come deve sentirsi, cioè in Cristo, come educatore, e cioè presentarsi come Via, Verità e Vita. Non ci può essere altro Maestro che superi e ogni maestro ha da apprendere da Lui, e più si forma come Egli il maestro si è mostrato, più opererà e più otterrà frutti.
Invochiamo in questo tempo Maria educatrice, Maestra, se il Padre Celeste ha voluto mettere nelle mani di Maria suo Figlio, il Figlio che ha voluto farsi – incarnandosi – conforme all’uomo in tutto eccetto che nel peccato, ed ha voluto quindi venire educato da Maria, educato da Maria. E quindi noi possiamo invocare Maria educatrice.
Dicendo Madre si dice tutto perché quando si pensa a una madre vera, si pensa a una donna la quale ha avuto in consegna un’anima da Dio; ed essa si fa proprio relativamente Via, Verità e Vita. E cioè dà il buon esempio ed insegna al bambino a star buono, e lo istruisce in religione e in tutto quel che riguarda la vita di un cristiano e di un uomo retto. E poi la mamma porta il suo bambino nel suo cuore, sempre, lo consacra a Dio, prega per lui, lo accompagna, il bambino, a compiere le opere di pietà, la prima comunione, la cresima, le prime confessioni, e gli insegna le preghiere ecc.: vita.

Oh, qualche cosa così in generale. E cioè il formare deve avere due parti, particolarmente: e cioè in primo luogo entusiasmare il giovane, il chierico, entusiasmarlo perché egli faccia quelle cose naturalmente, possiamo dire, spontaneamente, per principio, e cioè per raggiungere quell’ideale che si è riusciti ad innestare in un’anima. Dopo vien l’esecuzione. Ma bisogna che il fanciullo, il giovane, il chierico, avendo questo ideale in mente di riuscita, allora ecco tutto egli prende come mezzo per la sua riuscita: e lo studio, e l’apostolato, e la disciplina, e le privazioni, le mortificazioni, e la parte positiva, l’esercizio della virtù.
Quanti, trascinati dall’ideale, hanno lavorato con generosità; e allora, entusiasmati del loro ideale, lottano contro le passioni e lavorano per acquistare tutto quel che è necessario di scienza e di santità e di amore e di esercizio dell’apostolato. Allora, quando c’è questa condizione, passano in seconda linea certi difetti, qualche volta anche difetti grossi. Ma si vede che lottano, che vogliono riuscire.
Allora ecco: necessità di formarsi un ideale; formare nel giovane, nell’aspirante, nel chierico, nel sacerdote novello l’ideale.
Che cosa significa formarsi un ideale? L’ideale può essere considerato variamente: in uno l’ideale [può essere] la gioia di Dio: “Che cosa son destinato io a fare su questa terra? A dare, aumentare la gloria estrinseca a quel Dio il quale ha creato tutto per manifestare la sua gloria, e quindi perché le persone, gli uomini, gli esseri intelligenti gli dessero gloria; del resto tutto il mondo è creato a sua gloria, e non può essere un altro fine.
Allora questo ideale, per esempio, serve particolarmente per la formazione dei Gesuiti: “Ad maiorem Dei gloriam”.
Può essere un ideale formare la gioventù, avviare i giovani ad una vita retta, ad una vita cristiana e, quando il Signore vuole, ad una vita sacerdotale, ad una vita religiosa. Che grande missione lavorare per i giovani! Diventare l’apostolo della gioventù! E questo è l’ideale che anima i Salesiani.
E così vi sono quelli, per esempio i Maristi, Marianisti, [per cui] l’ideale [è] vivere con la Madonna, con Maria, e in Maria e per Maria, così come poi ha insegnato San Luigi Grignon de Montfort, il quale ha riassunto poi quello che altri già vivevano, praticavano, ma lo ha riassunto e presentato in una maniera più conveniente: può essere allora l’ideale. Vi sono giovani chierici, sacerdoti i quali proprio dietro a questo ideale: “vivere in Maria, predicare Maria, far amare Maria”, si moltiplicherebbero in pubblicazioni, si moltiplicherebbero in articoli, e in azione, propaganda, la diffusione perché quel periodico di Maria arrivi, entri.
L’ideale missionario, quanti ne sostiene? E quanti giovani ha guadagnato? Vedevamo la Mostra vocazionaria ad Alba: dove si fermavano più abbondantemente i giovani era proprio davanti alla parte di esposizione che riguardava le missioni, per esempio quelle della Consolata, i quali sono anche stati molto bravi a rappresentare bene la loro Missione. I giovani si fermavano specialmente lì, e interrogavano, volevano sapere che cosa si farebbe, ecc. L’ideale missionario allora sostiene tanta gioventù che si prepara ad andare a cercare le anime dove sono, lontano, in Africa o in Indonesia, o nella Nuova Zelanda, ecc., e magari al Polo Nord, in Lapponia, ecc.
Ideale: istruire, combatter l’errore, la gloria della Chiesa che deve compiere attraverso i secoli l’opera di Gesù Cristo, continuandola sempre in modo più ampio e in modo più efficace. Questi uomini che vanno dietro l’errore, che vanno dietro la perdizione: salvarli! Questo amore alle anime: istruirle! Allora lo studiare “Il trattato di coscienza”, ad esempio, prende un altro senso; allora quando si studia “De Verbo incarnato”, prende un altro senso; quando si studia “De Eucarestia”, ha un altro senso. E come vuol penetrare, e come un giorno vuol presentarlo al mondo, perché sia il mondo istruito e sappia che cosa si fa quando si riceve Gesù.
Alle volte c’è una preparazione tecnica, alla Comunione, alla Prima Comunione, senza anima, come se fosse una cerimonia che uno prende la benedizione che viene portata alle case in tempo pasquale! Oh, per quei bambini, alle volte, la prima comunione è il comperare il vestito nuovo, e quel giorno lì mangiare i dolci, qualche regalo, qualche giocattolo. E non opera sulla vita allora!
L’ideale [è] Cristo, l’amore a Gesù Cristo, vedere la sua opera, come è venuto a cercare gli uomini. Che grande ideale questo: il mondo perduto, Gesù Cristo che viene a richiamare l’uomo smarrito, smarrito idealmente e poi moralmente e poi anche quanto al culto, perché travolto dalle superstizioni e dai falsi culti; e allora voler vivere in Cristo, l’amore a Gesù Cristo.
E non pensare che i ragazzi non siano sensibili. I ragazzi, se si sa infondere in loro l’amore a Dio, se si dice chiaramente: “Qui siamo per farci una missione, [ad] imitazione di Gesù Cristo”, e allora [la considererà] una grande impresa; in maniera che il fanciullo non consideri le ore che passa in tipografia come un lavoro a cui viene condannato, ma un apostolato per le anime.
Il ragazzo non è insensibile a proporgli degli ideali, anche di sacrifici e di mortificazione. Ma quella disciplina, quella mortificazione, procede dall’amore a Dio; e cioè per Dio, per Gesù Cristo si fa questo, perché si vuole arrivare a imitare e compiere l’opera di Gesù Cristo.
Se non si forma questo, che senso prende l’andare in fila quando si va in chiesa, prendere la corona, quando dalla chiesa si va allo studio? Quasi non hanno senso. E difatti si nota qualche volta nelle file che stanno in fila perché c’è l’assistente; ma sotto sotto guardano a sinistra e a destra, sbirciando con gli occhi che cosa c’è; e non capiscono che cosa sia e perché si consigli questo.
Ma quello ha da venire spontaneo! Perché c’è stata un’istruzione, c’è stata una meditazione, che hanno assimilato e hanno capito: “Sì, prendo la corona, ma in preparazione adesso per andare a messa, andare alla comunione, andare nella casa di Gesù, e dalla chiesa passare allo studio: è una continuazione di conversazione con Gesù, con Maria; e vado a continuare la mia formazione, e cioè ad imparare quel che un giorno devo insegnare: far conoscere Gesù Cristo”, ecc.
Allora, se si fa questo, tutto è utile. Allora il maestro, la direzione spirituale, la disciplina, l’apostolato, lo studio, tutte le pratiche divengono un mezzo per quell’ideale. E sanno sacrificarsi, sanno immolarsi, sanno. E quando si predica a un gruppo di giovani e si parla anche di Gesù Cristo, delle sue sofferenze, ecc., capiscono alla fine! “Chi vuol venire dietro di Me rinneghi se stesso”: e vanno anche a gara a far mortificazioni! Qualche volta si propone di far mortificazioni, per fare il mazzetto spirituale da presentare al maestro, al superiore, e se viene spontaneo, perché c’è una convinzione, perché c’è un ideale di imitazione del Crocifisso. Che cosa presentano i Cappuccini? Presentano Gesù Cristo. E quale è la loro efficacia nel mondo? Una efficacia sostanziale, nella loro vita; perché stanno proprio a contatto, quindi in carità, nelle opere di beneficenza, nelle opere caritative in sostanza, e al confessionale [perché hanno] pena di questi peccatori, e per dirigere le anime e l’amore a Gesù Cristo: “Amor meus pondus meum, eo feror quocumque feror”. Allora uno è trasportato.
E quindi ecco il principio: eccitare a questo ideale, perché sia amato. E dopo si suggerisce un mezzo per volta, si suggerisce un mezzo per volta: far silenzio in questo, che è una mortificazione, in questo caso, perché “stai andando in chiesa; se non ti raccogli, cosa dirai a Gesù?”; e poi si suggerisce un’altra cosa. E il giovane è anche capace di arrivare a delle mortificazioni persino esagerate, magari vi chiede delle penitenze particolari, che saranno concesse più o meno secondo le buone regole, si comprende. Ma l’aspirazione!
Non crediamo che il giovane, il fanciullo, il chierico siano insensibili agli ideali, agli ideali anche che portano al sacrificio. Non è più difficile rinunciare al mondo: lo cercano, perché cercano Gesù. Non lo sentono neppure il distacco da tante cose. E si lavora e si riempie la giornata, non si sente neppure la fatica. Qualche volta si va anche fino all’esagerazione. Ma perché? Perché si vuole far del bene alle anime, si vuole dar gloria a Dio, si vuole imitare Gesù Cristo, si vuol continuare l’opera di Gesù Cristo, e cioè di salvezza, il messaggio della salvezza.
Quindi è il giovane che deve lavorare, non il maestro, allora. Il maestro eccita, poi lascia lì, con una spontaneità. Invece che una sgridata e tanti avvisi, riempire il cuore, fare delle profonde persuasioni! E allora è difficile che tradiscano la vocazione; si innamorano talmente, che chiedono di andare all’apostolato anche quando non sarebbe tempo; e se c’è da fare uno straordinario, vorrebbero essere loro chiamati; e perché si chiama solamente un piccolo gruppo, vorrebbero essere del piccolo gruppo che è destinato a fare quello straordinario.
Bisogna che sia il giovane che lavora per la sua santità, per il suo ideale. Il maestro, il direttore spirituale e tutta la scuola e tutto l’apostolato [sono] mezzi per quello, aiuti per raggiungere quell’ideale che si è formato in mente. E allora anche il senso, diciamo la sentimentalità, è assorbita dall’ideale. Quindi moltissime tentazioni non vengono, moltissime tentazioni non vengono, perché anche la sentimentalità è assorbita in quello. E non si pensa a tante sciocchezze, tante notizie, ecc. Si prende ciò che viene di qua e di là, secondo [che] aiuta per l’ideale e si lascia quello che non aiuta a conseguire quello che è l’ideale.
Bisogna che sia il chierico che lavora lui, il sacerdote che lavora lui, interiormente. Il resto è tutto aiuto. Se viene imposto soltanto, lo eseguirà quando è veduto, quando è sotto la sorveglianza. Ma quando è persuaso o che vada in vacanza o che si trovi solo in qualche posto, lui ha in testa quello che è l’ideale e non guarda se è osservato o non è osservato; vede quello che è utile per il suo ideale, e toglie, rinuncia a quello che è inutile.
Ora dunque due punti: formare la coscienza, formare l’ideale; secondo: che sia poi l’aspirante che vuole raggiungere l’ideale e la scuola e l’apostolato e l’assistenza e la direzione spirituale e il confessionale e la predicazione [siano] per aiutare ad arrivare a quell’ideale: salvatore di anime, per esempio.
Persuasi! Già bisognerebbe aggiungere, ma penseremo poi magari nel ritiro mensile.
Gli ideali possono essere comuni, come la santificazione, dando molti esempi di santi, facendo leggere molte vite di santi. Il Canonico Chiesa ci infondeva l’ideale con la “Lettera ai Romani”: l’universalità, la Redenzione, il compito del sacerdote, allora, nella continuazione delle opere di Gesù Cristo e nell’applicazione del Vangelo alla vita presente, ecc.; e poi la grande idea della Chiesa, i grandi problemi della Chiesa, la missione. E allora si capiscono anche le persecuzioni, si capiscono le contraddizioni: è Cristo che vive nei secoli, ieri, oggi, nunc et in saecula.
Dobbiamo formarci un’idealità; non vivere terra terra, per cui dopo si dà grande importanza a una parola sentita, contraria, una lode che è venuta, che fa compiacere vanamente: si è fatto proprio solo il nostro dovere non si è fatto per quello: per avere un’approvazione, ecc.
Allora bisognerà che approfondiamo questo e che comprendiamo sempre meglio l’ideale poi che è specifico per ogni istituto; e dopo l’ideale della santità, l’ideale dell’apostolato, a cui siamo chiamati e come sacerdoti non solo come apostolato, ma come ministero ancora.
Chiediamolo a Maria.
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-04-26_peccati_veniali.mp3
durata 32' 49''

Don Giacomo Alberione - Roma?, 26-04-1961 - alla ssp

I peccati veniali


Peccati veniali possono essere commessi nella mente, supponiamo: superbia, sentimenti, invidia, attaccamento a qualche cosa, a qualche persona; possono essere commessi con atti che sono ispirati dall'avarizia o dalla inosservanza della povertà; possono venire, i peccati veniali, dalla concupiscenza degli occhi, sguardo, udito, la gola, la lingua, il senso del tatto, fantasie, immaginativa, eccetera. Sempre insistiamo sull'esame di coscienza su tutti e in primo luogo per noi medesimi: sentirne l'impegno, la necessità, i vantaggi.
Ora due specie di tentazioni: quelle che vengono dal mondo esterno e quelle che vengono dal demonio; poi ci sarebbero quelle che procedono dalla carne, ma intanto per questa sera [consideriamo] ciò che procede, le tentazioni che procedono dal mondo.
Il mondo è cosa difficile a definire. Certo non si intende qui il mappamondo; si intendono gli uomini che vivono sulla terra, che vivono nel mondo. Ma parlando del mondo come incitamento, occasione al male, che cosa intendiamo? «Intendiamo e si tratta in ultima analisi del clima anticristiano che si forma tra le persone che vivono dimenticando Dio e dedite solo alle cose della terra. Quest'ambiente malsano è costituito e si manifesta in quattro forme principali»; e le enumera. Però gli scrittori di ascetica particolarmente rivolgendosi ai religiosi, distinguono il mondo esteriore, anticristiano e il piccolo mondo della vita religiosa. E non abbiamo molte volte tanta paura di questo, quanto invece forse si ha paura di quello, cioè del mondo anticristiano, sì, l'ambiente malsano che si trova nel mondo.
Oh, dice «in quattro forme principali». Consideriamole sempre nel mondo, largo, esterno e nel mondo paolino, nostro, case religiose.
«Primo: false massime in opposizione a quelle del vangelo. Il mondo esalta le ricchezze, esalta le soddisfazioni, i piaceri, usa la violenza, adopera l'inganno un po' in tutto, adopera la frode, le quali cose sono poste al servizio del proprio egoismo. Si vuole illimitata libertà per darci ad ogni specie di eccessi e di peccati, alle volte sfrontata libertà. Dicono: “Siamo giovani, dobbiamo goderci la vita! Dio è buono e comprensivo e non ci danneremo solo perché godiamo e ci divertiamo un poco!”; oppure: “Occorre guadagnare molto denaro in qualsiasi modo”; poi: “La cosa più importante è la salute, la vita lunga, il mangiare e il vestir bene, il divertirsi quando è possibile”», eccetera. Queste sono le massime consacrate dal mondo.
«Non riesce il mondo a concepire nulla di più nobile e di più elevato. Lo stancano e lo infastidiscono le massime contrarie, che sono appunto quelle del vangelo»: “Beati i poveri”: eh: “Beati i ricchi!” dicono; “Beati i miti”: ”Beati chi si va valere le ragioni”, anche con violenza alle volte, con ingiustizie. «E si spinge tanto avanti il mondo nella sovversione dei valori che si viene a questo punto: un volgare ladro viene reputato uomo abile nei suoi affari; un seduttore è un uomo allegro per il mondo; un empio è un libero pensatore, vien chiamato uno spirito forte; una donna abbigliata in modo indecente e provocante una persona che segue la moda»; e così via: sono i suoi pensieri, i pensieri del mondo.
E tra questi giudizi estremi, cioè questi apprezzamenti estremi vi è qualche cosa che, ridotto nel campo, nell'ambiente religioso ha sempre una qualche referenza, e qualche volta più con le parole e qualche volta lo si vede dagli atti.
Secondo: altra forma: «Burle e persecuzioni contro la vita di pietà. I vestiti decenti ed onesti», persone che vestono decentemente ed onestamente; «gli spettacoli morali definiti ridicoli e noiosi», vogliono del passionale; «la delicatezza di coscienza negli affari è creduto scrupolo; le sante leggi del matrimonio giudicate antiquate e impossibili oggi a praticarsi; così la vita cristiana del focolare, la sottomissione e l'ubbidienza della gioventù eccetera: burle e persecuzioni». Se c'è una famiglia che in parrocchia frequenta i sacramenti, segue il parroco, eh, quanti giudizi contrari! E così avviene un poco, in misura ridotta, nelle comunità religiose.
Terza forma: «Piaceri e divertimenti sempre più numerosi» si vogliono, «sempre più raffinati ed immorali, o cinemi o centri di perversione o spiagge e piscine con promiscuità di sessi, letture di giornali, di riviste, romanzi, maniere indecenti, conversazioni un po' turpi, barzellette procaci, frasi a doppio senso, eccetera. Non si pensa e non si vive se non per il piacere e il divertimento, a cui si sacrifica spesso il riposo e alle volte il denaro». A proposito di queste frasi a doppio senso, quante volte mi sono arrivate parole di disapprovazione, di meraviglia.
Quarta forma: «Scandali e cattivi esempi quasi continui, così al punto che non è possibile uscire sulla strada, aprire un periodico, guardare una vetrina, udire una conversazione senza che appaia in tutta la sua crudezza l'istigazione al male. A ragione diceva san Giovanni che il mondo è immerso nel male: “Mundus totus in maligno positus est”. Il divino Maestro ci ha messo in guardia contro le seduzioni del mondo: “Vae mundo a scandalis”, annunciandoci il terribile destino che attende gli scandalosi».
Oh, segue: «Modi di combattere lo spirito del mondo». «Primo», dice, «bisognerebbe fuggirlo». Ma mica tutti posso andare nella trappe, nella clausura stretta, là magari dove non si parla che raramente. Ma nonostante questo anche là qualche volta arriva il mondo.
I mezzi. Quattro mezzi propone contro i quattro abusi.
«Primo: fuggire le occasioni pericolose. L'anima che aspira alla santità deve denunziare volentieri e rinunziare agli spettacoli nella maggior parte dei quali il mondo inocula il suo veleno, semina i suoi errori, eccita le passioni anche più basse. Qui più che altrove vale il detto dello Spirito santo: “Colui che ama il pericolo, in esso perirà”. È istruttivo il caso di Alipio, intimo amico di sant'Agostino. Alipio, sollecitato da alcuni amici, acconsentì ad assistere ad uno spettacolo pericoloso con l'intenzione di dimostrare loro che aveva sufficiente forza di volontà per rimanere tutto il tempo con gli occhi chiusi; ma alla fine si ritrovò che aveva tenuto gli occhi spalancati più degli altri e più degli altri aveva applaudito e gridato»: questo dal libro delle “Confessioni”. «È necessaria una severa mortificazione per raggiungere l'unione con Dio. A nessuno sembri eccessiva la rinuncia alla maggior parte degli spettacoli e dei divertimenti. In realtà a nulla rinunzia chi lascia tutte le cose per Dio. Soltanto alla nostra cecità appare troppo caro il prezzo della santità», cioè di queste rinunzie.
«Secondo: ravvivar la fede, che ci dà la vera vittoria contro il mondo: “Haec est victoria quae vincit mundum fides nostra”. Illuminati da essa, dobbiamo opporre alle false massime del mondo le parole di Cristo». Quindi «a ogni beatitudine, il mondo oppone una sua beatitudine: ma noi dobbiamo accettar le beatitudini di Gesù Cristo. Alle sue lusinghe», cioè le sue lusinghe, del mondo, «e seduzioni, le promesse eterne» per chi fa bene; «ai suoi piaceri e divertimenti, opporre la pace e la serenità di una buona coscienza; alle sue ironie e ai suoi disprezzi, il coraggio dei figli di Dio opporre; ai suoi scandali e cattivi esempi la condotta dei santi e la costante affermazione di una vita irreprensibile davanti a Dio e davanti agli uomini». Quindi ravvivar la fede, sì.
«Terzo: considerar la vanità del mondo. Il mondo passa velocemente, “praeterit enim figura huius mundi”; e con esso svaniscono i suoi piaceri e tutte le sue concupiscenze: “et mundus transit et concupiscentia eius”. Non c'è niente di stabile sotto il cielo; tutto si muove e si agita come il mare quando infuria la tempesta. Questo mondo, così incerto, cambia continuamente i suoi giudizi, le sue affermazioni, i suoi gusti, capricci; a volte rinnega quello che prima aveva applaudito con frenesia, andando da un estremo all'altro senza scrupolo, rimanendo solo costante nella facilità della menzogna e nell'ostinazione per il male. “Tutto passa e svanisce, solo Dio non muta” diceva santa Teresa. Con lui rimane sempre la sua verità: “Veritas Domini manet in aeternum”; rimane sempre al sua parola: “Verbum autem Domini manet in aeternum”; rimane sempre la sua giustizia: “Iustitia eius manet in saeculum saeculi”; rimane sempre che il premo aspetta chi compie la sua divina volontà: “Qui autem facit voluntatem Dei manet in aeternum”».
Confrontare gli insegnamenti e gli esempi del mondo con gli insegnamenti di Gesù. Tanto il mondo ci porterà tutti al camposanto. E solo andremo a presentarci al tribunale di Dio. E magari non diranno neppure un “requiem” specialmente quelli che si professavano amici, interessati.
«Quarto: calpestare il rispetto umano». Eh, si introduce nelle comunità sempre un tantino, qualche volta un tantino in più. «Il prestare a quello che diranno gli altri, sminuisce la nostra dignità di cristiani e reca offesa a Dio. Per non disgustare quattro esseri insignificanti, che vivono in peccato mortale forse, si calpesta la legge di Dio e si ha rossore di mostrarsi discepoli veri di Gesù Cristo. Il Maestro divino ci avverte chiaramente che non riconoscerà davanti al Padre colui che lo avrà rinnegato davanti agli uomini. Occorre assumere un atteggiamento franco e deciso davanti a Gesù, perché chi non è con lui è contro di lui. San Paolo afferma di se stesso che non sarebbe discepolo di Cristo se cercasse di piacere agli uomini. Il cristiano desideroso di conseguire la santità, non deve tenere in considerazione quanto il mondo può dire o pensare. È meglio sempre, fin dal primo momento, adottare una condotta chiara e risoluta, affinché nessuno sia tentato di dubitare dei nostri veri propositi e delle nostre reali intenzioni. “Il mondo vi odierà e vi perseguiterà”, dice il Maestro; però <se troverà,> se il mondo troverà in noi delle persone decise e irremovibili, finirà col lasciarci in pace. Solo con i codardi torna continuamente alla carica per attrarli nelle sue file. Il mezzo migliore per vincere il mondo è quello di non cedere un solo passo, di affermare con forza la propria volontà, di rinunciare per sempre alle sue massime e alle sue vanità».
Fin qui contro le tentazioni che provengono dal mondo.

Poi viene a parlare delle tentazioni che provengono da Satana. Veramente non son molti giorni che avevamo fatto una meditazione, ma qui siete il maggior numero di allora.
Dà il titolo dei capitoli di un libro scritto in riguardo a quello che sono le tentazioni che provengono da Satana. Primo capitolo: la tentazione in generale: sua natura e sua universalità; secondo: le sue fonti: la carne; natura della concupiscenza; poi il mondo e le sue armi e cioè la violenza e la seduzione; il demonio, la figura e la sua storia; l'opera del tentatore, sua azione nell'intelligenza, nell'appetito sensibile e nel corpo materiale; poi il procedimento della tentazione e il fine della medesima.
Riguardo alla tentazione è ben diverso: “Deus temptavit Abraham” e cioè lo mise alla prova, ma sempre per il bene non per il male: è il diavolo che tenta e mette alla prova per trascinare al peccato. Abbiamo considerato già – e qui basta accennarlo adesso – in quella mediazione: la psicologia della tentazione.
E, se vogliamo, in quel libro è messo di fronte il tipo di tentazione in cui chi è stato tentato è stato vinto e il tipo di tentazione di chi è stato tentato ed ha vinto. La prima Eva, che è stata vinta; secondo Gesù Cristo vincitore: “Vade retro satana”.
La psicologia. «Il tentatore si avvicina con astuzia»: il demonio si presenta bello; e tutto quel che è male si presenta seducente.
«Primo passo: insinuazione: “Perché Dio vi ha comandato di non mangiare del frutto di tutti gli alberi del Paradiso?”. Il demonio non tenta ancora, però fa scivolare la conversazione sul terreno a lui più propizio»: “Perché han proibito questo?”.
«Secondo passo: la risposta dell'anima», che non è decisa in Eva. «E la donna al serpente»: corrisponde al colloquio, «e la donna al serpente: “I frutti degli alberi del giardino possiamo mangiarli tutti, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino, Dio disse di non mangiarne e di non toccarlo per non averne a morire”». Quando già si conversa, si è perduto terreno.
<Allora satana> «Terzo: proposta diretta del peccato. E il serpente disse alla donna: “No che non morirete, anzi Dio sa che quando ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diverreste come lui conoscitori del bene e del male”». E il diavolo riesce a persuadere l'anima che dietro il peccato ci sta la felicità.
Oh, allora: «La esitazione tra il bene e il male. Si forma nell'interno una specie di lotta. Dice il sacro testo: “Allora la donna osservò che il frutto dell'albero era buono a mangiare e piacevole a vedersi e appetibile per acquistare conoscenza”»: ecco, si considera quel bene menzognero che si crede di conseguire col peccato.
«Quinto: il consenso della volontà. “Perciò ne colse un frutto e ne mangiò”».
E «sesto: chi pecca generalmente cerca il complice», cioè di far degli altri complici. «“E ne diede anche a suo marito insieme con lei ed egli pure ne mangiò”.
Viene dopo la disillusione. “Subito si apersero gli occhi ad ambedue e si avvidero di essere nudi, onde intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”.
E allora umiliati: la vergogna e il rimorso. “Udirono il suono del Signore Dio, che trascorreva per il giardino alla brezza giornaliera e si nascose Adamo con la sua compagna dalla vista del Signore, si nascose tra gli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò Adamo dicendogli: Dove sei?” La stessa domanda pone la coscienza al peccatore, che invano cerca una risposta». La psicologia del peccato.
E allora «prima della tentazione vigilanza e orazione. “Vigilate et orate”: il Maestro ci dà questo avvertimento: bisogna sempre vigilare. Non bisogna credersi mai sicuri». Eh, “Io non peccherò, non cadrò”. «Durante la tentazione la resistenza diretta ci porta ad affrontar la stessa tentazione e a superarla facendo il contrario di quanto il diavolo suggerisce». Per esempio: resistenza diretta: si ha una gran voglia di giudicar male una persona e intanto invece <si viene> si resiste e se ne parla in bene. Così altri esempi.
Poi «la resistenza indiretta, specialmente nelle tentazioni del senso: fuggire, fuga. Molte volte è tenace la tentazione e perdura. E bisogna esser tenaci e forti e perseverare nella preghiera», perseverare nella preghiera.
Oh, queste considerazioni sono estremamente chiare e istruttive
.
Concludiamo con le parole di santa Teresa. Dice: «Non vi sono tenebre così folte, né cose tanto tetre e buie che non ne siano superate e di molto da un'anima in peccato mortale. Finché dura in peccato mortale, non gli giovano a nulla per l'acquisto della gloria neppure le sue buone opere, perché non procedono da quel principio per cui la nostra virtù è virtù». E qui parla di sé: «Io so di una persona a cui il Signore volle far vedere lo stato di un'anima in peccato mortale. Secondo questa persona sarebbe impossibile, comprendendolo bene, che alcuno potesse ancora peccare, anche se per sfuggirne le occasioni dovesse soffrire i maggiori tormenti immaginabili. Anime redente dal sangue di Gesù Cristo, aprite gli occhi ed abbiate pietà di voi stesse! Come è possibile che, persuase di questa verità, non procuriate di togliere la pece che copre il vostro cristallo? Se la morte vi sorprende in questo stato, quella luce non la godrete mai più. Gesù, che spettacolo vedere un'anima priva di quel lume! Come rimangono queste anime! Che turbamento si impossessa dei sensi che ne sono...» eccetera: e descrive l'anima in peccato.
Oh, ora un esame sopra le tentazioni o che procedono dal mondo o che procedono invece da Satana, “vigilate et orate”. Fin che siamo sulla terra, nessuno è sicuro. E occorre allora assicurarsi, pregando e cioè posti, continuando, perseverando nella preghiera otterremo al perseveranza, sì, otterremo la perseveranza.
Chi fa bene le nostre pratiche di pietà ha un'arma sicura per vincere. La tentazione allora viene un merito: “facit cum temptatione proventum”, ricava dei meriti dalla prova e “beatus vir qui cum probatus fuerit accipiet coronam vitae”.
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-12-20_ideale.mp3
durata 27'49''

Don Giacomo Alberione - Roma, 20-12-1961, ai sacerdoti ssp

L'ideale, sentirlo e realizzarlo con tenacia
Ideale paolino e Maggiorino Vigolungo


Questo ritiro mensile cade in un tempo in cui siamo più inclinati a riflettere, a pensare. L'ambiente di tempo e cioè vicini al santo Natale, nel quale noi aspettiamo tanti beni dal Signore: “dedit dona hominibus”, portò dal cielo i suoi doni, egli che si è incarnato Figlio di Dio “propter nos homines et propter nostram salutem”.
Poi la dolorosa circostanza, che ci invita a pensare la vita così repentinamente, improvvisamente, in modo tragico chiusa per il nostro fratello carissimo don Michelino. Il quale era amato da tutti, il quale aveva un grande affetto, un gran cuore per tutti, il quale costantemente ha lavorato per la congregazione, il quale aveva un ideale da raggiungere e tutto orientava verso di esso.

L'ideale è già stato l'argomento su cui abbiam fatto la meditazione sabato scorso e quindi quella meditazione fa già anche parte del ritiro attuale.
L'ideale. Sentire l'ideale e prima formarselo. Sentirlo e utilizzare tutto per realizzarlo. Realizzarlo con tenacia, ordinando tutte le nostre facoltà adesso per raggiungerlo. Uno fra i tanti che ho conosciuti, uno più tenace, per raggiungerlo: Vigolungo Maggiorino. E un'ideale che per lui splendeva dinanzi a sé chiarissimo, una volta che era giunto a quell'età e a quella grazia di comprenderlo.
Che cos'è l'ideale? cosa suona ideale?
Ideale è quello che si vagheggia come il sommo bene, prima cosa; poi: cui si tende con tutte le forze, si organizzano le forze in ordine ad esso, a raggiungerlo; e per cui tutto si sacrifica, perché c'è quel bene superiore agli altri beni e gli altri beni vengono messi in secondo piano, in seconda linea; per cui si vive con fiducia e costanza, in spirito lieto e sempre più teso, più teso verso.
Come il sommo bene. E allora quando uno si innamora di una cosa e pensa che in quella sta il suo bene, anzi il suo grande bene, allora vagheggia quello e vi aspira. San Francesco di Assisi: la povertà; e nella sua povertà ha attirato dietro di sé quante migliaia e centinaia di migliaia di persone! e come l'ha vissuta prima egli! San Francesco Saverio: in cerca di anime, attraverso i continenti, con sacrifici così inauditi, possiamo dire, sì: quell'ideale missionario.
Quando una persona vede che vi è una meta da raggiungere e la vuole veramente raggiungere, allora si sforza. Il giocatore: che sforzi! E per vincere i gladiatori sostenevano dei sacrifici, delle mortificazioni che non saprebbero <sost...> i nostri cristiani fare molte volte un piccolo sacrificio per vivere la vita cristiana, perché ne hanno poco l'ideale.
E così se consideriamo, come abbiam detto l'altro giorno, don Bosco, ecco. Quando si vuole riuscire. Santa Teresina, che idea ha? Ha immolato se stessa, spiritualmente e fisicamente: voleva raggiungere il suo fine. E il fine, l'ideale che si era proposto sta nel suo nome: sta nel nome che si è scelto. E quante volte il nome che si sceglie vuol dire il programma che si sceglie, per cui si ordina la vita sotto la protezione di un santo che già ha organizzato la sua vita in quell'ideale e si finisce coll'ispirarsi ad esso.
Vuole diventare un santo, “voglio farmi santo, presto santo, gran santo”.
Abbiamo nella storia tanti esempi di patrioti, che si sono immolati per raggiungere la grandezza della patria, anche considerando così superficialmente quelli che hanno fatto l'unità d'Italia. Vi sono tante favole attorno a queste persone, ma realmente vi sono stati degli sforzi, dei sacrifici.
Vuol diventare un letterato: “Volli, sempre volli, fortissimamente volli”.
Quando c'è un'idea cui tutto si sacrifica, tutto guarda sotto quell'aspetto, quello che gli serve, ecco, lo cerca, quello che non serve lo pospone, lo mette da parte.
L'ideale della santità.
Abbiamo noi da avere un duplice ideale, anzi, si può dire un triplice ideale. E primo ideale nostro: Cristo. È scritto: “Gesù Cristo ideale del monaco”. E anche meglio: in Cristo c'è il monaco e quindi il religioso e c'è in Gesù Cristo il Maestro, l'apostolo; in Gesù Cristo c'è il sacerdote eterno il quale glorifica Iddio mentre che soddisfa per gli uomini. Sì, un ideale completo in Cristo. Quindi va benissimo il titolo: “Cristo ideale del monaco”; ma Cristo ideale del sacerdote, dell'apostolo, del santo: in lui vi è tutto.
Vivere in Cristo. E in questo senso si è orientata la vita di san Paolo, tutta. Ideale quindi altissimo: vivere Cristo, “mihi vivere Christus est et mori lucrum”: la mia vita è in Cristo e morire un guadagno, cioè raggiungere Gesù Cristo, conquistare Gesù Cristo, entrare nella visione beatifica e nell'amore eterno, gaudioso. “Mihi vivere Christus est”.
Noi sentiamo un ideale così? Come viviamo? Siamo gente che va ancora in cerca a destra e a sinistra, di qualche cosa, che poi è tutta dissipazione di forze, tutta dissipazione di forze? Un concentramento di forze! Gente che battagliano un po' di qua, di là, danno un colpo a una parte un colpo dall'altra, ma non fanno mai un buco che valga. E allora ideale nostro: Gesù Cristo.
Secondo luogo: l'altro è l'ideale paolino. Quando uno è innamorato di Cristo, legge di Cristo, prega Gesù Cristo, sempre medita Gesù Cristo, – e lì c'è il massimo ideale che sta fra cielo e terra, come è colui che è il mediatore, – ecco, come si esalta! Che cosa diceva sant'Ignazio? Che cosa diceva san Francesco d'Assisi? Anime amanti, lungo i secoli, ce n'è una continuità, anime amanti, sì. E non mancano ai nostri tempi. Ci sono degli esempi di persone viventi.
L'ideale paolino. San Paolo, santo, apostolo, martire. Quando lo si considera come santo: ecco le sue virtù, la sua unione intima con Dio, con Gesù Cristo. Quando lo si considera come apostolo: sì, “Mi son fatto tutti a tutti” e corre attraverso al mondo, le nazioni, di città in città, mirando sempre alle città maggiori; perché quando vi è un ideale si tende a quello che è la maggiore conquista, sì. E poi martire: “Quis me separabit a charitate Christi?”. E se egli era disposto, in realtà ha fatto ogni specie di sacrificio.
Oh, ecco allora abbiamo da considerare questo: che quando uno ha un ideale, si sacrifica per questo ideale, tutto si orienta lì, e si vuole riuscire. E come studiava san Tommaso? con quale applicazione? E i dottori della Chiesa come studiavano? E i santi apostoli? e i santi missionari? Ecco un ideale. Se abbiamo detto l'ideale missionario attrae tanto, quali sacrifici si fanno per arrivare al fine del mondo! Diceva colui, ecco: “Tutto sacrificare, da tutto distaccarmi, vado in cerca di anime, conquistarne una, ecco, anche morire, questo è il mio ideale”. Tutti gli studi e tutta la pietà e tutto lo spirito e tutta la vita allora si orienta lì.
Avere un ideale. Gente senza ideale e gente con profondo ideale. E con l'ideale, supponiamo, del Cottolengo: la Provvidenza. Che cosa ha ottenuto? che cosa ha segnato nel mondo?
Che cosa, allora, significa ideale nostro? Eh, come in san Paolo: santità, apostolato, sacerdozio. Santità come san Paolo e apostolato come san Paolo e la vita sacerdotale che si mostra in tutto e cioè nell'insegnamento, nella guida delle anime, apostolato e, come san Paolo, nelle sue lettere apostoliche, sì, le quali non hanno ancor finito di far del bene e passano i secoli e si tramandano e son sempre luce per le anime e son sempre luce per i passi vari nei secoli, quando la Chiesa si orienta sempre meglio.
E il morir martire. Perché sta bene che venga detto san Paolo apostolo, sì, ma bisogna aggiungere che egli ha ancora il titolo di martire. E tutto ha sacrificato, a tutto si è assoggettato, a tutte le prove. E quando non aveva più forze, la vita, diede la sua vita, porse il capo piegandosi davanti al carnefice. Allora giovava più che in ogni altro tempo alle anime, perché la grazia che con questo otteneva alle anime era veramente grande.
Uomo senza ideale: com'è? Ce ne sono alle volte dei giovani che non stabiliscono un ideale, non hanno un punto da raggiungere. Uomo senza ideale spizzica un po' di qua un po' di là e non mangia; come uno che non ha appetito, va a tavola, mormora dei cibi, prende qualche cosa di... uno spizzico di qua uno spizzico di là e in realtà non mangia. Gente senza una volontà, gente senza un ideale, vuole ma non fa, non ha una meta determinata, fissa, da raggiungere ogni giorno, svegliandosi al mattino: “Oggi ho da fare questo”. Disperde le forze senza risultati e viene anche triste della sua vita: la mestizia, l'insoddisfazione. E quando sarà soddisfatto? Sarà soddisfatto quando sentirà di essersi formato un ideale e di innamorarsene e di tendervi con tutte le forze. Allora quell'ideale diviene un'idea-forza. Ideale vuol dire un'idea piantata bene in noi, idea forte. E allora quando si ha questo ideale, l'uomo vede tutto in quell'ideale, tutto quel che gli serve, quel che deve prendere e tutto quel che deve lasciare, vede tutto sotto quell'aspetto: “Mi giova? mi danneggia?”.
A un certo punto diviene anche passione, perché operando sempre in quella vista, in ordine a quell'ideale, si innamora, non solo prende gusto, soddisfazione, ma ancora una forza nuova, perché tutte le sue facoltà vengono raccolte e orientate verso quello.
L'ideale è come un fiume, il quale, magari è piccolo all'inizio, una sorgente soltanto; ma camminando, scorrendo, ecco riceve rigagnoli di qua e di là; poi quando è un po' più grande, anche degli affluenti; e poi diviene una grande massa d'acqua. La quale massa d'acqua è veramente una forza e se non è ben diretta, va anche a rovinare a destra e a sinistra; se invece è ben diretta, può essere quella forza utilizzata, utilizzata supponiamo per produrre energia, elettricità, sì; quando c'è questo ideale.
E poi si può paragonare anche a una valanga: da principio, sulla cima del Monviso, sarà una piccola cosa, ma quando comincia a precipitare travolge, tante cose travolge: sassi, alberi e rovina anche alle volte capanne e anche casette, eccetera, la valanga.
Allora abbiamo da esaminar bene: noi abbiamo veramente un ideale che sempre nutriamo, sempre alimentiamo con il pensiero, fissandoci lì, e con la volontà e tutte le ore, cercando di realizzarlo? noi sentiamo di avere questa idea che ci vagheggia, che ci attrae, che ci illumina, che ci trascina, a cui si pensa continuamente, a quale si volgono tutti i pensieri e gli sforzi?
Sì. L'ideale paolino è duplice: vivere in Cristo e vivere secondo san Paolo: come lo ha realizzato e come abbiam da realizzarlo noi.
Oh, ecco, ispirarsi bene a Vigolungo Maggiorino! Non molte persone ho trovato forti di volontà come lui. Idee grandi quanto potevano essere in un fanciullo illuminato da molta grazia di Dio e anche portato dalla natura, dalla sua intelligenza, dal suo carattere. “Progredire un tantino ogni giorno”, perché aveva già una certa illuminazione: posso raggiungere le tre specie di meriti: e cioè religioso, vita religiosa a San Paolo; posso raggiungere i meriti dell'apostolato, e lì: la stampa; e posso raggiungere i meriti della vita sacerdotale; posso raggiungere, cioè unire le tre specie di meriti, arricchirmi. Allora non c'è altro da guardare, non c'è altro da pensare, non si disperdono più le energie, questo si pensa, questo si sogna, di questo si parla, a questo si orientano i momenti, e anche se uno va di qua o di là, tutto poi finisce col vedere quel che serve all'ideale suo e mette da parte quel che non serve e quello che anzi ostacola l'ideale, il conseguimento dell'ideale da fare.
Sentiamo noi l'ideale? e lo sappiamo anche infondere, far vivere nelle anime?
E quando ha cominciato a sentire questo ideale, era sempre su se stesso: non parlava se non aveva riflettuto. E, ma si dice, un ragazzo non può! Eh, i ragazzi sono come sono. Ma una vigilanza continua sempre su se stesso e nello studio e nella preghiera e nell'apostolato e nella stessa ricreazione e nelle relazioni che teneva coi parenti e con i compagni, eccetera, quando c'è quello da fare.
E forse che quando uno parte da lontano per andare a comprare una macchina, pensa ad altro o non ne parla e non vi pensa tutto il tratto di strada che deve percorrere? e quando questi contadini partono dalla campagna, anche un po' da lontano, per andare al paese al mercato, non riflettono a quello, non pensano a quello? non hanno una meta a cui rivolgersi e alla quale già si son rivolti, anzi?
Abbiam qualcosa da fare sulla terra. Perché diceva don Trosso: “Il Signore ci ha mandato a fare qualcosa sulla terra e poi ci chiama, in paradiso, ci dà il premio, se abbiam fatto”.
Anime che non piacciono né a Dio né ai nemici suoi: vaganti, di molta fantasia, molti ricordi, tanti discorsi vuoti, un disorientamento...
Allora: ben determinato l'ideale e tutta la mente, tutto il cuore, tutte le forze, tutta la salute, tutti i tempi ordinare a quello. E se costa sacrifici, allora uno si orienta, non solo: ma ama il sacrificio e la difficoltà stessa porta un coraggio nuovo, perché c'è un ideale bello che risplende agli occhi, una meta che si vuole assolutamente conseguire.
Conclusioni: sentiamo l'ideale nostro? esercita una vera forza? ed è proprio quel che è detto nella definizione: quello che più si vagheggia? e si vagheggia come il gran bene nostro? e al quale si tende con tutte le forze? e a cui tutto si sacrifica? e per cui si vive con fiducia e costanza? ed essendo noi maestri e apostoli, sappiamo infonderlo un ideale? un ideale di uomini retti, di santi, di apostoli, di paolini, di sacerdoti? Allora c'è l'efficacia sui giovani. E anche quando si sbaglia, si vede che si opera ad un fine. E poi, se c'è qualche sbaglio, si rimedia e si continua con energia il cammino. Non tante cose, omnia in uno videt, come dice l'“Imitazione di Cristo”. Del resto questo non è solamente dell'“Imitazione di Cristo”.
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-12-20c.mp3

Roma, 20-12-1961

LA PROPAGANDA

Quest’oggi, venerdì, chiediamo al Divino Maestro la grazia di comprendere bene le sue parole “ut luceat omnibus, qui in domo sunt”, e cioè accendere la lucerna, non metterla sotto il moggio ma metterla in alto, affinché con la sua luce illumini tutta la casa e tutti coloro che abitano nella casa. Che vuol dire di accendere la lucerna con la redazione e si pone in alto, si prepara, si mette in alto perché possa mandare la luce in tutti gli angoli; e poi luceat: questa lampada accesa risplenda e non solamente mandi luce, ma mandi anche calore. Allora sono comprese la tecnica e la propaganda.
Mandare i libri in magazzino vuol dire mettere la lucerna sotto il moggio; si mette la lucerna sotto il moggio quando arrivate a stampare bene, brossurare bene, rilegare bene e poi si fanno i pacchi, 5-10 copie secondo i volumi, e poi si chiudono in magazzino. La lucerna sotto il moggio, allora, perché fino lì c’è tutta la preparazione necessaria nella redazione e nella tecnica. Ma il suo ufficio, l’ufficio cioè della lucerna, è poi di illuminare con costanza e cioè che il libro esca, che il periodico esca “ut luceat omnibus, qui in domo sunt”, non che schiarisca solamente uno, un mobile solamente illuminato; oppure che uno volendo leggere e mette una piccola lampadina, la quale riflette sopra il tavolo e magari, quando uno è ammalato, mandi la luce sopra il letto per leggere qualche cosa quando, pur essendo ammalato, può fare questo. Ma il Signore dice “Ut luceat omnibus” e chi è nella casa del Padre celeste, “omnibus” e cioè che arrivi a tutti la luce; quella luce che non è solamente luce “et lux erat” che cosa? La vita, cioè che porta alla grazia. Vuol dire la propaganda nel massimo lavoro, nella massima estensione, nel massimo apostolato.
Questa è poi la funzione fino a rifornire di olio la lampada, accendere la lampada, metterla in un posto elevato, ecco, fino lì. Ma poi “ut luceat omnibus”, sì, e quando la si mette in un posto elevato è sicura che arrivi questa luce al maggior numero di persone, abbiamo la propaganda. Intendere bene cosa vuol dire il Divino Maestro, questo lo raccomandava agli apostoli: “Nemo accendit lucernam, et ponit eam sub modio, sed super candelabrum, ut luceat omnibus, qui in domo sunt”.
La casa del Padre celeste è il mondo intiero fabbricata dal Figlio “Omnia per ipsum facta sunt”: tutto fu fatto, ciò che esiste, ciò che si vede, e anche quello che non arrivano a vedere i nostri occhi come sono tutti i sistemi stellari e non possiamo a occhio nudo, e neppure gli strumenti più perfetti sono già arrivati a vedere tutto quello che è il complesso dei mondi. Allora, intanto parliamo della terra, per ora, la terra casa di Dio, tutto di Dio, gli uomini son di Dio: “luceat omnibus, qui in domo sunt”.
Allora è buono quello che si è fatto come un cenacolo di preghiera per la propaganda. Questa terza parte dell’apostolato, che è poi vitale, perché la redazione è ordinata alla diffusione, e cioè a essere comunicato quello che uno scrive, e la tecnica ha l’ufficio di moltiplicare le copie, perché se uno scrive una lettera a una persona è indirizzata a una persona, ma con la tecnica si viene a moltiplicare le copie e quindi a rendere possibile a molte anime di essere illuminate.
Ma con la tecnica non finisce tutto, fino a lì è tutta fatica compiuta, preziosa, è tutto denaro speso, è tutto un impegno di cose e di persone, ma il frutto comincia quando? quando finalmente la luce arriva ad ogni uomo “super candelabrum, ut luceat omnibus, qui in domo sunt” esca dal magazzino, parta e illumini. Questo diceva Gesù agli apostoli e questo si applica non solamente come una figura, ma come una realtà, come un apostolato per noi a cui il Signore ha dato questo incarico di usare i mezzi migliori per moltiplicare le copie. Ma i mezzi migliori non sono solamente quelli che noi generalmente pensiamo e cioè le macchine, è la fotografia, è l’incisione e tutto quello che contribuisce a darci a metter fuori il periodico, il libro. Questo è necessario. Però la cosa principale è poi che arrivi a tutti perché se noi stampassimo anche 3 miliardi di catechismi, l’umanità non è più molto discosta dall’arrivare a 3 miliardi di uomini, 2 miliardi e 850 milioni e crescono gli uomini 43 milioni all’anno in media, e allora si arriva in tre o quattro anni, se le cose van normali, ai 3 miliardi. Oh, se noi facciamo 3 miliardi di catechismi, 3 miliardi di Vangeli, 3 miliardi di Bibbie, 3 miliardi di quello che il Papa dà all’umanità quando applica il Vangelo ai bisogni odierni per mezzo delle encicliche e per mezzo dei suoi discorsi, e poi le disposizioni che riguardano la morale e la liturgia, ecco, noi abbiamo già preparato la lucerna splendente per se e piena di vita e di calore questa lucerna, poiché la lucerna è Gesù Cristo stesso: “Ego sum lux mundi”, Io sono la luce del mondo. Voi diventate la luce del mondo in modo particolare quando arrivate alla propaganda; ecco il discepolo che sta là sul candelabro: “ut luceat omnibus, qui in domo sunt”. Siete luce del mondo.
Non c’è da fare adesso il paragone quale sia la parte principale dell’apostolato. Noi abbiamo da dire che vi è un certo difetto, ed è questo: perché sia perfetto l’uomo di Dio, perché sia perfetto il paolino che cosa deve chiedere: è la relazione, è la buona tecnica è la buona diffusione: “Ut sit perfectus homo Dei” perché sia perfetto il paolino. E veramente paolino, uomo di Dio, siete voi professi dati a Dio, siamo proprietà di Dio: “Homo Dei”. Che nobiltà. Siamo come i servi di Dio, sì perché è il signor nostro Gesù Cristo “unicum dominum nostrum”. Allora noi pensiamo a questo: compìre l’apostolato nella parte più essenziale e più essenziale quanto ad arrivare agli uomini, sì.
Se il Vangelo arrivasse a tutti… ora i mezzi tecnici sorpassano i confini con la disposizione e secondo è la loro natura; il libro può oltrepassare i confini e di una nazione e dell’altra e raggiungere gli estremi confini del mondo. Sì! allora propaganda. Sì! fare questa specie di unione per la diffusione, per la propaganda cristiana. Primo per conoscerne il valore, perché noi dobbiamo ricorrere a persone estranee? il Signore non ci ha dato un istituto completo in se stesso e cioè completo? Prima la santità religiosa e poi l’apostolato coi mezzi odierni più larghi e più efficaci, più capaci di portar la luce. Il Signore l’istituto l’ha fatto completo, sì! Questo impegno di progredire nella tecnica è stato un progresso ottimo, ed è un progresso ottimo la redazione, la quale va sempre più verso una perfezione, perfezione per quanto si può avere nelle cose umane, si capisce, però viene un poco ad essere messo da parte alle volte o meglio è un po’ affievolito il fervore della propaganda, ed è proprio lì che invece bisogna arrivare, è proprio lì. Perché per un certo senso noi potremmo anche, e l’avete fatto, far stampare qualche cosa dagli operai esterni, ma la propaganda fatta da esterni non ha mai il valore, non ha mai la vitalità che può avere il religioso. Il religioso ha inteso che quello è predicazione della Verità che salva, primo. Il propagandista deve avere un grande concetto della propaganda. Bisogna che tutti riconoscano la dignità e la sapienza del propagandista, la dignità di chi sta al centro della diffusione o sia da casa o sia dalla libreria o sia propaganda capillare o sia propaganda collettiva o sia propaganda razionale a cui è da arrivarsi adesso, questo punto è meno ancora compreso; quindi pregare per capire la dignità, la delicatezza, l’importanza di questo ufficio propaganda, di questo ministero del propagandista. E allora egli col cuore puro, con le mani sante “de corde et de manibus” santi può compiere il suo ufficio. Inoltre il propagandista, per la parte intellettuale, bisogna che conosca ciò che ha da dare, che conosca il libro, che conosca il periodico se no che cosa darà, potrà dare ad un vecchio il libro che va bene al bambino di 8-10 anni o viceversa , eh, ma dò un libro purché abbia i soldi; purché debba fare del bene alle anime, invece, adattarlo. Ora conoscere tutto quanto è di libri e supponiamo nella Pia Società San Paolo, dico supponiamo in Italia, 3600-3700 titoli: quanto c’è da conoscere ciò abbiamo. Il farmacista non può mica dare una qualsiasi medicina, una medicina che serva per tutti, bisogna che dia la medicina che prescrive il medico, la medicina che ha dato l’infermo, se no potrebbe portargli anche la morte, pur essendo una medicina che mentre giova per una cosa danneggia l’altra. Conoscenza!
Secondo, amore, un grande amore alle anime, diversamente lo zelo muore lì e si riducono a fare i librai e come vi sono pericoli che il discepolo divenga operaio. Quando manca quest’amore a Dio e questo amore alle anime allora si diviene che cosa, si diviene operai e se il complesso dell’istituto fosse così allora diviene un’industria e, quanto alla propaganda, diviene l’ufficio di un libraio o di un venditore; e allora la rivista che è intitolata “vendere” può insegnare a noi, può insegnare qualche cosa ma lo spirito no, lo spirito no. È un servizio di anime la propaganda, un servizio di anime.
Poi, in terzo luogo, ci vuole l’attività. Dietro al banco ci stava il libraio, stava leggendo un romanzo; entra uno, finisce di leggere il periodo e poi si alza: cosa vuole? Fa gelare nel cuore e nell’animo quel pensiero, quel desiderio che aveva di cercare il libro, magari proprio il libro che serve nella sua crisi spirituale, quel giovanotto mentre che pensa di essere aiutato, esce deluso e potrà anche prendere qualsiasi libro, potrà anche prendere un altro libro che magari spinga ancora la sua crisi più avanti e allora a stento si dà il libro ma tanto e allora basta. L’altro fa un’obiezione, se lo vuoi è così. Allora vedete come c’è freddezza e lascia il freddo nelle anime. Quando invece c’è calore allora si è inventivi, allora si è veramente al servizio delle anime, allora si passa da mezzo a mezzo, cioè da un modo di fare la diffusione all’altro mezzo.
Oh, ora non c’è il tempo a diffondersi, ma volevo accennare a questo: propaganda capillare di famiglia in famiglia o da individuo a individuo. Secondo: propaganda collettiva è la propaganda alle comunità ad esempio dove c’è una collezione o dove c’è un complesso di persone. Propaganda razionale la quale è appunto quella ricordata: conoscere quel che si ha, conoscere a chi si dà, conoscere il modo di darla. Tre punti, allora diviene razionale. Se ci fosse una persona abbastanza libera, un religioso abbastanza libero, vorrei che si facesse tutto l’elenco delle parrocchie d’Italia e vedere di arrivare un po’ a tutte, vedere dove non abbiamo ancora messo piede, diciamo così. Quelle che già hanno una vocazione, quelle parrocchie che già hanno una vocazione, quelle parrocchie che hanno dei cooperatori, quelle parrocchie dove arriva il periodico, quelle parrocchie dove si sta lavorando nella biblioteca, eccetera, e dove manca e allora studiare il modo di arrivare. Questo apparterrebbe veramente e fornirebbe la base per una propaganda razionale.
Un’Ave Maria alla Regina degli Apostoli, perché ci illumini e ci dia un cuore apostolico. Ave Maria…
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-11-18_regina_ap.mp3
durata 24' 17''

Don Giacomo Alberione - Roma, 18-11-1961, ai sacerdoti ssp

Commento alla coroncina della Regina degli Apostoli


Vi sono gli articoli delle costituzioni, ma gli articoli delle costituzioni sono per sé freddi e servono ad orientare la volontà. Ma per la formazione del sentimento, del cuore, si è unito alle costituzioni il libro delle orazioni. Nelle introduzioni alle varie pratiche, nelle coroncine e in sostanza in tutto il complesso delle preghiere si è immesso quello che l'aspirante deve chiedere al Signore e come orientare la sua vita e prendere lo spirito paolino. Questo per l'aspirante, ma perché il nostro progresso sia continuo, ecco, allora sì ricordare le costituzioni e seguirle, ma anche accompagnare con la preghiera quello che noi non avremmo sempre la forza da compiere, per compierle le cose.
E allora parlando solo oggi come sabato, riflettiamo sopra la coroncina alla Regina degli Apostoli. Essa è divisa in cinque punti e corrisponde ai misteri del rosario che di più, più facilmente ci portano a ricordare le ragioni per cui Maria ha questo titolo Regina Apostolorum; e serve nello stesso tempo a domandare per noi la grazia di vivere la vocazione paolina e di costantemente seguirla in continuato progresso.

Il primo punto. Le parole che servono per orientamento sono: «Io venero e lodo quel privilegio unico al mondo per cui piacendo al Signore nella vostra umiltà, conservando la più illibata verginità, diveniste la grande Madre del divin Salvatore, nostro Maestro, luce vera del mondo, sapienza increata e fonte di ogni verità e primo apostolo della verità». E cioè onoriamo Maria nel primo mistero gaudioso, quando riceve il messaggio angelico e quando ella, avendo avuto assicurazione che il suo privilegio e il suo impegno della verginità sarebbe stato conservato, allora acconsente: “Fiat mihi secundum verbum tuum”. Ecco il Figlio di Dio che viene sulla terra: “Ad hoc veni in mundum ut testimonium perhibeam veritati”, “per questo sono nato, per questo son venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità“” e cioè predicare la verità.
Gli uomini erano brancicanti nelle tenebre: in quanti errori <si trova> una parte, la massima parte degli uomini è così disorientata! Allora è venuto colui che è la verità e colui che doveva dare la verità e che è venuto nel mondo appositamente per predicare la verità: non una verità qualunque, ma quello che riguarda il grande problema della vita eterna, e cioè la salvezza, quindi le verità che noi abbiamo dal santo vangelo e che la Chiesa poi presenta a noi.
Quindi domandiamo al Signore questa grazia per intercessione di Maria: che cioè noi penetriamo sempre meglio quello che abbiamo imparato da bambini e quello che poi abbiamo imparato più tardi per mezzo degli studi successivi fino ad oggi. E allora che crediamo sempre meglio, che accogliamo sempre più devotamente, filialmente quello che la Chiesa insegna, perché è colonna di verità. Aumento di fede: ecco ciò che si ha da chiedere in questo primo punto.

Secondo punto. È da considerarsi quelle parole che sono più significative; diciamo a Maria: “Ricordate il doloroso e solenne istante in cui il moribondo vostro Gesù dalla croce vi donò per figliuolo Giovanni e in lui tutti gli uomini, specialmente, tutti gli apostoli”. Maria allora divenne la Madre universale. Già questo era competo per il mistero dell'incarnazione, ma ora viene proclamato, e cioè quando Gesù dalla croce disse a Giovanni: “Giovanni, ecco tua madre” e a Maria: “Donna, ecco il tuo figliuolo”.
Gesù diede all'umanità una Madre, una Madre che compie nella famiglia umana ciò che la madre terrena compie in una famiglia, quando si tratta di una buona madre, quando si tratta di numero notevole di figliuoli o anche quando ce n'è uno solo. Ecco “la grande Madre”: perciò in qualche luogo è stato eretto il tempio “La gran Madre”, la Madre di Dio. Oh, sì, la gran Madre, la Madre di tutti e Madre dello stesso Gesù Cristo, Dio vero e vero, sì.
Allora questa vergine benedetta, che aveva consacrato la sua verginità, ottiene una maternità immensamente più estesa, sì. Come noi siamo figli di Dio per la grazia, così siamo fatti figli di Maria; questa Madre che ha cura particolarmente degli umili, particolarmente di quelli che si trovano in maggiori necessità, ecco. Allora noi chiediamo a Maria questa grazia: di considerarci suoi figliuoli e vivere da veri suoi figliuoli sull'esempio del figliuolo che ebbe fino allora cioè di Gesù: essere buoni figliuoli sull'esempio del buon figliuolo Gesù. “Fili, quid fecisti nobis sic?”: “Figliuolo” lo chiamò Maria.

Terzo punto: Le parole orientative sono: “Rallegratevi per i giorni in cui sedeste Maestra conforto e Madre degli apostoli nel cenacolo per invocare ed accogliere il divin Paraclito, lo Spirito coi sette doni, Amore del Padre e del Figlio e rinnovatore degli apostoli”. Maria compie il suo ufficio di Regina e Madre e Maestra degli apostoli nel cenacolo. Fu allora in un atto, il più solenne. Allora per la sua intercessione nasce la Chiesa, corpo dei seguaci di Gesù: aveva bisogno finalmente di sentire un'anima e che ci fosse tale unità di fede e di spirito da camminare nelle vie tracciate dal maestro Gesù nella sua predicazione, sì.
Sempre invocare Maria perché intervenga e non solamente nel giorno dell'ordinazione chieda lo Spirito Santo e i doni, i poteri, le grazie dello Spirito Santo, ma che questa opera venga ripetuta ogni settimana, ogni giorno, che ogni giorni si rinnovi la Pentecoste sopra di noi.
E affidare a questa Madre i piccolini. E domandare specialmente al sabato che Maria ottenga loro lo spirito della vocazione, la corrispondenza alla vocazione, in quanto l'hanno. Il sabato dev'essere come una festa di tutti gli aspiranti in questo senso, ma non degli aspiranti soltanto.
Ma Gesù dopo aver preparato i suoi aspiranti per formarli completamente, Gesù dal cielo mandò lo Spirito Santo e là Maria fu ornata dei doni dello Spirito Santo più di tutti. Ma tutti poi gli apostoli e i discepoli presenti ebbero i doni, le grazie secondo il volere di Dio, le grazie dallo Spirito Santo, ognuno secondo il bisogno che aveva. Così noi chiediamo questa rinnovazione di Pentecoste ogni sabato, oggi, ecco. Eh, sì, camminiamo in testa ai nostri, così spiritualmente, s'intende. E mentre che noi invochiamo per mezzo di Maria i doni dello Spirito Santo, li chiediamo per ognuno di quelli che il Signore ha chiamati, di quelli che nei disegni di Dio son destinati al sacerdozio, all'apostolato, alla vita religiosa.

Quarto. Il pensiero direttivo è espresso in queste parole: “Io penso al momento fortunato per voi in cui lasciaste la terra per volare tra le braccia benedette di Gesù. Fu la predilezione onnipotente di Dio che bella e immortale vi assunse al cielo”. Maria, terminato il suo pellegrinaggio terreno, è assunta in anima e corpo al cielo, ecco, con privilegio straordinario eccezionale. Gesù era risorto ed era salito alla destra del Padre; Maria pura creatura, ecco, ha preceduto i suoi figli lassù, risuscitata bella, gloriosa nel suo corpo. E le sue glorie del corpo, rispondono alla bellezza, ai privilegi, alla santità della sua anima. Poiché nella risurrezione si hanno i riflessi della santità di ogni anima, i riflessi nel corpo, i riflessi sul corpo, e quindi chi sa conservare il suo cuore, il suo corpo santamente, avrà una forma e anzi un'abbondanza di quei riflessi di santità che provengono dall'anima. E allora noi pensiamo alla gloria che avranno gli apostoli, i quali “in omnem terram exivit sonus eorum”, hanno ricevuto lo Spirito Santo “et coeperunt loqui”, cominciarono il loro apostolato subito, tanto che fu una meraviglia grande tra il popolo che si era radunato, una meraviglia grande a sentire quello che gli apostoli già cominciavano a predicare, e poi a sentirli ciascheduno nella sua lingua nativa.
Oh, allora chiediamo lo spirito apostolico e la grazia di compiere il nostro apostolato santamente, più abbondantemente che si può; amare anche lo studio delle lingue, perché con l'aiuto della grazia anche nello studio delle lingue per l'intercessione di Maria Regina degli apostoli, di Maria Sede della sapienza, noi possiamo avere più cognizioni. Ed è certo che più si sanno le cose, più si conoscono lingue e più largamente si può compiere l'apostolato. Sempre lo domandiamo questo per coloro che partono e che vanno in nazioni di lingua diversa; e non basta. A Elisabethville è uscito il vangelo in quattro lingue, cioè una lingua comune e poi i dialetti principali in sostanza, affine di arrivare a un maggior numero di gente e a portare a un maggior numero di persone la luce che Gesù Cristo ha portato dal cielo.

Il quinto punto [ha] come parole orientative: “Quanto fu grande e quanto dolce il giorno in cui l'augusta Trinità vi incoronò Regina del cielo e della terra, dispensiera di tutte le grazie, Madre nostra amabilissima. Quale trionfo per voi”. Maria è incoronata quindi Regina. Il titolo di Regina vien ripetuto in tante maniere nella Chiesa: alcune invocazioni sono raccolte nelle litanie: Regina angelorum, Regina patriarcarum, Regina profetarum, Regina apostolorum, Regina martyrum, confessorum, virginum, sanctorum omnium.
Ecco è incoronata Regina; e sappiamo che cosa significhi parlando delle cose spirituali, sì. Ora non solamente ella è posta in alto, sopra tutte le creature, pure creature, sebbene inferiore infinitamente a Dio. Ecco ella ha quest'ufficio di mediazione: la mediatrice. E come abbiamo un solo mediatore essenziale presso il Padre, che è Gesù Cristo, così abbiamo una mediatrice in dipendenza ed in unione col Figlio: Maria.
Allora ecco la nostra fiducia in Maria, sì. Fiducia l'abbiano tutti gli uomini, ma tutti gli uomini acquistino quelle grazie che son proporzionate al loro stato e allo stato nostro e a coloro che son destinati all'apostolato: le grazie di santità, sì, ma anche lo spirito di apostolato.
Che il cuore dell'apostolo si dilati! Che noi teniamo sempre presente tutte le nazioni! Quanto è utile pensare a tutti i continenti e alle varie parti in cui ogni continente si divide e pensare poi particolarmente a coloro a cui possiamo arrivare più direttamente o a cui siamo arrivati!
Sì, perché Gesù fu la luce e gli uomini rimasero in gran parte nelle tenebre. “Ego sum lux mundi”. Ma ci fosse anche un sole splendido e pieno di luce, quindi, e di calore, se uno si chiude, è al buio. Ma intanto quelli che hanno ricevuto il messaggio, divennero i figli di Dio.
Allora bisogna che la grazia penetri le anime, penetri i cuori. Non basta che la parola suoni all'orecchio e non basta che ci sia una buona spiegazione con tutti i ragionamenti e tutta la dialettica che noi abbiamo imparato più o meno: ci vuole la fede. Ma questo della fede è dono di Dio, è dono di Dio. Quindi sempre abbiamo da pregare per aver questo dono e che venga in noi accresciuto e sempre pregare che si accresca nei nostri, dai ragazzini fino ai più anziani; che si accresca la fede in tutti i lettori, perché non imparino soltanto quello che viene insegnato, ma che lo sentano nel cuore, aderiscano con lo spirito, conformino la vita <la loro> alla vita vera, la vita che ha portato Gesù. Oh, nota il vangelo di san Giovanni che anche molti dei farisei, e cioè delle persone più istruite, avevano creduto in Gesù, ma non osavano manifestarsi. Che non solo comprendano che la dottrina della Chiesa è vera, ma che osino professarla coraggiosamente, senza alcun rispetto umano.
Oh, possiamo quindi dire i misteri che si riflettono e che spiegano il titolo “Regina apostolorum” e possiamo far recitare la coroncina alla Regina degli apostoli. Così quello che viene inculcato nelle costituzioni divenga vita, divenga spirito.
Perciò invochiamo la Regina degli apostoli che ci ottenga quella infusione di grazia e di luce che il Signore, lo Spirito Santo portò agli apostoli dopo quella grande novena in cui Maria diresse il collegio apostolico come Madre, non come autorità gerarchica, ma come Madre. E noi vogliamo essere i buoni figli di questa Madre e valerci sempre della sua intercessione, della sua mediazione universale.
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione dei file: 1961-12-20d.mp3
durata 31' 57''

Don Giacomo Alberione -
[registrazione con parecchi punti guasti]

Maggiorino Vigolungo


Vediamo come Vigolungo Maggiorino è andato formandosi un ideale e poi in secondo luogo come tendeva con tutte le forze a raggiungerlo.
Nacque il 6 maggio 1904 a Benevello da Vigolungo Francesco e Caldellara Secondina. Erano veramente genitori modesti, ma virtuosi. Il padre particolarmente nel paese rappresenta una parte di equilibrio, anche in comune. E un po' in tutte le questioni che possono esserci, le questioncine in un paese di cinquecento abitanti, veniva consultato: nelle divisioni, per esempio, di eredità. E era l'uomo di fiducia del parroco.
Com'era il suo carattere? Un ingegno distinto, per cui comprendeva con facilità cose che sembravano anche superiori all'età; e poi una voglia prepotente di far le cose un po' alte, quindi di imparar bene, di approfondire, e poi tentare quello che era, tante volte, superiore all'età. [Attitudini] naturali: vivacità, apertura di intelligenza e soprattutto volitivo. E qualche volta muoveva un poco gli altri alle risa, vedendo quello che pretendeva di fare, che non era conforme alla sua età; ma erano dimostrazioni così, spunti di quel carattere risoluto.
Oh, ora come fu la sua fanciullezza? In casa era docile, buono, esemplare dei fratelli, ma delle scappatelle qualche volta ne ha fatte: mancanze dell'età; ma [era] sempre subito pronto a domandar perdono alla mamma e prometter di non farne più. Queste cose le riferiva la sorella suora, sì, anche allora, dopo la sua morte, poco tempo dopo; e le riferisce ancora adesso, confermandole.
Più tardi in chiesa. In chiesa si distingueva per tre cose: primo: l'attenzione al catechismo, non mancava mai; secondo: quando riceveva la comunione, con che devozione si preparava alla confessione! Amava il canto: col parroco, – che era anche maestro elementare, aveva fatto scuola alcuni anni, era bravo nel prendere i fanciulli e bravo nel canto, nelle cerimonie – il ragazzo imparava attentamente. Ed era sempre pronto per servire la messa.
A scuola. Frequentò la scuola: a circa sei anni e pochi mesi incominciò ad andare a scuola. Vi erano in quel paese insegnanti molto buoni, molto buoni, i quali accompagnavano il parroco nel suo [...] e con saggezza e curandosi di preparare una gioventù buona, cristiana. Era sempre dei primi. La sua maestra, Pusineri Pierina, di Ottobiano (Pavia), era soddisfatta tanto [...] lasciato scritto.
Poi è ammesso alla comunione e successivamente la cresima nel 1913.
<Mi ricordo che l'ho veduto> Ricordo d'aver veduto più volte la mamma sua durante una malattia che l'incolse quando Maggiorino contava circa sei anni. La serviva con affetto e tenerezza, rinunciando anche ai suoi soliti trastulli. Era commovente vedere quel bambino per solito allegro e vivace diventato d'un tratto serio e pensieroso, portar le medicine, confortar la mamma, mostrarsi tutto pieno di premure, interessarsi anche dell'andamento della malattia. E ricordo come, trovandomi in quella parrocchia, è venuto a chiamarmi perché andassi a amministrare i sacramenti alla mamma, con la risolutezza che non si trova così facilmente in un bambino: “Venga subito e venga con la stola!”. Oh!
Quando poi, un po' più grandetto, tornava dalle prediche, le ripeteva, anche montando sulla sedia, ai fratellini e alle sorelline. [Era] particolarmente affezionato alle funzioni e diligentissimo lì, nello studio del catechismo.
Oh, lo incontrai perché il parroco me lo aveva indicato. E qualche volta ho dovuto anche richiamarlo in qualche cosa. Ma quando gli ho domandato che cosa voleva fare nella sua vita, rimase tanto pensieroso e [dissi]: “Vorrai lavorare i campi? o studiare?”, mettendogli davanti varie strade. E non si decideva ancora per nessuna così risolutamente. Allora [gli dissi]: “Recita tre ’Ave Maria’ finché la Madonna ti illuminerà, poi dirai qualche cosa”.
Oh, in quel tempo venne aperto la nostra “Scuola tipografica” che poi con la sua evoluzione, con la sua evoluzione arrivò ad essere la Pia Società san Paolo. Si chiamava la “Scuola tipografica” perché avevamo tutti i tipografi della piccola città contrari e protestavano in comune e col vescovo allora si è detto: “Eh, noi non facciamo concorrenza agli operai, noi istruiamo solamente dei fanciulli e prepariamo alla vita”. Oh!
I genitori hanno fatto difficoltà, una difficoltà moderata, perché erano molto generosi, anche, e buoni cristiani; pensando che in quel tempo mancava anche l'aiuto superiore, il fratello che era militare, e la famiglia non si trovava in condizioni agiate.
Venne a san Paolo. I primi giorni tutti trovano una qualche difficoltà nell'adattarsi in generale. Però il suo adattamento fu abbastanza pronto. E tutti lo videro subito allegro, applicarsi con energia, studiare con la miglior volontà. E fu messo fra i giovani che erano insieme a studiare e attendere anche all'apostolato.
Oh, tuttavia andò soggetto a delle prove interne: il timore del peccato. Temeva che, stando soltanto dietro alla macchina a aggiustare i fogli, – perché allora le macchine non erano mica quelle che avete adesso, bisognava far tutto con le mani, – quindi: “Un lavoro noioso e allora vengono tanti pensieri: ho paura di far peccato!”. Ecco: timore del peccato. Ma egli confondeva un pensiero col peccato.
Una sera dopo la cena e poi specialmente dopo le orazioni, si sono spiegate le tre serie di meriti che si possono acquistare, di cui ho parlato già poco fa: i meriti della vita religiosa, i meriti della vita sacerdotale e i meriti dell'apostolato. Allora fu tutto entusiasmato e quella sera voleva subito far sentire le sue risoluzioni; ma [gli dissi]: “Va' a riposare e poi domani parliamo”. Ma poi la sua decisione fu presa e presa con una certa energia.
Tuttavia, vedendo anche le difficoltà che vi erano, mancavano anche alle volte piccole cose, insufficienze per lo studio, per l'apostolato: Ma credo che per l'apostolato in sei mesi ha imparato proprio tanto. Era addetto alle macchine di stampa. Oh, l'impegno che vi metteva! costantemente l'impegno che vi metteva in tutto!
L'ardore con cui seguiva il suo ideale era così intenso che qualche volta gli impediva di comprendere e giudicar le cose con serenità e di prenderle per il loro giusto verso; a questo si devono attribuire i suoi errori nei lavori di scuola, l'insistere che faceva qualche volta anche in ricreazione nelle sue vedute e il non veder più che le sue idee nelle varie cose. E quante volte si è dovuto raccomandargli la serenità, la calma; ed egli ne fece di questo oggetto dell'esame di coscienza per circa quattro mesi.
La pietà dobbiamo considerare, oh. Per riuscire a pregare meglio, egli soleva ritirarsi negli angoli più nascosti. Andava sempre a prendere il posto nei luoghi più tranquilli e anche, sì, appartati. Una volta il suo parroco andò a cercarlo in chiesa, in san Damiano, dove stava facendo la visita al santissimo sacramento: non gli riuscì di trovarlo; ma poi si seppe che si era messo in un cantuccio del coro a pregare.
Da principio soleva pronunciar le parole adagio con calore e con tale sforzo e così distintamente da muovere anche il capo, lasciar trasparire [...] i sentimenti dell'animo. Alcuni compagni se ne erano lagnati, perché disturbati. “Ma se non faccio così, non posso seguire con la mente le preghiere che dico!”. E gli fu insegnato a pregare anche mentalmente.
Persuaso di non esser degno si stare alla divina presenza, teneva lievemente il capo inchinato, compreso di rispetto per la divina maestà, le sue mani stavano devotamente congiunte sul petto; qualche volta le disponeva anche in forma di croce, specialmente dopo la comunione. Era difficile che si lasciasse distrarre, così all'esterno; certo, le distrazioni sono un po' la nostra sorte comune, ma per quanto era possibile [le evitava].
Oltre le pratiche comuni di pietà, egli ne aveva pochissime di speciali, applicandosi tutto a far bene ciò che gli altri facevano. Qualche volta al mattino si faceva la meditazione predicata e molte volte non predicata, perché mancava... mancavo io in sostanza, che dovevo ancora continuare l'ufficio di direttore spirituale in seminario. Allora faceva la meditazione da sé. E aveva scelto sempre l’“Apparecchio alla morte”, i libri di sant'Alfonso, “La pratica di amar Gesù Cristo”.
Oh, un punto che era un suo maggior impegno: l'esame di coscienza. Dopo la sua morte gli fu trovato indosso il libretto in cui annotava <le sue> con segni le sue mancanze o la osservanza dei propositi.
Al principio della sua vita pia, egli avrebbe voluto confessarsi ogni due giorni: “Se non faccio così, come mi libererò da tanti difetti?”. Ma questo gli fu sconsigliato. E disse una sera: “Se mi confesso così spesso, ne resto più vergognato e me ne correggo più presto”.
Quando poi si confessava, il suo esame era piuttosto eccessivo che difettoso, sì, tendendo a un certo momento, perché manca ancor l'istruzione, non a veri scrupoli, ma ignoranza di tante cose. Perché bisogna dire che egli si è sviluppato più presto: era precoce, sia nell'intelligenza e sia nel problema della pubertà, come doveva già lottare. Anche la sorella suora lo ha scritto che se n'era accorta pure ella medesima. E quindi in quel tempo da una parte la coscienza tanto delicata e dall'altra parte le battaglie del cuore, del sentimento e perciò la lotta continuata e il lavoro spirituale preso davvero sul serio.
Oh, nella “Scuola tipografica” vi era questa pratica: che almeno ogni mezz'ora ad alta voce si ripetessero giaculatorie varie, come ad esempio il “Dio sia benedetto” ed altre invocazioni. Maggiorino le ripeteva con particolare espressione di amore. Inoltre egli se n'era fatto un elenco, l'aveva studiato a memoria e spessissimo le ripeteva, or l'una or l'altra. Ci sono ancora buoni testimoni di questo: don Tito, che era anche l'assistente, don Marcellino, don Costa, Audasso che non è a “San Paolo” più, e poi don Ambrosio Domenico e altri. E non mancano le testimonianze e se ne sono trovate di più di quello che si pensava che ancora fossero viventi.
Principali giaculatorie che leggiamo nel suo quaderno:
– Mio Dio, vi amo più di ogni altra cosa, più della vita mia, più di me stesso, ma pur vedo che vi amo troppo poco. Lascio tutto e mi converto a voi, io vi abbraccio e vi stringo, non mi sdegnate, immenso Bene; vi amo!
Bisogna dire che molte giaculatorie le aveva prese qua e là dai libri.
– O Dio, o Dio, e chi voglio amare se non amo voi, mia vita, mio amore, mio tutto?
– O bontà infinita, o giustizia infinita! Oh, pazzo è colui che non vi ama!
– Gesù mio, tu solo mi basti. E chi voglio amare se non te, Gesù?
– Mio Dio, voi solo io voglio e niente più.
– Viva Gesù, nostro amore.
– Sia lodato e ringraziato ogni momento il Santissimo e divinissimo Sacramento.
– O mio Gesù, io mi voglio far santo, aiutatemi.
– San Paolo Apostolo, nostro protettore, pregate per noi e per l'apostolato della stampa – si diceva allora.
Poi una giaculatoria a san Giuseppe:
– O San Giuseppe, padre putativo di Gesù Cristo e vero sposo di Maria Vergine, pregate per noi e per gli agonizzanti di questo giorno (di questa notte).
Molto spesso:
– Sacro Cuore di Gesù, confido in voi!
– Sacro Cuore di Maria, siate la salvezza mia.
– O Gesù d'amore acceso, non vi avessi mai offeso; o mio caro e buon Gesù, non vi voglio offender più.
– Signore Gesù, coprite colla vostra protezione il nostro Santo Padre, il Papa, – la giaculatoria che si è conservata nella congregazione.
Poi le tre giaculatorie:
– Gesù, Giuseppe, Maria, vi dono il cuore e l'anima mia. Gesù Giuseppe, Maria, assistetemi nell'ultima mia agonia. Gesù, Giuseppe, Maria, spiri in pace con voi l'anima mia.
Quattro invocazioni:
– Mater castissima
– Virgo fidelis
– Mater Boni Consilii
– Sancte Paule Apostole.

Aveva circa sette anni e stava, un giorno dopo la scuola, divertendosi coi compagni lì sul piazzaletto della chiesa. Passa una suora – perché in quel paese Benevello vi è la casa di villeggiatura delle Suore del Suffragio, casa acquistata, era un castello prima, dall'abate Faà di Bruno oh, – passa la suora, sta un po' coi ragazzi e vede che quel figliuoletto giocava con tanto impegno, lo chiama: “Tu che cosa farai?”. ”Io quando sarò grande mi faccio santo”, ecco la risposta.
Trascrivo qui alcune massime di Maggiorino. Le ricavava per lo più dai libri di meditazione o dalle letture oppure da quello che imparava a viva voce dal maestro Giaccardo o da chi teneva le meditazioni o dall'assistente.
– Primo: Ciò che non serve per la vita eterna, è vanità.
– Secondo: Il mondo passa, ma il bene ed il male non passano, resteranno in eterno.
– Nei casi ardui bisogna consultarsi fiduciosamente con Dio, ascoltare le sue ispirazioni ed attenervisi. – Questa è la massima di Silvio Pellico e l'aveva copiata nel libro “I doveri degli uomini”.
– Quarto: A far bene, diciamo sempre: “C'è tempo!”. Ma se si trattasse di guadagnare denari, lo faremmo subito.
– Il conversare con gli uomini degradati degrada – anche questo è del Pellico.
– Chi si umilia senza bassi fini non si degrada, qualunque ingiusto spregio gli venisse.
– Chi crede al rispetto umano è un vile.
– Chi bestemmia parla la lingua del demonio.
– Chi vuole si fa santo.
– Leggendo le vite dei santi diciamo con sant'Agostino: “Se costoro si fecero santi, perché non mi farò anch'io?”.
– Ricordati, o cristiano, che tu sei uomo di eternità.
– Beata e sommamente beata l'anima giusta che regnerà eternamente con Dio nel soggiorno del paradiso.
– Infelice, sommamente infelice il peccatore impenitente che brucerà eternamente coi demoni nelle fiamme dell'inferno.
– Il cristiano deve pregare come pregò Gesù Cristo nell'orto del Getsemani con raccoglimento e con umiltà e fiducia.
– Ricordiamo che abbiamo un'anima sola: se la perdiamo, per noi è tutto perduto.
– Un sostegno grande per noi, un'arma potente contro le insidie del demonio lo troveremo sempre nella devozione a Maria.
– Diciamo: Io sono pieno di infermità spirituali e non oso comunicarmi sovente. Risponde Gesù Cristo: Non hanno bisogno del medico i sani, ma gli ammalati.
– Recitiamo con devozione speciale l’“Angelo di Dio”.
– Il divin Maestro ci insegna e ai suoi devoti concede umiltà, obbedienza, carità.
– Chi disprezza le piccole cose, poco a poco andrà in rovina.
– La morte ma non peccati.
– È la volontà di Dio che ci facciamo tutti santi. Sì, è volontà di Dio che diventiamo tutti perfetti.
– O inferno, come sei terribile. Infelice colui che vi cade.
– Il peccato mortale che cos'è? È un brigante che col suo coltello uccide le povere anime. Eppure tante anime non ne fanno caso, non pensano che, se morissero in quel momento, se ne andrebbero eternamente nell'inferno.
E poi altre.
Oh, la massima di Savio Domenico, Domenico Savio era quella: “La morte ma non peccati”. Fin lì è l'osservanza dei comandamenti. Invece Vigolungo Maggiorino era arrivato sì a quel punto, ma più di tutto tendeva, già aveva capito la perfezione; e già emetteva voti per un mese, per due, come in prova; e aveva capito l'apostolato, l'apostolato della stampa. E soprattutto quella delicatezza gli veniva... e si lavorava per preparare i giovani alla vita che un giorno si sarebbe prospettata... [si interrompe]

Trascrizione del file: 1961-10-26_ssp_Carita.mp3
durata 29.45

Don Giacomo Alberione - 26/10/1961 - ai sacerdoti ssp

La carità


A Gesù eucaristico la carità. Egli ci ha amato fino a farsi nostro cibo.
Il mistero di amore. E allora il suo ministro come dovrà essere?
Il sacerdote è un predicatore della carità e ha un esercizio, un lavoro, tutto di carità, ed è chiamato a spargere nel mondo la pace, la benevolenza, la carità.
Abbiamo ricordato giorni fa come in questo tempo la Chiesa ci fa considerare il Purgatorio, 2 novembre e tutto il mese: compassione e carità verso i defunti.
Ci ha fatto considerare nella giornata missionaria la carità verso coloro che non hanno ancora avuto la luce del Vangelo, i benefici della Redenzione, e poi l’amore verso i santi, il desiderio di essere con i santi, l’invocazione ai santi: là l’Eterno Amore, in Paradiso.
Chiediamo dunque la grazia di praticare questa virtù, secondo Gesù, carità universale, carità soprannaturale, carità fraterna e virtù teologale; quindi, strettamente unita con la carità verso Dio, forma anzi una sola carità, la carità verso il prossimo; perché se noi amiamo Dio in se stesso, per le sue perfezioni, la carità verso di Dio; se noi amiamo l’immagine di Dio nelle creature, la carità verso il prossimo, costituiscono quindi un solo comandamento e un modo diverso di amare Dio, la carità verso il prossimo, la carità fraterna.
Allora si capisce che essendo un modo di amar Dio, si capisce quel che c’è nel Vangelo. E cioè che quel che facciamo di bene al prossimo, il Signore lo ritiene fatto a sé, perché passa attraverso il prossimo, ma va a Dio, quindi la carità è un modo di amar Dio.
Possiamo ricordare le parole che nostro Signore [ha detto], secondo che è stato già annunziato: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere; ero ignudo e mi avete coperto; infermo, carcerato, mi avete visitato” ecc. “Ogni volta che lo avete fatto a uno di questi fratelli, anche il minimo, l’avete fatto a me”. Dunque il premio a conclusione! Cioè premio perché realmente si è amato Dio. Allora: “Intra in gaudium Domini tui”.
Abbiamo da considerare le parole di San Giovanni: “Chi ama Dio, ama anche il fratello; e chi non ama Dio, non amerà il fratello”: chi nega Dio, non può amare i fratelli.
“Chi odia il fratello è un omicida” dice san Giovanni. San Giovanni aggiunge ancora: “Noi sappiamo che dalla morte siam passati alla vita”. Perché? Perché “diligimus fratres”, perché amiamo i fratelli. E coloro che hanno abbracciato il cristianesimo, ecco, questi hanno la carità. E il segno che amano Dio è appunto questo che si mostra amando il prossimo, il prossimo per amore di Dio.
Come dovrà essere la nostra carità? Perché dobbiamo venire subito alla pratica. La nostra carità deve essere soprannaturale, in primo luogo: non amare per simpatia soltanto; non amare per utilità materiale; non amare perché vi sono tendenze e magari cooperazione al male; amare soprannaturalmente, cioè amare il prossimo, il fratello immagine di Dio soprannaturale. Perché sia meritoria la carità, sia meritoria. Perché, se amiamo il prossimo solamente per noi stessi, per vantaggio proprio, è egoismo, quindi opposizione alla carità.
Se uno facesse la propaganda solamente per i soldi, come fanno alcuni che sono fuori di noi, allora quello è un amore a se stessi, e cioè per guadagnare per lucro proprio, se non ammettono l’intenzione soprannaturale: cioè Dio.
Come amiamo i bambini? Come amiamo i fratelli? Come amiamo gli scolari? Come amiamo il mondo, le anime, i lettori, ecc.? È soprannaturale.
Secondo: la carità che sia universale: non escludere, non antipatie, ma benevolenza verso di tutti. Si capisce, la carità è ordinata, comincia dai più vicini, da quelli che son più stretti a noi per vincoli di religione, di sangue o per altri vincoli, per esempio, di riconoscenza.
Che questa carità quindi sia veramente larga, universale, comprenda anche gli avversari. Combattere l’errore, ma salvare la persona. Carità universale: quindi non particolarità; carità universale: e perciò non conservare odi, anche se avessimo ricevuto dispiaceri.
Poi carità generosa in quanto che noi spendiamo il tempo, le ore in tante maniere per il prossimo. Sicuro, molte volte sarebbe più comodo non andare a confessare; ma se quello è il dovere, se le anime aspettano, sappiamo sacrificare il nostro tempo; e se c’è un altro compito di apostolato, ecco. Carità generosa e operante, che non sia soltanto di sentimenti. Alle volte vi sono lettere che sono piene di sentimentalità, di proteste, per gli auguri ecc.: va bene esternar l’affetto, ma bisogna che parta di dentro, che parta di dentro, cioè per motivo soprannaturale.
Allora che cosa dobbiamo fare per non offendere la carità? Non offendere con giudizi contrari al prossimo e se sono giudizi interni è sempre un’offesa alla carità; se poi si sono manifestati, allora andiamo nella maldicenza, eccetto che ci sia un bisogno di riferire o di giudicare perché uno ha la responsabilità di dare un giudizio. Giudizi: quante volte si sbaglia!
È forse facile giudicare l’operato di una persona che si è trovata in circostanze diverse dalle nostre? Quante volte non si sanno valutare queste circostanze diverse per cui uno ha dovuto fare così, ha dovuto parlare in quel senso.
Si può andare anche all’eccesso: vere calunnie. “Ma ho sentito dire”: ma se le ripeti, le fai tue. E poi evitare le parole offensive, particolarmente quando ci sono discussioni, ed evitare le discussioni aspre. Può ciascheduno esporre il proprio modo di vedere; si può anche ripeterlo per spiegarci meglio, il nostro modo di vedere; ma l’asprezza non porta del bene, non porta del bene. Quella tendenza sempre a scoprir dei mali, è brutta, è tutta contraria alla carità! Perché la virtù della carità porta a scoprire il bene, e vi sono persone che sanno sempre trovare un po’ di bene in un altro, ancorché ci siano dei difetti, sì.
Si notava quello in una persona: per quanto si trovassero delle accuse contro di uno che aveva operato il male, trovava ancora sempre qualche ragione per scusare: era il difensore degli assenti, oppure per rilevare qualche buona qualità.
Rinfacciare poi certi difetti e metterli in ridicolo, alle volte apre una ferita in un cuore, e non sappiamo quali risultati avrà, quale tristezza porterà nella vita.
Misurare le nostre parole, perché non tutti hanno lo stesso carattere e uno si disgusta e pena per una ragione, l’altro per un’altra. Tanto meno poi ci possono essere altri due inconvenienti contrari alla carità: la vendetta e lo scandalo. La vendetta e lo scandalo. Ricevuto un dispiacere, si aspetta l’occasione per ricambiarlo, magari aumentando, caricando la dose. E lo scandalo, lo scandalo può essere di parole o di atti. Lo scandalo può essere verso fanciulli e può essere verso compagni di uguale età; lo scandalo può essere nell’omettere una cosa e può essere anche nel fare una cosa. sì; Lo scandalo <può essere,> è vero, generalmente si riferisce al sesto comandamento, ma al quarto, l’obbedienza; alla povertà, quando si dà cattivo esempio perché si offende la povertà; può essere lo scandalo contro qualsiasi altra virtù, tutte le volte che si offende una virtù esteriormente, che ci può essere una persona che può essere scandalizzata, allora si ha.
Poi il Signore ci rigrida il male ancor degli altri, cioè di dover render conto delle cose altrui. Alle volte sono delle invenzioni, e tante volte è perché uno ha il difetto al sospetto anche.
Venendo alla parte positiva, ecco, prendiamo le parole di san Paolo che fanno per la nostra comunità, cioè per ogni Istituto religioso: “Abbiate un sol pensiero”, l’accordo, ”un solo amore”: quindi il pensiero e poi l’amore; e poi aggiunge “una sola anima e un solo sentimento”. In comunità, in un Istituto, questo deve essere ciò che in primo luogo è da curarsi. Unione di pensiero, un solo pensiero; unione di cuori, un solo amore; unione di spirito, una sola anima; unione di tendenze, un solo sentimento.
San Paolo lo scriveva così alla chiesa, là; ma fa molto per noi, perché la chiesa, una chiesa è sempre una chiesa, cioè la chiesa è un’unione; e noi siamo ancora di più che l’unione semplice che corre fra i cristiani.
Non così facilmente mostrare pensieri contrari e creare dissidenze. Aggiunge a questo punto san Paolo: “Con umiltà ognuno si reputi minore degli altri”, o meglio “reputi l’altro da più di sé”; e “nulla si faccia per spirito di parte”: alle volte si hanno simpatie, tutto è concesso, in tutto lo si favorisce, e gli altri?
Allora, continuando sulla parte positiva: sopportare i difetti. E alle volte uno è un po’ più taciturno: sopportarlo; e un altro è più chiacchierone: sopportarlo; un altro ha più gusto per una determinata cosa che <non è poi> è indifferente: e allora accontentarlo con facilità, anche se a noi non piace. In tutto quello che è lecito, contentare, adattarsi, sopportare i difetti! E chi non ne ha? E chi non ne troverebbe, se vuole, nel prossimo? Eh! se ne trovano dappertutto! Sopportare le noie: e proprio quando si vorrebbe fare una cosa, invece vi è un ostacolo, ecc. Sopportare.
Poi, perdonarci. Persone che non la perdonano! E allora che frutto dalla comunione? “Vade prius reconciliari fratri tuo e poi vieni e fa’ l’offerta”. Dunque il Signore lì mostra che preferisce alla nostra offerta, preferisce la carità con il fratello; perché non l’accetta Dio, perché non parte dal cuore che ami, dal cuore retto; e quindi preferisce la riconciliazione con il fratello, che non il dono che si fa a Dio: “Vade prius”. E allora cosa si fa?
Dice l’autore che leggevo oggi: “Vedi, tu restringi il cuore; ma tu costringi Dio a restringere la tua mano con te nella distribuzione della grazia. Ne perderai sempre tu. E più sei benevolo, più sei largo, più sei compassionevole, e più troverai compassione, aiuto, misericordia presso il Signore”.
Oh, c’è un po’ da giudicare, cioè da riflettere sopra il comando che Gesù ha dato: “Praeceptum novum do vobis” e cioè “ut diligatis invicem”: quello è chiaro; ciò che è da valutarsi in quella espressione, è il punto, la perfezione a cui vuole che arriviamo, Gesù: in che modo amare il fratello? “Sicut dilexi vos”: amare come Gesù ha amato. Che perfezione altissima ha indicato qui! Chi passerà la carità di Gesù? Quel “venite ad me omnes”, tutti, anche i crocifissori. Per lui: “Sicut dilexi vos”.
Ora, come ci ha amati? Ci ha amato per primo, perché ci ha creati quando non c’eravamo, il Signore. Poi ci ha amato per primo: “Propter nos homines et propter nostram salutem” ci ha amati, poi adesso ce la comunica la salute. Poi ci ha amato fino a che punto? Da dare la vita, fino a dare la vita. È un eroismo questo, sicuro. Carità che si sacrifica, come fanno i missionari nei lebbrosari.
Amare, amore di compassione. Pietà di chi soffre. Quando uno soffre, cerchiamo di sollevarlo. Quando uno pena per una disgrazia, cerchiamo di condividere un po’ la pena. Se pensiamo che ci sono anime che alle volte sono disorientate, anime tormentate, anime che si sono fatte dei castelli in aria, così, ma in certi momenti vedono tutto brutto, vedono soltanto le difficoltà: essere un po’ di luce, dare un po’ di chiarimento, un po’ di conforto; così come vogliamo in questi giorni fare, dare un po’ di sollievo alle anime purganti, un po’ di sollievo, di conforto. Amare di più quelli che sono infelici, quelli che non sono amati, quelli che sono contraddetti, quelli che soffrono in sostanza. Eh, si sta bene nei salotti o nelle conversazioni piacevoli o quando tutto è lieto e sereno; ma il Signore Gesù è disceso dal cielo <per>, il Figliolo di Dio è disceso dal cielo per sollevare l’umanità dal suo abisso di miseria. Aver compassione.
E poi “tradidit semetipsum pro nobis”, sacrificarsi. E allora possiamo arrivare anche tutto il giorno a spenderci nei vari apostolati. “Mi spenderò e sopraspenderò”, dice san Paolo. E vi sono di quelli che si sopraspendono. Che begli esempi abbiamo intorno a noi in congregazione! Come son tesi verso i loro doveri, per utilizzare il tempo, per dedicarsi a molte cose, ecc. “Mi spendo e sopraspendo”: sì, ci vuole il conforto e il riposo; ma poi l’utilizzo del tempo, quando si è già avuto il riposo necessario.
Poi ancora riparare i peccati. Ripariamo un po’ i peccati dei penitenti. Il santo Curato d’Ars, Vianney, Giovanni Battista Vianney dava poca penitenza e poi soggiungeva: “Tu ne vuoi molta! Il resto la faccio io, di penitenza”. Eh, facciamo tante volte così, eh! Perché? Perché noi abbiamo certe cognizioni; sappiamo che cosa è il sacerdote: è un altro Cristo. Ma Gesù Cristo come è stato? È il Salvatore, colui che ha riparato, ha pagato di persona, di sangue. Sì, sapere sacrificarsi un poco, nelle varie circostanze, sapere. E riparare poi i mali perché si possano salvare quelle anime che hanno mancato, sì. Riparare! riparare in tante maniere, anche con la mortificazione.
Ora, quindi “sicut dilexi vos”: tenere a memoria questo: quando arriveremo alla carità di Gesù? Quando è che Gesù vivrà nel nostro cuore, cioè il suo cuore vivrà nel nostro, quel cuore che ha tanto amato gli uomini? Sì, certamente, se siamo sacerdoti, ci siam fatti sacerdoti per amore delle anime, per amore di Dio; però, ecco, allora avevamo già delle sante disposizioni, però si possono crescere, sempre più perfezionare. Sempre più uniformare il nostro cuore al cuore di Gesù. Largo il cuore! “Venite ad me omnes!”, non “pochi”. Eh! sì, Gesù ha predicato soltanto in Palestina; sì poi ha mandato in tutto il mondo gli Apostoli. Là in Palestina doveva provare che era il Messia, doveva compiere la sua missione. E come l’ha compita! Allora pensiamo che siamo mandati a tante anime.
Conclusione è questa, sì, cioè: mettere la Carità come la virtù distintiva del sacerdote. Tutti devono amare, ma “sicut dilexi vos” il sacerdote: amare come ha amato Gesù Cristo.
L’esame sarà duplice: se non offendiamo la carità; secondo se osserviamo la carità, e cresciamo in carità.
Sia lodato Gesù Cristo.

Trascrizione del file: 1961-12-23_ideale.mp3
durata 23' 16''

Don Giacomo Alberione - Roma, 21-12-1961 - ai sacerdoti SSP [manca finale]

Formare il giovane all'ideale paolino


Abbiamo considerato nel ritiro mensile la necessità di formarsi un ideale e sapere formare quest'ideale in coloro che <ci> sono affidati alle nostre cure.
Il vangelo è libero nell'accettazione, cioè non forza; ma propone la verità ed esorta ad accettarla e offre i mezzi di grazia per accettarla e per praticarla, viverla.
Occorre che si arrivi a suscitare in chi è aspirante l'interesse per ciò che dobbiamo loro dare, il desiderio, la sete, in maniera che sia attirato: attirato dall'ideale e poi attirato dalla grazia di Dio, perché “Nemo venit ad me nisi Pater meus traxerit eum”.
Che cosa ci vuole nel giovane perché impari? Si ha un bel far scuola, scegliere i programmi, ordinare gli orari, mettere insegnanti che siano competenti e procurare i libri e gli ambienti e anche tutto l'arredamento scolastico: se non ha voglia, se lo scolaro è svogliato, lui non impara. E così si vede che poco a poco si distinguono i volenterosi dai non volenterosi e che alla fine conchiudono bene i volenterosi e restano rimandati i non volenterosi.
Quello che avviene nello studio, avviene tanto più nello spirito. E cioè ci vuole il movimento interiore dell'aspirante, se no non aspira, perché non ha ancora formato l'ideale e forse neppure presta attenzione perché in lui si vada sviluppando questo ideale. Se non c'è questo, non si acquista mai la personalità, non è mai un uomo fatto: bambini di trent'anni, quarant'anni, cinquant'anni e magari di settant'anni, oh! E cioè quello che dice là il vangelo a un certo punto, alludendo Gesù a coloro che non volevano sentirlo, non volevano apprendere la sua parola: <come> “Abbiamo cantato e voi non avete risposto”, come i bambini.
Allora formare l'ideale e formare l'ideale paolino! L'ideale: cioè vivere Gesù Cristo, il vangelo e vivere secondo l'esempio di san Paolo, che per noi è la bandiera cui seguire.
Questo però si prende sotto varie forme: può essere che uno si senta più impressionato [dal]la gloria, l'eternità felice, conquistare l'eterna beatitudine, l'eterna felicità, aspirarvi con tutto se stesso; e un altro invece si orienta di più nel guardare a Maria, seguire Maria: è attratto da lei, attratto dal suo ideale di santità, dal suo esempio di virtù e rifugiandosi sotto la sua protezione.
Sviluppare l'ideale affinché facciamo della gente ragionevole, persuasa; giacché, quando avrà da fare la scelta, se non si sente più attratto da Dio che dal mondo, sceglierà il mondo, anche se il Signore gli aveva dato la grazia della vocazione, l'aveva destinato ad uno stato più perfetto.
L'ideale della perfezione: “Voglio progredire un tantino ogni giorno”, da che cosa nasceva? Da persuasione profonda e dalla considerazione delle verità eterne; e poi questa considerazione coadiuvata dalla preghiera. Perché poi, se c'è un bell'ideale e non c'è la preghiera, “video bona...” e intanto che cosa si segue? Intanto si segue quel che è male. Perché manca allora la forza per l'infermità umana. Se manca la preghiera, ecco, possiamo anche aver tutti i doni che avevano Adamo ed Eva e poi fare un fallimento completo.
Formare positivamente l'ideale, ma sottrarre il giovane dalle influenze contrarie. Perché si raccolgono i giovani negli istituti religiosi, nelle scuole apostoliche, negli scolasticati e nei seminari? Per sottrarle, questi figliuoli e queste figliuole, per quanto <si> riguarda la vita religiosa femminile, sottrarle dalle influenze del mondo. Nell'anima del giovane a un certo punto può combattersi nel cuore questa doppia tendenza: il cuore può esser sollecitato da un parte e dall'altra. Occorre che l'ideale sia vivo, profondo nello spirito e stabilizzato.
Perché si sottraggono i giovani dall'influenza del mondo? Se incominciano a seguire compagni che non sono buoni, a seguire divertimenti e proiezioni e poi altre cose anche qualche volta più cattive, l'ideale puro dell'anima innocente viene a perdersi, a poco a poco scompare. E si constata largamente nel mondo che i giovani, dopo che hanno fatto quello che dovevano fare, – bambini di sei sette, dieci, dodici anni, magari sulla buona strada e le associazioni giovanili sono frequentate, – ma dopo un anno o due che vanno in officina e vanno alle scuole pubbliche e frequentano divertimenti, spettacoli e compagni e impiegano malamente il tempo libero eccetera, – proprio diceva: – i nove decimi lascian la pratica cristiana, abbandonano la chiesa, perché nelle officine, nei laboratori e nelle scuole apprendono poi cose contrarie, oh.
Così se la nostra formazione non prende tutto il giovane, non dura. Bisogna che ne sia convinto e poi entusiasmato e poi accompagnato dalla preghiera e poi abituato non solo a pensare secondo il vangelo, ma anche a operare secondo il vangelo. E così con l'entusiasmo, egli preferirà il cielo alla terra, se è tutto preso. Se non è tutto preso, che cosa costruiamo? Anche se ci fossero delle ottime scuole e scuole per le materie civili e se ci fossero delle ottime lezioni di catechismo, di religione, certo sarebbe insufficiente. Bisogna dare l'ideale completo.
Sì raggiungere, nella perfezione raggiungere il paradiso; ma con l'aiuto di Dio, con la fuga di quello che potrebbe attrarre: e la facilità che si trova nel giovane a esservi trascinato.
Quindi regola massima di pedagogia: affinché il Vangelo sia veramente accettato e la vocazione accettata e seguita, creare delle profonde persuasioni e poi far pregare.
E allora la preghiera aiuta l'illuminazione dell'anima; l'illuminazione dell'anima sostiene la preghiera e con l'aiuto esterno della disciplina, dell'insegnamento, eccetera, si forma un carattere, si forma una personalità.
Come il giovane vuol veramente imparare e particolarmente quando è giunto una certa età, – supponiamo [nel tempo in cui si studia] teologia – vuole convincersi delle cose, allora si dà allo studio. E si vede che alle volte vanno a chiedere spiegazioni e studiano anche magari un po' fuori di tempo e cercano un libro, ne cercano un altro per approfondire. Se c'è questo nella parte spirituale, allora il giovane ricorre, sta attento alle prediche, ai catechismi, annota quel che fa per lui, prende le risoluzioni e poi ricorre al direttore spirituale e poi segue quella disciplina che è formativa, costruttiva, eccetera; è lui che ha l'iniziativa.
E le altre cose? Quello che si è ricordato, la parola di san Paolo: “Omnia vestra sunt, sive Paulus, sive Apollo, sive Cephas”,< sive praeterita et sive futura> ”sive praesentia sive futura”, ecco. Allora tutto è a disposizione e nell'Istituto, tutto: basta che il giovane abbia la sete, la voglia, sì.
Diversamente noi facciamo delle imbastiture, ma non facciamo veramente il carattere e la personalità. Imbastiture che stanno in piedi fin che c'è l'elemento esterno che sostiene e che si sopporta; ma [succede] che non si assimila quello per cui è ordinato l'ambiente esterno, oh!
Come ha operato Gesù? come hanno operato i grandi educatori? Domandava quel protestante a don Bosco: “Ma come mai? Con tanti giovani, eppure qui vige la disciplina! e vi seguono, vi amano e poi anche perseverano, quando vanno fuori nel mondo!”. E: “Due mezzi: predicare e sacramenti, predicazione e sacramenti”.
Quindi formare la convinzione, istruire, istruire nella religione e nella vita cristiana e nella vita religiosa e nella vita sacerdotale, in tutto quello che serve per corrispondere al volere di Dio su un'anima; al volere di Dio, cioè quando vi è la vocazione. E se tuttavia non vi fosse la vocazione, quando c'è una istruzione profonda e tale da persuadere, durerà. E anche se per un momento è un po' oscurata dalle passioni, si ritorna, più o meno si ritorna sulla via buona.
Oh, dunque massima regola: predicazione e preghiera, sacramenti in modo particolare. E l'abitudine creare, formare nel giovane, di pensare rettamente e saper giudicare rettamente, saper fare il confronto fra una vita e l'altra. E quindi vivrà la sua vocazione nella gioia, in un santo ottimismo; ricorrerà alla direzione spirituale. E allora non è che il maestro abbia da far mille domande, che debba chiamarlo e che quando è lì si trova un po' sulle spine il chierico, per le interrogazioni che gli vengono fatte e per il direttore spirituale che sa che la sua parola non è corrisposta e non lo si vuole udire, non si vuole udire l'avvertimento del superiore, perché non c'è la volontà interna, perché manca la persuasione, manca la voglia di fare, la volontà. E quando c'è invece l'ideale ben sviluppato e la preghiera assieme, come si ascoltano le meditazioni, le prediche, come si ascoltano i consigli! Non solo li accettano, ma vanno a cercarli; e cercano i libri migliori di meditazione e cercano i migliori libri di lettura spirituale e si servono anche alle volte delle correzioni, delle osservazioni che vengono dai compagni. In sostanza allora tutto contribuisce alla formazione, contribuisce alla formazione. Se si stabilisce poi finalmente una personalità, se si è formato un carattere, un carattere cristiano, un carattere paolino, quello rimane, quello rimane.
E allora cosa avviene? Avviene nella vita che sentiamo della gente a cinquant'anni che già dice: “Eh! ormai sono vecchio, cosa vogliono ancora da me?”. E vi sono altri che invece vivono l'ideale e si sentono sempre interiormente portati dall'ideale, anche dall'entusiasmo, dall'ottimismo. Oh, gente svogliata e gente invece tutta su se stessa. E cioè: impiegare tutte le energie tutti i momenti per l'eternità, per seguire il volere di Dio, per arrivare ad una santità distinta, per vivere il Vangelo, per vivere nello spirito paolino. Ecco.
Allora uno non si stanca; e anche quando è stanco darà ancora al Signore quello che gli rimane di forze, sì. E anche quando viene a esser privo di forze, rimane ancor la vita da offrire al Signore. E quindi accetta volentieri, accetta volentieri la morte; perché allora, unito al sacrificio di Gesù nella messa, può giovare quella citazione che è una grande preghiera: “Fiat voluntas tua sicut in caelo et in terra”. Quell'offerta gioverà a tutti coloro a cui si desidera del bene, della grazie e gioverà per la gloria di Dio e gioverà ad acquistare l'ultimo merito, il merito più grande, che mette il sigillo a tutti gli altri meriti della vita.
Crescer in sapienza. “Crescebat sapientia aetate et gratia”: prima la sapienza. Perché qui si parla della vera sapienza, di quella che deve possedere ognuno, anche che non avesse studiato niente e che non sapesse neppur l'alfabeto. Vi è una sapienza che è soprannaturale, che viene da Dio, che procede da meditazione, che fa considerar la vita nel suo vero aspetto di preparazione all'eternità: la vera sapienza. E allora tutti i ragionamenti dipendono da quelle persuasioni profonde, tutte le decisioni sono illuminate da quelle persuasioni profonde.

Primo: l'ideale in noi paolino è vivo ed operante? E cerchiamo tutte le occasioni per viverlo sempre meglio e renderlo sempre più operante?
Secondo: seguiamo quella massima è necessaria norma pedagogica di formare della gente, formar dei cristiani, formar delle vocazioni; cioè illuminare, persuadere, scioglier le difficoltà togliere il giovane dagli influssi cattivi.
[si interrompe]

Trascrizione del file: 1961-12-21_vigolungo.mp3
durata 24' 58''

Don Giacomo Alberione - Roma, 21-12-1961 - ai sacerdoti SSP

Maggiorino Vigolungo, ideale paolino, preghiera


Ora come Maggiorino cercava di realizzare e sviluppare quell'ideale di vita che si era andato formando poco a poco, ma anche abbastanza presto, anzi si può dire tutto un complesso che indicava in lui un carattere e tutto lo sviluppo precoce.
Occorre allora che noi sappiamo infondere quell'ideale, quel triplice ideale negli aspiranti; triplice ideale che si può ridurre anche ad uno. E allora quando il maestro, il confessore, il predicatore e quanti hanno la cura dei giovani, <se> sono uniti, tutti questi ecco che formano come un unico educatore: gli stessi insegnamenti, lo stesso modo di parlare, il contribuire ciascheduno per la propria parte a sviluppare l'ideale.
Quando questo già si infonde nei primissimi giorni, poi si va sempre meglio allargando: in terza media, in quarta già si distingue un po' chi è chiamato per quella via, chi non è chiamato.
Chi non è chiamato rifiuta, rifiuta senza opporsi positivamente. Ma l'acqua non si combina con l'olio, ecco, e l'acqua è buona e l'olio è buono, ma non si combinano, perché non assorbono, non assimilano. Si distingue allora quale sia in fondo la tendenza: se vi sia veramente un'anima docile, aperta e chiamata per quello, con i doni di Dio ordinati a quello: la tendenza, la vocazione in fondo. E perciò si possono aiutare: ciascheduno venga messo sopra la sua strada.
Condizioni: prima bisogna possedere l'ideale, diversamente si può recitar la lezione in una predica e si possono dire delle cose così superficialmente, ma non si comunicano: è come dare il pane duro a un bambinetto che ha otto o dieci mesi. Perché? Perché la mamma deve masticare in primo luogo lei il pane e la mamma deve gustare se il latte è caldo troppo oppure non sufficientemente, poi deve darlo con piccoli sorsi. Ma pensa a nutrire il bambino così che il bambino a poco a poco va crescendo perché ha il sufficiente nutrimento e dato in proporzioni giuste. Però bisogna possedere questo cuore di madre, questo cuore di padre, possedere questo ideale, se no è come dare del pane duro a un bambinetto di dieci mesi, dodici mesi. Primo possederlo.
Secondo: instancabilmente quando si hanno questi ideale, si ordinano tutte le meditazioni, le istruzioni, i consigli dal pulpito, nella meditazione, al confessionale, nelle preghiere che ci suggeriscono, le letture che si indicano e si fanno fare o in refettorio oppure nella lezione spirituale quando c'è la visita, eccetera, viene tutto come ordinato ad unum, ordinato ad unum. Se si possiede si dà, se non si possiede nemo dat quod non habet. Perciò l'esame di coscienza su di noi.
Secondo: questo nutrimento che va sviluppandosi e sempre adattandosi allo sviluppo del fanciullo in una pedagogia ben ragionata, ma non solamente a base di princìpi, ma a base di contatti, di considerazioni e di studio del giovane, studio del giovane, non solo la massa, ma ciascheduno: e lì è la direzione spirituale.
La quale qualche volta sembra che sia indirizzata a cose accessorie; ma il fanciullo, il giovanetto ha dei problemi suoi, adatti all'età. La mamma fa il vestito secondo la statura del bambino: a se anni, a otto anni, a dodici anni e a quindici anni.
Oh, quando si tratta di anime, si tratta di gioventù: che grande problema! che grande missione vi è! E non solamente tutto quel che è l'apparato esterno, ma il maestro, l'assistente, il capo dei reparti e chi predica e chi confessa e tutti quelli che convivono, perché bisogna anche considerare il valore del buon esempio: allora ecco si hanno dei risultati consolanti.
Ma non basta tutto questo, quest'apparato: la preghiera, la preghiera! Pregare e far pregare! Pregare per le singole anime e accompagnarle nel loro lavoro, tanto più perché siano emendati i piccoli difetti, siano evitate le piccole mancanze, i peccati veniali. E poi naturalmente che l'animo venga gradatamente formato allo spirito di – se vuole esser religioso – allo spirito di povertà, alla delicatezza di coscienza, all'obbedienza. E se vuol esser sacerdote? Eh, vi sono tutte le condizioni e tutto quel che si fa in un seminario, che viene aggiunto a quello che si deve fare come religiosi e all'educazione religiosa. E poi tutto quell'amore, l'entusiasmo per l'apostolato, perché si tratta di aggiungere quello [che è] caratteristico nella vita paolina. Ecco. E da quanto assimila si giudica la vocazione.
Ma non basta poi che uno sia arrivato a 15 anni, 16 anni; bisogna che tutta la scuola sia ordinata sempre in meglio. Ad esempio <giudicare> nella scuola della letteratura italiana o lettura estera letteratura antica e letteratura nuova, recente, moderna, bisogna sempre giudicare tutto in ordine alle anime: se quello favorisce la moralità, se quello favorisce la formazione del cristiano o no, se è contrario. E la scuola di liceo prende un altro, un altro timbro, sì. Così si deve dire di tutti gli altri studi. Ma sempre poi unire pietà, studio, apostolato, formazione umana. Ecco.
Scelto l'ideale, come lo assimilava gradatamente?
Primo: l'umiltà. Ho ricevuto credo solo due lettere da lui, eccetto quelle di augurio: Natale e onomastico. La firma sua era: “Sono il suo più indegno alunno, Vigolungo Maggiorino”.
Castità. Notò Maggiorino nel taccuino: “Chi vive castamente non si perderà”. E in questo punto aveva delicatezza specialissima. Chi guarda la sua figura, lo vedrebbe come attillato. I suoi erano poveri, ma molto ordinati. E se anche gli abiti erano rappezzati, però sempre puliti e ben sistemati riguardo alla persona. E perciò anche il comportamento era sempre un po' distinto. Il padre soprattutto <nella forma> gli aveva formato lo spirito, l'anima; la madre più quella formazione esteriore. La sua modestia di sguardi a passeggio sembrava anche un po' esagerata; ma, istruito, allora si pose nella giusta misura.
Fuggire le occasioni: come tutti i giovani, specialmente se di carattere ardente, Maggiorino era tentato spesso violentemente. Il suo stesso timor di peccare lo preoccupava fin troppo e gli causava quindi tentazione. Ma il demonio lo trovava sempre vigilante e mortificato. E se la tentazione era superata, andava a consigliarsi: “C'è forse stato consenso?”. E allora, venendo illuminato, si comportava di conseguenza.
E ho già detto che in tipografia vi era un barattolo per la pasta di chi legava libri; e c'era una figura, che è poi ordinaria. E perché neppure la vedessero i più piccoli, egli aveva impiastricciato il barattolo. E: “Ho coperto varie volte questa figura e torno sempre a trovarla in questo modo!”, perché facevano anche la pulizia i compagni. “Ma è poi veramente brutta questa figura?”. “Ed io questa volta la raschierò addirittura: nessuno più la vedrà”. Quando era ammalato, anche con la mamma non voleva esser troppo toccato: era piuttosto riservato, più che <a> un fanciullo alla sua età. La mamma aveva detto che anche quando per il male – meningite, ultimo suo male – vaneggiava, se venivano a fargli certi servizi non delicatamente, si riprendeva quasi con energia.
Teneva i suoi quaderni di bella copia puliti e in ordine. Tutti i ragazzi avevano il loro armadietto e vistando l'armadietto alla domenica, quando si passava da ciascheduno, si trovavo le cose a posto: le scarpe eran sempre lucide: il paio di scarpe che doveva essere adoperato nei giorni festivi, gli altri nei giorni di lavoro; e anche la biancheria ripiegata bene.
Oh. L'amore alla povertà. Quando andò in vacanza, sua mamma ebbe a dire: “Questo benedetto figliuolo non si interessa più dell'andamento delle campagne nostre, degli affari di casa, pare che vada sempre più distaccandosi e considerando la scuola tipografica come la sua casa ormai”. E non parlava che di altro. E molto sanguigno.
Mortificazione. I geloni li soffriva molto, alle mani e anche ai piedi. “Sarebbe meglio non averli per poter lavorar di più”, disse un giorno, “ma la volontà del Signore è che li sopportiamo”. Offriva costantemente al Signore quell'incomodo. Gli inverni allora erano in generale più rigidi di quanto adesso.
Oh, <non lo si deve> quanto all'uso del tempo. Spesso in tipografia era lasciato a lavorare da solo fuori dallo sguardo degli assistenti, anche perché, dopo sei mesi che era in casa, già aveva imparato a guidare bene la sua macchina e quando vi era da stampare dopo cena perché i periodici non dovevano subire ritardi, – bollettini, Gazzetta, – andava anche in tipografia da solo e poi <si prendeva> più avanti si prendeva un compagno.
E dovette far un certo sacrificio: aveva paura dello scuro, – suo carattere – di andare in una camera buia. E si fece uno sforzo per vincersi anche in quello.
Il maestro Giaccardo, il suo maestro che l'aveva così spesso sott'occhio, scrisse di lui: «“Per il Signore, per amor di Dio”: quante volte ho udito questa risposta da Maggiorino allorché gli chiedevo: “Perché fai questa azione?”».
La lotta spirituale. La vera santità si conosce dalla continua lotta contro le nostre cattive inclinazioni. Ed è proprio per questo che ho creduto utile scrivere queste pagine, perché raramente si trovano anime che conducono una lotta così costante, così energica a quella età. E questo specialmente per moderare il nervoso e l'ira cui era inclinato. E qualche volta tra ragazzi erano facili le piccole occasioni di bisticci: quando poteva, evitava; se qualche volta vi era preso in mezzo e poteva eccedere, domandava scusa, si metteva a posto. Un compagno gli domandò per almeno venti volte un favore – così, durante alcuni mesi – che Maggiorino non poteva concedere e con insistenza tale che doveva riuscirgli penoso il richiederlo. Si poteva benissimo vedere come il povero fanciullo ne soffriva e pregava l'altro a non chiederglielo. E una volta a un compagno che in studio gli domandava: “Non è ancora ora della colazione?” [rispose:] “Adesso è ora di far silenzio!”.
Fervore di volontà. “Con la grazia del Signore e della Madonna voglio farmi santo e grande santo. Basta peccati! meriti meriti ora! Avanzare quindi un tantino di virtù ogni giorno”. E poi ciò che seguiva nel quaderno: “Mio Dio, voi solo io voglio e niente più”; “O Gesù mio, io voglio farmi santo, aiutatemi!”; “Gesù, aiutatemi, voglio farmi santo, veramente santo, sul serio santo”; “Preghiamo e non stanchiamoci mai”; “Possa io dire al fine dell'anno: non ho fatto quest'anno alcun peccato. E dunque che cosa mi aspetta? Il paradiso”; “Chi prega si salva, chi non prega si danna”; “Bisogna dire ogni giorno: voglio, voglio, voglio”.
E fra le sue meditazioni quelle a cui stava anche molto attento, oltre alle altre, [erano quelle su]i novissimi, i novissimi. E certamente che i novissimi venivano predicati spesso. Perché, se non si orienta verso l'eternità, la vita è senza senso; se non orientiamo i nostri giorni all'acquisto del paradiso, noi possiamo esser della gente che si diverte, ma non fa del lavoro. Ora tutti i giorni che perdiamo o intenzioni storte o perdite di tempo, eccetera: che cosa vale tutto questo per l'eternità? “Pensiamo sovente alla vergogna che ci darebbero i nostri peccati al giorno del giudizio”: [è uno] scritto suo. E si fece anche un correttore, come si consigliava, il quale lo avvertisse degli sbagli. E lì vi erano poi i difetti anche di indole. Allora si potrebbe dire anche quello che era per lui la scuola e lo studio, ma un momento.
Teneva piuttosto allegri gli altri e giocava e cantava volentieri, imparava molto facilmente il canto; si era esercitato e ripeteva anche lodi che avevano cantato in parrocchia. “Perché occupare il tempo? Cacciar via le tentazioni, osservar la regola, che stabilisce la ricreazione per necessario sollievo”.
Quanto a studio e scuola non era un ingegno straordinario ma, come già si è detto, ingegno più che mediocre, in generale. E così si impegnava nella scuola e nello studio.
Oh, poi ci sarebbe tutto quello che riguarda l'amore alla stampa e come non solo si occupava della parte tecnica, ma voleva diffondere. “Ogni buon sacerdote è felice di vedersi nel giorno di domenica un migliaio di uditori a sentire la divina parola. Ora il giornalista buono predica a tutte le ore, tutti i giorni, a molte migliaia di lettori, che pagano anche il predicatore”. “Vedi, mentre oggi noi ci divertiamo o studiamo o preghiamo” – alla domenica, – “circa diecimila anime sentono la nostra predica”: e cioè erano i bollettini parrocchiali e la “Gazzetta”, sì. “Qual predicatore avrà oggi tanti uditori come noi?”. E basta. Non possiamo passare il tempo.

Allora: aver l'ideale, sentirlo; secondo: saperlo comunicare; terzo: saper alimentarlo costantemente. E la ragione dell'ideale serva a determinare l'andamento della vita. Allora quando c'è questo ideale tutto si adopera per conseguirlo. E si può applicare quel che viene applicato: tutto vi deve servire per la corrispondenza all'ideale: “Omnia vestra sunt, vos autem Christi, Christus autem Dei”, sì. “Omnia vestra sunt”: tutto per l'aiuto, per il conseguimento di quell'ideale che il fanciullo si è andato formando nel periodo dell'educazione.
Preghiamo la Madonna per questo, come egli pregava; e quanti rosari [ha detto]!
Sia lodato Gesù Cristo.